“L’amico del popolo”, 8 ottobre 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

L’IMPERATORE DI ROMA (Italia, 1987) scritto, diretto e montato da Nico D'Alessandria. Fotografia: Roberto Romei. Musica: Carlo Giugni, Al Lunati. Con: Giuseppe Amodio, Agnese De Donato, Fulvio Meloni, Gerardo Sperandini, Nadia Haggi.

Gerry è un giovane che conduce a Roma l'esistenza del barbone, nonostante che in città viva suo padre, il quale, pur incapace di comprenderlo e di aiutarlo, un giorno lo riporta a casa, per tentare di fargli riprendere un'esistenza normale. Ma l'esperimento dura poco: ben presto il padre lo scaccia, esasperato dal suo contegno. Infatti Gerry si droga ogni volta che trova i soldi necessari: s'infila la siringa nel braccio in un parco, oppure di notte fra le baracche di un mercato, e cerca così conforto alla propria infelicità; oppure si ubriaca o rubacchia per mangiare un panino o la pizza. Ma soprattutto egli cammina incessantemente per la città, a volte in periferia o lungo il Tevere, ma generalmente nelle vie del centro storico, fra i monumenti della romanità, che gli ispirano lunghi monologhi deliranti, nei quali egli, mescolando la storia alle sue fantasie di drogato, si vede come predestinato a far risorgere alla storia la Roma imperiale, in modo che i giovani possano viverci liberi e felici, drogandosi quando vogliono. Intanto Gerry dorme sotto i ponti o in qualche squallida pensione, cercando ogni giorno di procurarsi la droga, che gli dà sollievo, ma riprendendo poi sempre il suo vagabondare solitario e senza meta, cui sembra condannato da un potere crudele. Spesso egli regala qualche suo indumento o lo getta via, e una volta finisce col vagare completamente nudo, cosicché viene arrestato e rinchiuso in un ospedale, da dove però riesce a scappare. Inutilmente Gerry cerca di riallacciare un contatto con la ragazza che gli ha dato un figlio, al quale pensa talvolta: la madre di lei lo minaccia al telefono di chiamare i carabinieri. E il giovane ha già avuto molti guai con la giustizia, che ha nei suoi archivi un fascicolo in cui è contenuta una lunga serie di suoi reati. Gerry immagina spesso di morire o per overdose o per una caduta dalla moto, ma si ritrova sempre a vagabondare da solo. Infine il padre, convinto che egli sia irrecuperabile, chiede il suo internamento, e Gerry, ormai giudicato malato di mente, è sorpreso a rubare un panino in un pullman turistico incustodito, e viene catturato.

“La Roma degradata che fu già raccontata da Pasolini, squallida periferia di rovine, immondizie, drogati e prostitute, è attraversata da Gerry (G. Sperandini che interpreta se stesso), biondo vichingo tossicodipendente e schizofrenico che si proclama imperatore (e camminatore) d'una città senza più domini né dignità. Gerry, nel delirio d'una notte insonne, s'immagina d'essere un sovrano dell'Urbe tornato a portare la vita dopo la fine del mondo. Faticosamente girato nell'arco di cinque anni, "L'imperatore di Roma" è il film d'esordio di Nico D'Alessandria, cineasta indipendente della capitale. Presentato in pochissime sale e fugacemente in alcuni Festival, è stato in cartellone ad "Anteprima" 1989 di Bellaria. "Lo girai muto, in 35 mm, eravamo in tre, io, l'operatore Roberto Romei e Giuliana Mancini, lo sonorizzai dopo con le voci dei protagonisti, e lo montai personalmente. La pellicola era la più economica, la ORWO, che mi feci mandare dalla Germania Est. Con 6000 metri feci il film. Quando iniziai, il protagonista Gerardo Sperandini era internato all'ospedale psichiatrico di Aversa, dove il padre, maresciallo di polizia, lo aveva fatto rinchiudere andandosi a raccomandare personalmente dal giudice ("Per un po' di tempo", diceva, "perché si riprenda", come ho raccontato nel film) e mi fu affidato dal magistrato di sorveglianza... Abbiamo vissuto insieme per 30 giorni, il periodo delle riprese, anche di notte perché era assolutamente rischioso lasciarlo da solo. Gerry, cioè Gerardo Sperandini, è morto di recente, 20 giorni prima di Vittorio Cavallo [il protagonista de "L'amico immaginario", secondo lungometraggio del regista, girato nel 1994]. Ogni tanto, o meglio spesso, mi vengono alla mente i loro gesti, i loro modi di fare; per esempio Gerry beveva la birra, era sempre come se suonasse la tromba...". Il neorealismo riapparve nel cinema italiano durante gli ultimi anni '80, però nelle vesti d'un fantasma espressionista urlato al ritmo del rock (post-)punk oscuro e "lo-fi", e "L'imperatore di Roma" ne è una testimonianza imprescindibile, che rappresenta ancora oggi un punto di non ritorno per la storia cinematografica nostrana e non solo. Il film di Nico D'Alessandria è un'opera minimale, lucidamente cruda e senza concessioni, i dialoghi sono disincantati, scarni, le parole colpiscono graffiando per la crudezza e tuttavia sono sincere e credibili in quanto mimetiche, verosimili.
In una dimensione da "day after" apocalittico, Gerry non è un personaggio ma un rudere fra i tanti, un instancabile fragile errabondo tra le macerie di una Roma oramai decaduta a ex città eterna, mortalmente e irreparabilmente ferita dalla storia e dal tempo. Come nel contemporaneo film di Greenaway "Il ventre dell'architetto", Roma è vista secondo lo sguardo d'un Dio esule, è il palcoscenico, anzi l'arena circense per eccellenza della personale, laica via crucis del protagonista, dove "la patologia ci è risparmiata insieme al patetismo". La corsa folle termina solo di tanto in tanto, quando all'improvviso finiscono le energie e il corpo non si sorregge più e s'affloscia dove si trova, oppure viene bloccato a forza sul letto d'un manicomio o in carcere. Eppure Gerry rifiuta d'accettare questa vita degradata e non si piega alla normalizzazione, rifugge l'imprinting proletario e piccolo borghese del lavoro e della famiglia, e si ribella in nome d'un diritto assoluto al benessere e a qualsiasi costo, fosse anche quello della propria, comunque inevitabile, (auto-)distruzione. Lo sfacelo è completo, la riconciliazione una chimera da parrocchia o da vetero-materialismo positivista o marxista: Roma "è una città dura", sopravvivere è un'impresa. Dopo aver cozzato contro un ambiente naturale matrigno e disumano, ogni desiderio assurge al rango di banale utopia e il presente, la quotidianità, si tingono d'un vuoto asfittico mancante di tutto. L'esistenza, almeno per coloro che come Gerry percepiscono la realtà inadeguata rispetto all'ideale, qualunque esso sia, è l'experimentum crucis che falsifica la bontà di qualsiasi teoria o fede religiosa o laica sino a oggi elaborata o rivelata. Nel naufragio universale galleggia a malapena il proclama di trasmutazione del mondo da parte d'un pazzo impotente e sofferente che, in un momento di delirio, si percepisce per elezione divina l'imperatore di Roma. Come verrà esplicitamente detto all'inizio del successivo film di Nico D'Alessandria, di fronte alla demolizione integrale della propria vita, l'unico praticabile rimedio contro l'infelicità sembra essere il dormire. Concetto identico a quello espresso da Bruno S. ne "L'enigma di Kaspar Hauser" (1974) di Herzog, e prossimo all'amletico detto di Shakespeare: Morire, dormire. Nient'altro”.

(Mauro Lanari, in Recensione L'imperatore di Roma (1987), Filmscoop.it)

“Faticosamente girato nell'arco di cinque anni, è il film d'esordio di Nico D'Alessandria. Presentato in pochissime sale e fugacemente in alcuni Festival, il film segue le tracce di uno dei tanti giovani che la società ha spinto ai margini. Un'opera prima molto interessante, dura e non riconciliata”.

(FilmTV.it)

Roma. Domenica mattina, i giorni della merla, da ponte Mazzini l’acqua del biondo Tevere riflette i colori di un film del 1987 in bianco e nero di Domenico D’Alessandria, Nico per gli amici, scomparso nel dicembre del 2003. Il film in questione è L’imperatore di Roma, pietra miliare del cinema indipendente e primo lungometraggio autoprodotto del regista. Il punto è lo stesso in cui Jerry (Gerardo Sperandini), l’Imperatore, getta via uno dopo l’altro pacchetti di fazzoletti altrimenti finiti a pulire, per pochi spicci, nasi e lacrime di gente per bene con cui Jerry non vuole avere nulla a che fare. Sembra il gesto suicida dettato da una più che lucida follia di un tossico, intossicato dall’eroina e dall’abuso di droghe chimiche, ma principalmente da dettami sociali assodati che troppo spesso incatenano individui benpensanti e maldicenti. Così la smania di vera libertà di Gerardo l’Imperatore diventa la musa ispiratrice di Nico D’Alessandria, regista oscurato dalla fama pasoliniana, come accadde per Braque al cospetto di Picasso.
A dieci anni di distanza dalla morte di Nico D’Alessandria sono per lo più gli addetti ai lavori e i suoi amici a ricordarlo, in primis Silvano Agosti, regista impegnato e pioniere dell’apertura di una delle poche sale riservate al cinema d’autore sopravvissute a Roma: l’Azzurro Scipioni. Lì tenne una rassegna dedicata a Nico D’Alessandria pochi giorni dopo la sua morte, salutandolo in un commovente addio: “Ricordo che quando ti ho offerto il domicilio artistico presso l’Azzurro Scipioni, mi hai toccato una spalla, in segno di affetto, e mi hai fatto promettere di chiuder bene le porte, perché le copie dei film sono preziose e bisogna proteggerle. ‘Almeno le mie’. Le proteggerò caro Nico, meglio di quanto tu hai saputo proteggere te stesso da trasgressioni che io non ho mai condiviso. Ed è solo per questa certezza che non posso evitare il dolore della tua prematura assenza. Ma il tuo domicilio artistico farà sì che i tuoi film vengano mostrati presso la mia sala di Roma, e sarai in buona compagnia, almeno finché vivrò, con Bergman, Pasolini, Kubrick, Chaplin, Fellini e De Sica, anch’essi come te esiliati per sempre dalle sale cinematografiche della Repubblica (Silvano Agosti su "L’Unità", 10 gennaio 2004).

"Nico D’Alessandria si diploma in regia nel 1967 al Centro Sperimentale di Cinematografia con il saggio d’esame: Il canto d’amore di Alfred Prufrock, una rivisitazione avanguardistica della poesia dello scrittore americano T. S. Eliot in cui la voce narrante di Carmelo Bene esalta il visionario collage di immagini diretto da Nico, lui stesso parte del cast come attore protagonista. Le atmosfere sono pregne di intensa e cruda realtà, sapientemente accostate, e già si percepisce uno dei temi portanti della poetica di Nico, l’alienazione dell’uomo moderno, tema oggi abusato fino alla nausea dopo una grande abbuffata. Il protagonista de Il canto d’amore di Alfred Prufrock è un uomo emarginato, escluso, forse autoescluso dalla società moderna, dedita alle luci della ribalta e alla velocità della metropoli, dove l’unica via di fuga plausibile è la caduta negli inferi della droga, in questo caso metaforica".

(Da un bell’articolo di Agostina Bevilacqua in Nico D'Alessandria, Flash Art)

L’IMPERATORE DI ROMA (Italia, 1987) scritto, diretto e montato da Nico D'Alessandria

 

Una poesia al giorno

Ad Anna Achmatova (1915), di Marina Ivanovna Cvetaeva (Марина Цветаева, 1892-1941) in Poesie scelte, nuova versione a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila.

“Gayazova - scrive di lei Iosif Brodskij ne Il canto del pendolo - Sul piano formale è considerevolmente più interessante di tutti i sui contemporanei, compresi i futuristi, e le sue rime sono più inventive di quelle di Pasternak”.
Marina Ivanovna Cvetaeva (traslitterazione anglosassone: Tsvetaeva), Mosca, 8 ottobre (26 settembre, secondo il calendario giuliano, allora in uso in Russia) 1892 - Elabuga, 31 agosto 1941) è stata una poetessa e scrittrice russa.

Un corpo sottile, non russo -
sui tomi.
Lo scialle dai paesi turchi
è sceso, come un manto.

Vi si può rendere con una sola
linea nera spezzata.
Il freddo - nell’allegria, la calura -
nel vostro sconforto.

Tutta la Vostra vita è un brivido
e si compierà - ma in che modo?
La nuvolosa - plumbea - fronte
di un giovane demonio.

Conquistare qualsiasi persona terrena
per lei è un gioco!
E il verso disarmato
mira al cuore.

Nell’ora assonnata del mattino -
mi sembra alle quattro e un quarto -
io mi sono innamorata di Voi,
Anna Achmatova.

Marina Ivanovna Cvetaeva

 

Un fatto al giorno

8 ottobre 1967: Che Guevara e i suoi uomini vengono catturati in Bolivia. L’8 ottobre del 1967 Che Guevara venne ferito e catturato in Bolivia da un reparto anti-guerriglia dell’esercito boliviano, assistito da agenti speciali della CIA. “Il giorno successivo venne ucciso e mutilato ai polsi. Moriva così un’importante icona mondiale, un mito che ha rappresentato per i giovani della sinistra, e non solo, un simbolo forte dell’impegno politico rivoluzionario. Ernesto Guevara de la Serna, noto come “il Che”, nacque il 14 giugno del 1928 a Rosario de la Fe, in Argentina, da una famiglia estremamente colta. Mentre studiava alla Facoltà di Medicina, Guevara intraprese un lungo viaggio in America Latina insieme all’amico Alberto Granados e si interessò ai processi rivoluzionari che erano in corso nel paese. Cominciò così a frequentare gli ambienti rivoluzionari e il 9 luglio del 1955 conobbe una figura decisiva per il suo futuro: Fidel Castro. Fiero guerriero dall’animo indomito, il Che prese parte alla rivoluzione cubana, dimostrandosi un abile stratega e combattente. Assunse quindi l’incarico della ricostruzione economica di Cuba come Ministro dell’industria ma, non soddisfatto dei risultati della rivoluzione, abbandonò Cuba e si avvicinò al mondo afro-asiatico, viaggiando per diverso tempo in vari paesi dell’Africa, in Asia e in Cina. Coerente con i suoi ideali e dopo aver preso parte alla rivoluzione in Congo, Guevara partì per un’altra rivoluzione, quella boliviana, la sua ultima grande lotta prima di essere catturato e ucciso. Quel giorno però morì soltanto un uomo, ma non la sua importante figura che da sempre è simbolo di rivolta e le cui celebri parole incendieranno ancora a lungo gli animi dei popoli che combattono per degli ideali...

“Davanti a tutti i pericoli, davanti a tutte le minacce, le aggressioni, i blocchi, i sabotaggi, davanti a tutti i seminatori di discordia, davanti a tutti i poteri che cercano di frenarci, dobbiamo dimostrare, ancora una volta, la capacità del popolo di costruire la sua storia” da 8 ottobre 1967, la cattura di Che Guevara”.

(EraOggi)

8 ottobre 1967: Che Guevara e i suoi uomini vengono catturati in Bolivia

 

Una frase al giorno

«La vita è una stazione, presto me ne andrò, dove - non lo so dire»

(Marina Ivanovna Cvetaeva, 1892-1941, poetessa e scrittrice russa)

 

Un brano al giorno

J. S. Bach, Ciaccona (arr. Alfredo Casella). Mitropoulos. Orchestra Rai di Torino, 2/06/1950

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k