“L’amico del popolo”, 8 ottobre 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

L’IMPERATORE DI ROMA (Italia, 1987) scritto, diretto e montato da Nico D'Alessandria. Fotografia: Roberto Romei. Musica: Carlo Giugni, Al Lunati. Con: Giuseppe Amodio, Agnese De Donato, Fulvio Meloni, Gerardo Sperandini, Nadia Haggi.

Gerry è un giovane che conduce a Roma l'esistenza del barbone, nonostante che in città viva suo padre, il quale, pur incapace di comprenderlo e di aiutarlo, un giorno lo riporta a casa, per tentare di fargli riprendere un'esistenza normale. Ma l'esperimento dura poco: ben presto il padre lo scaccia, esasperato dal suo contegno. Infatti Gerry si droga ogni volta che trova i soldi necessari: s'infila la siringa nel braccio in un parco, oppure di notte fra le baracche di un mercato, e cerca così conforto alla propria infelicità; oppure si ubriaca o rubacchia per mangiare un panino o la pizza. Ma soprattutto egli cammina incessantemente per la città, a volte in periferia o lungo il Tevere, ma generalmente nelle vie del centro storico, fra i monumenti della romanità, che gli ispirano lunghi monologhi deliranti, nei quali egli, mescolando la storia alle sue fantasie di drogato, si vede come predestinato a far risorgere alla storia la Roma imperiale, in modo che i giovani possano viverci liberi e felici, drogandosi quando vogliono. Intanto Gerry dorme sotto i ponti o in qualche squallida pensione, cercando ogni giorno di procurarsi la droga, che gli dà sollievo, ma riprendendo poi sempre il suo vagabondare solitario e senza meta, cui sembra condannato da un potere crudele. Spesso egli regala qualche suo indumento o lo getta via, e una volta finisce col vagare completamente nudo, cosicché viene arrestato e rinchiuso in un ospedale, da dove però riesce a scappare. Inutilmente Gerry cerca di riallacciare un contatto con la ragazza che gli ha dato un figlio, al quale pensa talvolta: la madre di lei lo minaccia al telefono di chiamare i carabinieri. E il giovane ha già avuto molti guai con la giustizia, che ha nei suoi archivi un fascicolo in cui è contenuta una lunga serie di suoi reati. Gerry immagina spesso di morire o per overdose o per una caduta dalla moto, ma si ritrova sempre a vagabondare da solo. Infine il padre, convinto che egli sia irrecuperabile, chiede il suo internamento, e Gerry, ormai giudicato malato di mente, è sorpreso a rubare un panino in un pullman turistico incustodito, e viene catturato.

“La Roma degradata che fu già raccontata da Pasolini, squallida periferia di rovine, immondizie, drogati e prostitute, è attraversata da Gerry (G. Sperandini che interpreta se stesso), biondo vichingo tossicodipendente e schizofrenico che si proclama imperatore (e camminatore) d'una città senza più domini né dignità. Gerry, nel delirio d'una notte insonne, s'immagina d'essere un sovrano dell'Urbe tornato a portare la vita dopo la fine del mondo. Faticosamente girato nell'arco di cinque anni, "L'imperatore di Roma" è il film d'esordio di Nico D'Alessandria, cineasta indipendente della capitale. Presentato in pochissime sale e fugacemente in alcuni Festival, è stato in cartellone ad "Anteprima" 1989 di Bellaria. "Lo girai muto, in 35 mm, eravamo in tre, io, l'operatore Roberto Romei e Giuliana Mancini, lo sonorizzai dopo con le voci dei protagonisti, e lo montai personalmente. La pellicola era la più economica, la ORWO, che mi feci mandare dalla Germania Est. Con 6000 metri feci il film. Quando iniziai, il protagonista Gerardo Sperandini era internato all'ospedale psichiatrico di Aversa, dove il padre, maresciallo di polizia, lo aveva fatto rinchiudere andandosi a raccomandare personalmente dal giudice ("Per un po' di tempo", diceva, "perché si riprenda", come ho raccontato nel film) e mi fu affidato dal magistrato di sorveglianza... Abbiamo vissuto insieme per 30 giorni, il periodo delle riprese, anche di notte perché era assolutamente rischioso lasciarlo da solo. Gerry, cioè Gerardo Sperandini, è morto di recente, 20 giorni prima di Vittorio Cavallo [il protagonista de "L'amico immaginario", secondo lungometraggio del regista, girato nel 1994]. Ogni tanto, o meglio spesso, mi vengono alla mente i loro gesti, i loro modi di fare; per esempio Gerry beveva la birra, era sempre come se suonasse la tromba...". Il neorealismo riapparve nel cinema italiano durante gli ultimi anni '80, però nelle vesti d'un fantasma espressionista urlato al ritmo del rock (post-)punk oscuro e "lo-fi", e "L'imperatore di Roma" ne è una testimonianza imprescindibile, che rappresenta ancora oggi un punto di non ritorno per la storia cinematografica nostrana e non solo. Il film di Nico D'Alessandria è un'opera minimale, lucidamente cruda e senza concessioni, i dialoghi sono disincantati, scarni, le parole colpiscono graffiando per la crudezza e tuttavia sono sincere e credibili in quanto mimetiche, verosimili.
In una dimensione da "day after" apocalittico, Gerry non è un personaggio ma un rudere fra i tanti, un instancabile fragile errabondo tra le macerie di una Roma oramai decaduta a ex città eterna, mortalmente e irreparabilmente ferita dalla storia e dal tempo. Come nel contemporaneo film di Greenaway "Il ventre dell'architetto", Roma è vista secondo lo sguardo d'un Dio esule, è il palcoscenico, anzi l'arena circense per eccellenza della personale, laica via crucis del protagonista, dove "la patologia ci è risparmiata insieme al patetismo". La corsa folle termina solo di tanto in tanto, quando all'improvviso finiscono le energie e il corpo non si sorregge più e s'affloscia dove si trova, oppure viene bloccato a forza sul letto d'un manicomio o in carcere. Eppure Gerry rifiuta d'accettare questa vita degradata e non si piega alla normalizzazione, rifugge l'imprinting proletario e piccolo borghese del lavoro e della famiglia, e si ribella in nome d'un diritto assoluto al benessere e a qualsiasi costo, fosse anche quello della propria, comunque inevitabile, (auto-)distruzione. Lo sfacelo è completo, la riconciliazione una chimera da parrocchia o da vetero-materialismo positivista o marxista: Roma "è una città dura", sopravvivere è un'impresa. Dopo aver cozzato contro un ambiente naturale matrigno e disumano, ogni desiderio assurge al rango di banale utopia e il presente, la quotidianità, si tingono d'un vuoto asfittico mancante di tutto. L'esistenza, almeno per coloro che come Gerry percepiscono la realtà inadeguata rispetto all'ideale, qualunque esso sia, è l'experimentum crucis che falsifica la bontà di qualsiasi teoria o fede religiosa o laica sino a oggi elaborata o rivelata. Nel naufragio universale galleggia a malapena il proclama di trasmutazione del mondo da parte d'un pazzo impotente e sofferente che, in un momento di delirio, si percepisce per elezione divina l'imperatore di Roma. Come verrà esplicitamente detto all'inizio del successivo film di Nico D'Alessandria, di fronte alla demolizione integrale della propria vita, l'unico praticabile rimedio contro l'infelicità sembra essere il dormire. Concetto identico a quello espresso da Bruno S. ne "L'enigma di Kaspar Hauser" (1974) di Herzog, e prossimo all'amletico detto di Shakespeare: Morire, dormire. Nient'altro”.

(Mauro Lanari, in Recensione L'imperatore di Roma (1987), Filmscoop.it)

“Faticosamente girato nell'arco di cinque anni, è il film d'esordio di Nico D'Alessandria. Presentato in pochissime sale e fugacemente in alcuni Festival, il film segue le tracce di uno dei tanti giovani che la società ha spinto ai margini. Un'opera prima molto interessante, dura e non riconciliata”.

(FilmTV.it)

Roma. Domenica mattina, i giorni della merla, da ponte Mazzini l’acqua del biondo Tevere riflette i colori di un film del 1987 in bianco e nero di Domenico D’Alessandria, Nico per gli amici, scomparso nel dicembre del 2003. Il film in questione è L’imperatore di Roma, pietra miliare del cinema indipendente e primo lungometraggio autoprodotto del regista. Il punto è lo stesso in cui Jerry (Gerardo Sperandini), l’Imperatore, getta via uno dopo l’altro pacchetti di fazzoletti altrimenti finiti a pulire, per pochi spicci, nasi e lacrime di gente per bene con cui Jerry non vuole avere nulla a che fare. Sembra il gesto suicida dettato da una più che lucida follia di un tossico, intossicato dall’eroina e dall’abuso di droghe chimiche, ma principalmente da dettami sociali assodati che troppo spesso incatenano individui benpensanti e maldicenti. Così la smania di vera libertà di Gerardo l’Imperatore diventa la musa ispiratrice di Nico D’Alessandria, regista oscurato dalla fama pasoliniana, come accadde per Braque al cospetto di Picasso.
A dieci anni di distanza dalla morte di Nico D’Alessandria sono per lo più gli addetti ai lavori e i suoi amici a ricordarlo, in primis Silvano Agosti, regista impegnato e pioniere dell’apertura di una delle poche sale riservate al cinema d’autore sopravvissute a Roma: l’Azzurro Scipioni. Lì tenne una rassegna dedicata a Nico D’Alessandria pochi giorni dopo la sua morte, salutandolo in un commovente addio: “Ricordo che quando ti ho offerto il domicilio artistico presso l’Azzurro Scipioni, mi hai toccato una spalla, in segno di affetto, e mi hai fatto promettere di chiuder bene le porte, perché le copie dei film sono preziose e bisogna proteggerle. ‘Almeno le mie’. Le proteggerò caro Nico, meglio di quanto tu hai saputo proteggere te stesso da trasgressioni che io non ho mai condiviso. Ed è solo per questa certezza che non posso evitare il dolore della tua prematura assenza. Ma il tuo domicilio artistico farà sì che i tuoi film vengano mostrati presso la mia sala di Roma, e sarai in buona compagnia, almeno finché vivrò, con Bergman, Pasolini, Kubrick, Chaplin, Fellini e De Sica, anch’essi come te esiliati per sempre dalle sale cinematografiche della Repubblica (Silvano Agosti su "L’Unità", 10 gennaio 2004).

"Nico D’Alessandria si diploma in regia nel 1967 al Centro Sperimentale di Cinematografia con il saggio d’esame: Il canto d’amore di Alfred Prufrock, una rivisitazione avanguardistica della poesia dello scrittore americano T. S. Eliot in cui la voce narrante di Carmelo Bene esalta il visionario collage di immagini diretto da Nico, lui stesso parte del cast come attore protagonista. Le atmosfere sono pregne di intensa e cruda realtà, sapientemente accostate, e già si percepisce uno dei temi portanti della poetica di Nico, l’alienazione dell’uomo moderno, tema oggi abusato fino alla nausea dopo una grande abbuffata. Il protagonista de Il canto d’amore di Alfred Prufrock è un uomo emarginato, escluso, forse autoescluso dalla società moderna, dedita alle luci della ribalta e alla velocità della metropoli, dove l’unica via di fuga plausibile è la caduta negli inferi della droga, in questo caso metaforica".

(Da un bell’articolo di Agostina Bevilacqua in Nico D'Alessandria, Flash Art)

 

Una poesia al giorno

Ad Anna Achmatova (1915), di Marina Ivanovna Cvetaeva (Марина Цветаева, 1892-1941) in Poesie scelte, nuova versione a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila.

“Gayazova - scrive di lei Iosif Brodskij ne Il canto del pendolo - Sul piano formale è considerevolmente più interessante di tutti i sui contemporanei, compresi i futuristi, e le sue rime sono più inventive di quelle di Pasternak”.
Marina Ivanovna Cvetaeva (traslitterazione anglosassone: Tsvetaeva), Mosca, 8 ottobre (26 settembre, secondo il calendario giuliano, allora in uso in Russia) 1892 - Elabuga, 31 agosto 1941) è stata una poetessa e scrittrice russa.

Un corpo sottile, non russo -
sui tomi.
Lo scialle dai paesi turchi
è sceso, come un manto.

Vi si può rendere con una sola
linea nera spezzata.
Il freddo - nell’allegria, la calura -
nel vostro sconforto.

Tutta la Vostra vita è un brivido
e si compierà - ma in che modo?
La nuvolosa - plumbea - fronte
di un giovane demonio.

Conquistare qualsiasi persona terrena
per lei è un gioco!
E il verso disarmato
mira al cuore.

Nell’ora assonnata del mattino -
mi sembra alle quattro e un quarto -
io mi sono innamorata di Voi,
Anna Achmatova.

 

Un fatto al giorno

8 ottobre 1967: Che Guevara e i suoi uomini vengono catturati in Bolivia. L’8 ottobre del 1967 Che Guevara venne ferito e catturato in Bolivia da un reparto anti-guerriglia dell’esercito boliviano, assistito da agenti speciali della CIA. “Il giorno successivo venne ucciso e mutilato ai polsi. Moriva così un’importante icona mondiale, un mito che ha rappresentato per i giovani della sinistra, e non solo, un simbolo forte dell’impegno politico rivoluzionario. Ernesto Guevara de la Serna, noto come “il Che”, nacque il 14 giugno del 1928 a Rosario de la Fe, in Argentina, da una famiglia estremamente colta. Mentre studiava alla Facoltà di Medicina, Guevara intraprese un lungo viaggio in America Latina insieme all’amico Alberto Granados e si interessò ai processi rivoluzionari che erano in corso nel paese. Cominciò così a frequentare gli ambienti rivoluzionari e il 9 luglio del 1955 conobbe una figura decisiva per il suo futuro: Fidel Castro. Fiero guerriero dall’animo indomito, il Che prese parte alla rivoluzione cubana, dimostrandosi un abile stratega e combattente. Assunse quindi l’incarico della ricostruzione economica di Cuba come Ministro dell’industria ma, non soddisfatto dei risultati della rivoluzione, abbandonò Cuba e si avvicinò al mondo afro-asiatico, viaggiando per diverso tempo in vari paesi dell’Africa, in Asia e in Cina. Coerente con i suoi ideali e dopo aver preso parte alla rivoluzione in Congo, Guevara partì per un’altra rivoluzione, quella boliviana, la sua ultima grande lotta prima di essere catturato e ucciso. Quel giorno però morì soltanto un uomo, ma non la sua importante figura che da sempre è simbolo di rivolta e le cui celebri parole incendieranno ancora a lungo gli animi dei popoli che combattono per degli ideali...

“Davanti a tutti i pericoli, davanti a tutte le minacce, le aggressioni, i blocchi, i sabotaggi, davanti a tutti i seminatori di discordia, davanti a tutti i poteri che cercano di frenarci, dobbiamo dimostrare, ancora una volta, la capacità del popolo di costruire la sua storia” da 8 ottobre 1967, la cattura di Che Guevara”.

(EraOggi)

8 ottobre 1967: Che Guevara e i suoi uomini vengono catturati in Bolivia

 

Una frase al giorno

«La vita è una stazione, presto me ne andrò, dove - non lo so dire»

(Marina Ivanovna Cvetaeva, 1892-1941, poetessa e scrittrice russa)

 

Un brano al giorno

J. S. Bach, Ciaccona (arr. Alfredo Casella). Mitropoulos. Orchestra Rai di Torino, 2/06/1950

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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