“L’amico del popolo”, 7 gennaio 2019

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno III. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

SALON KITTY (Italia, Germania Ovest, Francia, 1976), regia di Tinto Brass. Sceneggiatura di Ennio De Concini, Tinto Brass, Maria Pia Fusco. Basato su Salon Kitty di Peter Norden. Musiche di Fiorenzo Carpi. Fotografia Silvano Ippoliti. A cura di Tinto Brass. Con: Helmut Berger - Helmut Wallenberg, Ingrid Thulin - Kitty Kellermann, Teresa Ann Savoy - Margherita, John Steiner - Biondo, Sara Sperati - Helga, Maria Michi - Hilde, Rosemarie Lindt - Susan, Paola Senatore - Marika, John Ireland - Clift, Tina Aumont - Ilsa Wallenberg, Stefano Satta Flores - Dino, Bekim Fehmiu - Hans Reiter, Gigi Ballista - Generale, Giancarlo Badessi - Gerarca, Margherita Horowitz - Madre di Margherita, Clara Colosimo - Commensale dalla sig.ra Henkel, Mary Cristal - Ragazza, Malisa Longo - Ragazza, Paola Maiolini - Ragazza, Alena Penz - Ragazza, Loretta Persichetti - Ragazza, Margherita Petrucca - Ragazza, Michelle Stark - Ragazza, Patrizia Webley (Patrizia De Rossi) - Ragazza, Salvatore Baccaro - "Mostro" in sala d'esperimento, Alexandra Bogojevich - Gloria, Dan Van Husen - Rauss, Gianfranco Bullo - Wolff, Tito Leduc - Frank, Claus Ruhle - Padre di Margherita, Nick Morelli (Nicola Morelli) - Ufficiale, Luciano Rossi - Ufficiale medico, Alain Corot - Ufficiale "suicidato", Aldo Valletti - Cliente salon, Gengher Gatti, Alison Swaizland, Tamara Triffez, Walter Maestosi.

A Berlino Kitty Kellermann è proprietaria della più prestigiosa casa d'appuntamenti, sebbene il regime nazista l'abbia costretta prima a traslocare e poi a trasformare il proprio locale, il "Salon Kitty" appunto, in un postribolo d'alto rango, destinato solamente a ufficiali dell'esercito.
In realtà, il locale è, a sua insaputa, un sofisticatissimo centro di spionaggio, dove le prostitute, ragazze tedesche tutte rigorosamente preselezionate, raccolgono segreti, timori, confidenze e commenti, soprattutto di tipo politico, dei loro più assidui clienti: se i clienti dovessero esprimere dissenso o idee contrarie al regime nazista, verrebbero giustiziati all'istante dal momento che, nei sotterranei del palazzo, vengono registrate tutte le loro parole.
Il tenente delle SS Wallenberg, a capo dell'intera macchinazione, fa trucidare Hans, un ufficiale stancatosi di combattere per il regime e del quale Margherita, ragazza del locale, s'era segretamente innamorata; quest'ultima, accordatasi con Kitty, gli ritorce contro i suoi stessi mezzi, denunciandolo per alto tradimento e facendolo così giustiziare.

 

“Film d'ambiente e d'atmosfera, più riuscito nel decorativo che nell'analisi delle coscienze, "Salon Kitty" dà alla composizione, grazie alla cura dei particolari e all'assurdo che scivola nell'isterico e nel macabro, un'evidenza allegorica raccapricciante.”

(G. Grazzini - Cinema '76)

“Debutto nell'erotico per il maestro del genere Tinto Brass che chiese di togliere il proprio nome dai titoli a seguito di tagli imposti dalla censura. La sceneggiatura si basa su una storia vera, mentre la regia, pur lanciando il nazi-porno, si basa sul meglio del grande cinema (da Rossellini alla Cavani).”

(In www.filmtv.it)

“Chi ama il cinema disturbante, insostenibile, irripetibile e mai più ripetuto degli anni Settanta, si accomodi, e guardi o registri in qualche modo questo Salon Kitty che del già anarchico Tinto Brass è forse il film più sregolato ed estremo. Un miscuglio oggi impensabile di sesso al limite del pornografico, e di nazismo, feticismo della divisa e degli stivali, sadismi voyeurismi masochismi, uno spettacolo del Male però reso accettabile per il comune sentire di allora (e di oggi) da un’apparente critica al potere e ai suoi soprusi, deviazioni, riti. Il nazismo come precipitato ultimo e definitivo di ogni perversione umana e, dunque, offerto al nostro sguardo nelle sue forme più ripugnanti acciocché scatti l’indignazione. Un memento. All’inizio era stato Luchino Visconti con quel capolavoro, anche kitsch e camp, che era ed è La caduta degli dei, poi arrivò Il portiere di notte di Liliana Cavani. Il canone era definito. Brass nel 1975 lo perfeziona con Salon Kitty, che è poi il bordello di lusso per la nomenklatura del regime hitleriano, anche all’occorrenza centrale di spionaggio. Le prostitute hanno l’incarico di strappare segreti da utilizzare per rese dei conti, giochi di potere, congiure di palazzo, ricatti, oscure manovre. Figuriamoci il godimento del regista nel mettere in scena ciò che offre il bordello - ogni piacere è contemplato - e i suoi clienti. Visivamente formidabile, con quella capacità brassiana di comporre tableaux vivants insieme atroci, ripugnanti e sublimi. Ritroviamo qui la coppia di La caduta degli dei Helmut Berger-Ingrid Thulin, più John Steiner, Stefano Satta Flores, Therese Ann Savoy, Tina Aumont (cult!). Ineludibile.”

(Luigi Locatelli in nuovocinemalocatelli.com)

“Quella del Salon Kitty sembra la storia di un film spy story. Non manca un solo elemento: c’è il sesso, ci sono belle e giovani ragazze, uomini di potere, una guerra mondiale in corso, microfoni nascosti e confessioni registrate, estorte non con la forza, bensì con l’aiuto di Eros e di Dioniso.
Ma quella del Salon Kitty è una storia realmente accaduta. Situato a Giesebrechtstraße 11, nel quartiere berlinese di Charlottenburg, il Salon Kitty era un bordello di lusso, istituito nel 1939 presso la Pensione Schmidt di Kitty Schmidt, meglio nota come Madame Katharina Zammit, almeno fino a quando la “gestione” non passò segretamente al SD - Sicherheitsdienst, i servizi segreti delle SS, la nota organizzazione paramilitare del partito nazista tedesco. Da quel momento in poi la casa di tolleranza divenne un covo di prostitute-spie addestrate appositamente per mettere sotto torchio i clienti e carpire informazioni e affermazioni antinaziste. Il Salon Kitty ispirò Tinto Brass per la realizzazione del film omonimo del 1975, basato proprio sulla storia del bordello berlinese.

La storia
Fin dall’ascesa al potere del partito nazista in Germania, la signora Schmidt aveva messo al sicuro i propri risparmi nelle banche inglesi. Come tanti compatrioti, Madame Kitty aveva infatti deciso di lasciare il Paese per lidi più sicuri e il 28 giugno 1939 cercò di espatriare. Ormai vicina al Belgio, le sue speranze svanirono: Kitty Schmidt fu fermata dagli agenti del SD e portata al cospetto degli alti ufficiali della Gestapo, la polizia segreta della Germania nazista. Lì avvenne l’incontro con i due “ideatori” del progetto del bordello-spia: Reinhard Heydrich, Obergruppenführer (Comandante di Gruppo Superiore) delle SS - secondo solo a Heinrich Himmler - e Walther Schellenberg, ufficiale delle SS e vicecomandante della Gestapo. I due ufficiali nazisti la misero di fronte a una scelta: lavorare per loro o essere spedita in un campo di concentramento. Facile intuire quale fu la scelta della signora Schmidt. La pensione Schmidt venne così convertita nel Salon Kitty: l’edificio fu ristrutturato e l’arredamento “arricchito” con dei microfoni nascosti nelle stanze da letto dove avrebbero operato le prostitute-spie. In seguito fu fatta una selezione fra tutte le prostitute arrestate nel periodo a Berlino e fra queste furono scelte 20 future spie. Le spie furono addestrate e indottrinate per circa 7 settimane, periodo durante il quale impararono come carpire informazioni da conversazioni innocenti oltre che a riconoscere le diverse uniformi e i relativi gradi. Così, con la collaborazione dell’intelligence della Gestapo, il Salon Kitty divenne a tutti gli effetti un luogo di spionaggio.

La clientela del Salon Kitty
I clienti del Salon Kitty erano tutti di un certo calibro, basti pensare a nomi come Galeazzo Ciano (il genero di Benito Mussolini, nonché Ministro degli affari esteri), Josef Sepp Dietrich (generale delle Waffen SS, il braccio militare delle SS), Joseph Goebbels (il più importante gerarca nazista e Ministro della propaganda) e lo stesso Heydrich. Le prostitute avevano il compito di provocare i clienti con l’aiuto del sesso e dell’alcol per ottenere informazioni e/o opinioni antinaziste. Le ragazze stesse ignoravano la presenza di microfoni nelle stanze. Il loro compito terminava nel momento in cui stilavano un “rapporto” sul cliente appena “esaminato”. Le registrazioni venivano ascoltate e archiviate in uno scantinato attiguo alla pensione. Le prostitute si diedero un gran da fare: si stima che il numero di nastri raccolti con questo metodo fino al 1943, anno in cui l’operazione Kitty fu chiusa, si aggiri intorno ai 25.000. Purtroppo i nastri sono andati tutti dispersi o distrutti.”

(In berlinocacioepepemagazine.com)

Kitty: una prostituta per il Terzo Reich
Si chiamava Kitty Schmidt. Non era più giovane, ma nemmeno vecchia. I suoi amici la credevano tra i trenta e i quarant’anni. In realtà ne aveva parecchi di più. [...]. Voleva partecipare alla grande vita, alla felicità e alla ricchezza. E poiché non aveva nient’altro da offrire, offrì se stessa, il che non era poco”.
Magistralmente interpretata dalla bergmaniana Ingrid Thulin, la Kitty di Tinto Brass, rispetto a quella raccontata da Norden, è ancora più ingenua e innocente. Di un’ingenuità e un’innocenza che può essere propria solo di una tenutaria di bordello, di una donna che vive il sesso e il suo lavoro come farebbe una crocerossina in un campo militare. Non c’è in lei la malizia e la “cattiveria da puttana” del personaggio interpretato dalla Thulin in La caduta degli dei. La Sophie von Essenbeck del dramma viscontiano era una donna decisa, piena d’ombre, sempre pronta a tramare alla spalle e a usare tutte le armi della seduzione per far capitolare gli uomini che la circondavano (dall’amante al figlio); mentre Kitty Schmidt è una romantica, una sognatrice. È veramente convinta che la sua casa sia il tempio del divino amore. A differenza di quanto riportato da Norden, la Kitty di Brass non sa niente dell’uso improprio che i nazisti stanno facendo del “Salon” e quando lo scopre ne rimane talmente amareggiata che trama subito per la distruzione di Wallemberg e dei suoi folli piani. Kitty è anche una donna di spettacolo, una trasformista che può essere tutto, persino un uomo (come nel balletto iniziale), che sembra trarre linfa vitale da modelli di riferimento old fashion quale la Marlene Dietrich dell’Angelo azzurro. Ma i suoi travestimenti e le sue stravaganze non nascondono assolutamente le perversioni e le malizie della parodia omosessuale messa in scena da Helmut Berger all’inizio di La caduta degli dei. Facile alle lacrime quanto al riso, Kitty non cela l’amore quasi materno che la lega sia alle sue ragazze sia ai suoi clienti, tant’è che a un certo punto la sentiamo esordire con: «un soldato vuol sparare anche le sue cartucce, non solo quelle che gli passa l’esercito». Insomma una “pretty woman” d’altri tempi.

Wallemberg, l’Essenbeck brassiano
Si occupava esclusivamente della propria carriera e di nient’altro. Carriera equivaleva, però, per lui a successo; ed il successo - e ciò lo aveva capito molto presto - era possibile solo usando fantasia, fantasia e mezzi anticonformisti.
Sesso e Potere. Il dualismo su cui si regge il mondo. Il dualismo che muove le fila di Salon Kitty. Il sesso è purezza e il potere la sua negazione. Questo è un tema ricorrente nei film italiani che trattano il nazismo. C’è una frase in Pasqualino settebellezze (1974) di Lina Wertmüller pronunciata dalla laida secondina del campo di concentramento in cui è imprigionato Giancarlo Giannini, di fronte al vile tentativo di questi di barattare la propria vita con una focosa prestazione sessuale: «Tu mangia, poi tu fick; se tu no fick, tu kaputt». In queste poche parole si palesa tutto lo squallore che permea il rapporto Sesso e Potere. Il sesso si trasforma, di fronte all’esercizio incondizionato del potere, in qualcosa di schifoso e repellente. La stessa kapò lo esplicita insieme a tutto il suo disprezzo nel prosieguo del discorso: «In Parigi un greco faceva l’amore con un’oca, faceva questo lavoro per mangiare, per vivere; e tu, larva subumana mediterranea riesci a trovare la forza per tua erezione di maschio. Per questo rimarrete voi, vincerete voi, piccoli vermi vitali senza ideali». Quello che la donna vuole intendere è che la razza “non ariana” è talmente infima da infangare se stessa pur di sopravvivere; ma quello che invece non riesce a capire è che dietro l’erezione di quel relitto umano si nasconde la più genuina e incondizionata voglia di vivere. Il sesso riesce così ad emergere dal suo squallore diventando, nonostante tutto, espressione di vita. Lo stesso valga per i “baratti sessuali” di Charlotte Rampling in Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani e di Sirpa Lane in La svastica nel ventre (1976) di Mario Caiano. Più complesso invece il caso del Berger\Essenbeck di La caduta degli Dei che da una parte, pronunciando la fatidica frase: «Io ti distruggo, mamma!», prima di consumare l’incesto, esercita il suo nuovo potere per distruggere il vecchio equilibrio; ma dall’altra sancisce la sua nuova vita di essere indipendente.

Chi non è d’accordo né con Visconti né con l’assioma: “Sesso uguale Vita”, è Pier Paolo Pasolini, che in Salò nega drasticamente questo concetto. Del resto sono gli anni dell’abiura alla “Trilogia della Vita” e del crollo di ogni forma di redenzione per l’uomo, la cui natura non può che essere malvagia. Tinto Brass evidentemente non la pensa così. Per Brass il sesso equivale a purezza e, di conseguenza, a vita. Semmai è il potere che corrompe e avvilisce l’istinto. Il folle comandante delle SS Wallemberg, di Salon Kitty, rappresenta il Potere, la corruzione suprema, l’uomo che, dietro la falsa bandiera dell’ideologia, nasconde un’incommensurabile sete di possesso. Il personaggio è tutta farina del sacco di Brass e solo in parte derivato dal Walter Schellenberg di cui riferisce Norden. Schellenberg è un uomo che antepone la carriera e la gloria a tutto, ma nel libro non c’è traccia delle perversioni di cui Brass infarcisce il suo eroe.

Wallemberg è innanzituto un impotente, nel senso che non riesce a sublimare il suo bisogno di possesso, un frustrato, un infelice. È irritato dalla fede politica di Margherita, dal suo offrirsi con freddezza e distacco, solo per palesare il suo sentimento nazista, e non a caso le dice: «Per essere una nazionalsocialista devi saperti compromettere fino in fondo: devi umiliarti». Quello che lo manda in bestia è il non riuscire a sottometterla, a possederla psicologicamente. Quando la obbliga ad avere un rapporto saffico con la povera Tina Aumont (che nel film interpreta la moglie repressa di Wallemberg), il suo ego si infiamma nel vedere come le due donne vivono il sesso con gioia e “naturalità”, complici, loro due, di un sentimento di reciproca appartenenza. Se anche nel finale, in cui Wallemberg confessa la sua natura laida e concupiscente, il personaggio si sfalda dietro una fin troppo banale dichiarazione di intenti, Brass descrive in tutto il film una figura complessa, articolata su diversi piani, sempre in bilico tra la completa assuefazione alla propria natura e l’impossibilità di essere normale. Qualcuno ci ha visto l’ideale sviluppo del giovane e viziato Martin von Essenbeck di La caduta degli dei e in effetti, al di là del fatto che entrambi i personaggi sono interpretati da un sorprendente Helmut Berger (che, all’inizio delle riprese di Salon Kitty, avrebbe detto a Brass: «Tinto, dammi questo biglietto per l’inferno»), alcuni punti in comune si possono riscontrare. L’Essenbeck viscontiano era un debole, un pusillanime mosso da istinti di rivalsa verso una famiglia che lo ha sempre considerato un inetto. Lo si capisce da come sfrontatamente sfida l’illustre patriarca durante la sua festa di compleanno e dalle attenzioni tutt’altro che innocenti riservate alle bambine che gli capitano a tiro (una di questa arriverà addirittura a suicidarsi). La pedofilia che muove Essenbeck è in realtà un subdolo esercizio di potere nei confronti dei più deboli. Non riuscendo a trovare la forza per conquistare una propria posizione in società, il giovane Martin si rifà su chi non ha i mezzi per potersi difendere. Del resto, il tema dell’infanzia violata ricorre anche nel film di Brass, dove una diabolica Sara Sperati non esita a schiacciare il pulcino meccanico di un bambino ebreo, in una sequenza di pochi minuti che vale più delle due ore di La vita è bella (1999) di Roberto Benigni.

Ma il nazismo nella pellicola di Visconti c’entra marginalmente nello spiegare le manie di Martin Essenbeck; anzi diciamo che è solo il pretesto che permette al giovane di trovare una, se pur precaria, dimensione attraverso la quale trasformare la sua debolezza in un cieco esercizio del terrore. Analizzare i meccanismi che hanno portato a questo traguardo (e qui sì che l’ideologia nazionalsocialista incarnata nella figura portante del “nazificatore” master of puppet Aschenbach gioca un ruolo principe) sarebbe qui fuori luogo. Ci basti dire che per Visconti il potere (o meglio la parvenza di esso) posto nella mani di una mente labile porta inevitabilmente alla degenerazione e all’abominio (la sequenza finale del grottesco matrimonio ne è un fulgido esempio); mentre per Brass è la sete di potere che corrompe e degenera qualsiasi animo umano. Wallemberg è un Essenbeck più maturo, più determinato ma ugualmente indifeso di fronte all’impossibilità di non essere se stesso, di aspirare alle cose semplici (come il sesso) a cui aspirano tutti. Il vuoto d’animo di Wallemberg è rappresentato anche dal mondo che lo circonda, dall’enorme e fatiscente casa spoglia e senza quadri, dalla moglie spenta che gli deambula intorno come un fantasma. In effetti, la bramosia di fama e ricchezza è già di per sé malattia dell’anima e i personaggi che ne sono affetti ci appaiono come degli automi, dei negati alla vita, incapaci di amare e di vivere.

Ecco spiegati i mille tic che affliggono gli ufficiali nazisti: i giochi di lingua di Wallemberg, le frasi urlate di Schwarz, il passo saltellante di Himbler (l’Heydrich di Norden visto attraverso gli occhi di Brass e interpretato dal bravo John Steiner) e tutte le deviazioni sessuali che caratterizzano i frequentatori del bordello (una su tutte, la scenetta con protagonista Gigi Ballista che, dopo aver calato le braghe e aver sfoggiato un paio di mutandine di pizzo, chiede di essere chiamato Greta). Una rappresentazione caricaturale che non toglie nulla alla malvagità dei personaggi. Inoltre, la sete di gloria che muove Wallemberg e che lo spinge a spiare i suoi diretti superiori per poterli un giorno ricattare, ci permette infine un altro paragone con il film di Visconti. Infatti, in La caduta degli dei, Aschenbach e il “nazificato” Bruckman usano come paravento il blitz delle SS contro le forze delle SA durante la “notte dei lunghi coltelli” (situazione questa in cui Visconti sottolinea con estrema maestria i rapporti tra “Sesso deviato e Potere”), solo per sbarazzarsi dello scomodo Konstantin. Un altro tassello che palesa l’inscindibile legame tra due opere che si incastrano perfettamente nel delineare una lucida e spietata accusa al Potere.

Margherita di Lipsia
Contraltare di Wallemberg in Salon Kitty è Margherita di Lipsia, idealista convinta che scopre l’amore attraverso il sesso e rinnega la sua fede politica. Margherita è la vita. Nel libro di Norden il personaggio che le si avvicina di più è quello di Gitta, la prostituta che cade nella trama di seduzione ordita dalla spia inglese Rodger Wilson, per smascherare il “Salon Kitty”. Nel film, la figura di Wilson viene sostituita da quella ben più monocorde dell’aviatore Hans. Del resto, a Brass non interessa soffermarsi sull’uomo, ma sul sentimento che si instaura tra lui e la ragazza, sul meccanismo che scatta in Margherita e che la porta ad accettare la sua natura di donna e ribellarsi al sistema. Le scene d’amore tra Hans e Margherita sono le uniche girate all’aperto e la loro passione si consuma ovunque, contrapposta agli orrori che li circondano: tant’è che anche un cesso pubblico, ricco di graffiti e volgarità, diventa il luogo ideale per soddisfare i loro sensi. Anche se inizialmente l’attaccamento al dovere spinge Margherita a redigere un rapporto sull’aviatore, quando la ragazza si scopre innamorata di lui fa di tutto per proteggerlo, ma i loro incontri, registrati a sua insaputa, decretano la fine di Hans. A questo punto Margherita trova la forza di dire no, giustiziando nel bagno un cliente che aveva osato parlar mare del suo amore perduto e utilizzando l’ascendente che esercita su Wallemberg per portarlo alla distruzione. Splendidamente interpretata dall’ex hippy Therese Ann Savoy (Le farò da padre e Vizi privati, pubbliche virtù), Margherita rappresenta il sesso e la gioia di vivere, e Therese si concede, impudica, all’occhio indiscreto di Tinto Brass, che ha definito il suo personaggio: «Una macchina del sesso che l’eros riscatta e restituisce a dignità di donna».”

(Manlio Gomarasca in www.nocturno.it)

Il 7 gennaio 2004 muore Ingrid Thulin, attrice svedese (nata nel 1926)
 

Una poesia al giorno

La mort n’est rien, di Charles Péguy

La mort n'est rien,
je suis seulement passé, dans la pièce à côté.

Je suis moi. Vous êtes vous.
Ce que j'étais pour vous, je le suis toujours.

Donnez-moi le nom que vous m'avez toujours donné,
parlez-moi comme vous l'avez toujours fait.
N'employez pas un ton différent,
ne prenez pas un air solennel ou triste.
Continuez à rire de ce qui nous faisait rire ensemble.

Priez, souriez,
pensez à moi,
priez pour moi.

Que mon nom soit prononcé à la maison
comme il l'a toujours été,
sans emphase d'aucune sorte,
sans une trace d'ombre.

La vie signifie tout ce qu'elle a toujours été.
Le fil n'est pas coupé.
Pourquoi serais-je hors de vos pensées,
simplement parce que je suis hors de votre vue ?
Je ne suis pas loin, juste de l'autre côté du chemin.

 

Sono nella stanza accanto, di Charles Peguy

L’amore non svanisce mai.
La morte non è niente, io sono solo andato nella stanza accanto.
Io sono io.
Voi siete voi.
Ciò che ero per voi lo sono sempre.
Datemi il nome che mi avete sempre dato.
parlatemi come mi avete sempre parlato.
Non usate un tono diverso.
Non abbiate un’aria solenne o triste.
Continuate a ridere di ciò che ci faceva ridere insieme.
Sorridete, pensate a me, pregate per me.
Che il mio nome sia pronunciato in casa come lo è sempre stato,
senza alcuna enfasi, senza alcuna ombra di tristezza.
La vita ha il significato di sempre.
Il filo non si è spezzato.
Perché dovrei essere fuori dai vostri pensieri?
Semplicemente perché sono fuori dalla vostra vista?
Io non sono lontano,
sono solo dall’altro lato del cammino.

 

Charles Péguy (Orléans, 7 gennaio 1873 - Villeroy, 5 settembre 1914) è stato scrittore, poeta e saggista francese.

“Di modeste origini, sua madre era impagliatrice di sedie, mentre suo padre era morto pochi mesi dopo la sua nascita. Fu notato dal direttore dell'École Normale d'Orléans, che lo fece entrare al Liceo di Orléans dove ottenne una borsa di studio che gli consentì di diplomarsi brillantemente.
Ciò lo portò all'École Normale Supérieure di Parigi nel 1894. Qui fu allievo di Romain Rolland e di Henri Bergson, le cui lezioni lo segnarono molto e di cui poi divenne amico. In quegli anni sviluppò le sue convinzioni socialiste. All'inizio dell'Affare Dreyfus si schierò con i dreyfusardi. Vicino alla Sorbona fondò la libreria Bellais. Intanto nel 1900, dopo il quasi fallimento della sua libreria, si distaccò dai suoi soci Lucien Herr e Léon Blum e fondò la rivista Cahiers de la Quinzaine, allo scopo di far scoprire nuovi talenti letterari e pubblicare sue opere. Vi collaborarono, tra gli altri, Romain Rolland, Julien Benda e André Suarès.
Nel 1907, si convertì al cattolicesimo. Da allora, produsse sia opere in prosa di argomento politico e polemico (Notre Jeunesse, L'argent), sia opere in versi mistiche e liriche. Tuttavia, la sua intransigenza e il suo carattere appassionato, lo resero sospetto sia agli occhi della Chiesa di cui egli attaccava l'autoritarismo, sia ai socialisti di cui denunciava l'anticlericalismo e in seguito il pacifismo. Questi sospetti saranno rafforzati da certi atteggiamenti del figlio, custode della sua memoria, che, dopo la sua morte, darà una lettura conservatrice dell'opera del padre.
Tenente della riserva, durante la Prima guerra mondiale si arruolò nella fanteria. Morì in combattimento, all'inizio della prima battaglia della Marna, il 5 settembre 1914.”

(Wikipedia)

 

Un fatto al giorno

7 gennaio 1894: William Kennedy Dickson riceve un brevetto per film cinematografico.

William Kennedy-Laurie Dickson (3 agosto 1860 - 28 settembre 1935) è stato un inventore scozzese che ha ideato una prima macchina fotografica cinematografica applicando un'idea di Thomas Edison (post-datazione del lavoro di Louis Le Prince).

“Nel 1888 l'inventore e imprenditore americano Thomas Alva Edison concepì un apparecchio che avrebbe fatto "per l'occhio ciò che il fonografo fa per l'orecchio". In ottobre, Edison depositò presso l'Ufficio Brevetti Statunitense un primo diritto, conosciuto come cauzione, descrivendo i suoi progetti per l'apparecchiatura. Nel marzo del 1889 fu depositata una seconda cauzione: in essa l'apparecchio per l'immagine in movimento proposto fu denominato Kinetoscopio. A Dickson, divenuto nel frattempo fotografo ufficiale della compagnia di Edison, venne assegnato il compito di trasformare il progetto in realtà, negli studios di Black Maria. Dickson ed il suo team ai laboratori Edison lavorarono sullo sviluppo del Kinetoscopio per diversi anni. Il primo prototipo funzionante venne alla luce nel maggio del 1891 ed il disegno del sistema fu essenzialmente terminato alla fine del 1892. La versione completa del Kinetoscopio fu ufficialmente svelata dell'Istituto di Arti e Scienze di Brooklyn il 9 maggio 1893.
Seppur non tecnicamente un sistema di proiezione - l'apparecchio era progettato per film che dovevano esser visti individualmente attraverso la finestrella di un contenitore appartenente alle componenti del sistema - il Kinetoscopio introdusse l'approccio basilare che sarebbe divenuto lo standard per tutte le proiezioni cinematografiche prima dell'avvento del video: esso creava l'illusione del movimento mediante il trasporto di una striscia di film perforato, dando così vita ad immagini sequenziali per mezzo di una sorgente luminosa e di un movimento ad alta velocità. Dickson ed il suo team concepirono inoltre un'innovativa cinepresa con rapidi movimenti filmici, in grado di fotografare i film in luogo di esperimenti successivi, ed eventualmente per presentazioni commerciali del Kinetoscopio.
Tra il 1894 e il 1895 Dickson divenne una guida onorevole per l'operazione filmica dei fratelli Latham, Otway e Grey, e il loro padre, Woodville, i quali divennero presto la maggiore compagnia d'esibizione del Kinetoscopio. Cercando di sviluppare un proiettore cinematografico, arruolarono uno degli operai di Edison, Eugene Laustel, probabilmente sotto consiglio dello stesso Dickson. Nell'aprile del 1895 Dickson lasciò la compagnia di Edison per entrare nell'équipe dei Latham. Insieme a Lauste, concepì innovazioni che saranno poi note come i "Latham loop", permettendo la fotografia e l'esibizione di film più lunghi di quelli che erano stati possibili riprodurre. Successivamente nacque l'Eidoloscopio, un sistema di proiezione che fu il primo ad essere utilizzato nelle riproduzioni cinematografiche commerciali, dal 20 maggio 1895. Coi Latham, Dickson fu parte del gruppo che formò l'"American Mutoscope and Biograph Company", prima di ritornare permanentemente a lavorare nel Regno Unito nel 1897, dove morì.”

(Articolo completo in it.wikipedia.org)

 

Immagini:

  • The Hungry Naughty Girl (1897) William Kennedy Dickson Film
  • The Dance 2 (1896) William Kennedy Dickson Film
  • Record of a Sneeze - Dickson, William Kennedy Laurie. Un uomo (l'assistente di Thomas Edison) prende un pizzico di tabacco da fiuto e starnutisce. Questo è uno dei primi film di Thomas Edison ed è stato il primo film ad essere coperto da copyright negli Stati Uniti. Diretto da Dickson, William Kennedy Laurie
  • Dickson Experimental Sound Film (Edison, 1894-95)
  • Dickson Greeting - Frammento di pellicola sperimentale realizzato con la macchina cinetica e il cinetoscopio sperimentale ad alimentazione orizzontale di Edison-Dickson-Heise, utilizzando un film largo 3/4 pollici.

 

Una frase al giorno

“L'umanità ha bisogno del sublime. Il sublime del sublime è l'arte. Il sublime dell'arte è l'avanguardia.”

(Roland Topor, 7 gennaio 1938 - 16 aprile 1997, è stato un illustratore francese, fumettista, fumettista, pittore, romanziere, drammaturgo, scrittore di film e TV, regista e attore, noto per la natura surreale del suo lavoro. Era di origine polacco-ebraica e trascorse i primi anni della sua vita in Savoia dove la sua famiglia lo nascose dal pericolo nazista).
 

“Ha fatto troppe cose Topor perché possano essere elencate tutte qui. Uomo dal multiforme ingegno, un ingegno morboso, sadico, perturbante, può con tutte le ragioni essere considerato un genio dell’humor nero.
Roland Topor, francese di origine polacca, affonda le sue radici nel surrealismo. Fondò ancora ventiquattrenne il movimento “Panico” e due anni dopo, nel 1964, scrive il suo primo romanzo Le locataire chimérique da cui poi Roman Polanski trarrà il film “L’inquilino del terzo piano”.
Inquieto e poco incline alle definizioni sperimenta ogni tipo di espressione figurativa dall’illustrazione alla pittura, dall’incisione alla fotografia, dal cinema alla scrittura fino alla televisione. Partecipa infatti nel 1987 al programma televisivo “Lupo Solitario” su Italia 1 condotto da Patrizio Roversi e Syusy Blady. Nel format, Topor viene ripreso dalla telecamera in hotel durante momenti di normale vita quotidiana.
Come attore partecipa ad alcuni film: “Nosferatu” di Werner Herzog (1977); “Ratataplan” di Maurizio Nichetti (1979); “Un amore di Swann” diretto da Volker Schlondorff(1984); “Tre vite una sola morte” di Raoul Ruiz (1995) con Lou Castel e l’amico Marcello Mastroianni.
In veste di sceneggiatore nel 1972, realizza con il regista francese René Laloux, il film di animazione “Il pianeta selvaggio”. Collabora anche con Federico Fellini, realizzando alcuni disegni per il “Casanova” del 1975. Con l’amico regista Henri Xhonneaux crea “Il Telegatto” un programma televisivo per bambini che ottiene, a partire dal 1983, un lusinghiero successo e nel 1989 realizza con Henri Xhonneaux il film Marquis”.

(Annalisa P. Cignitti in www.rocaille.it)

 

Un brano musicale al giorno

Ruggero Giovannelli, Veni Sponsa Christi

Mottetto inedito a 8 voci (2 cori SATB) di Ruggero Giovannelli (1560-1625), allievo di Palestrina e suo successore come maestro di cappella in S. Pietro.
E' probabilmente un brano non giovanile, visto che l'uso del concertato e del basso continuo non è frequente nelle sue composizioni fino al 1600 circa. Sicuramente mostra già un sapore che dal rinascimentale vira al barocco. Si può supporre sia stato scritto ed eseguito per le nozze di Maria de' Medici con Enrico IV di Francia, celebrate per procura (il re di Francia era impegnato in Guerra, lo rappresentò Ferdinando I, granduca di Toscana, il 6 ottobre 1600) dal cardinale Aldobrandini che per l'occasione si fece accompagnare da Roma, da Giovan Battista Giacomelli, detto "del violino" e da tre cantori. Il Giacomelli si trattenne poi qualche mese collaborando con la Cappella Musicale della Santissima Annunziata. Trascritto da Guido Menestrina da un manoscritto che si conserva presso l'Archivio Musicale della Santissima Annunziata di Firenze, forse consegnato dal compositore a Fra Mauro Matti - che aveva rapporti col Giacomelli - in occasione delle nozze.
 

Il testo del mottetto è preso dall'antifona "Veni Sponsa Christi":

Veni sponsa Christi, accipe coronam
quam tibi Dominus praeparavit in aeternum
pro cujus amore sanguinem tuum fudisti
et cum Angelis in paradisum introisti.


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

 

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

 

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

 

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

 

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

 

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

 

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

 

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

 

Nous serons

 

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

 

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

 

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

 

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

 

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

 

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

 

Un fatto al giorno

 

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k