“L’amico del popolo”, 6 maggio 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

TOO MUCH JOHNSON (USA, 1938) di Orson Welles, dalla pièce di William Gillette (1894). Fotografia: Harry Dunham. Montaggio: Orson Welles. Con: Virginia Nicholson, Guy Kingsley, Eustace Wyatt, Arlene Francis, Joseph Cotten, Herbert Drake, Marc Blitzstein, Ruth Ford Mary Wickes, Edgar Barrier, John Houseman, George Duthie, Erskine Sanford, Howard Smith.

New York, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Un uomo che, con il nome fittizio di Alfred Johnson, si finge proprietario di una piantagione di zucchero a Cuba, viene sorpreso a letto con la sua amante dal marito di lei. Questi riesce a strappare alla donna un pezzo della foto che ritrae il presunto Johnson e comincia a inseguirlo per le strade della Grande Mela, folle di gelosia. I due provocano scompiglio sia in un mercato sia sui tetti della città sia in una manifestazione di suffragette e arrivano fino a una nave che li porterà proprio a Cuba, dove continueranno ad inseguirsi.

TOO MUCH JOHNSON (USA, 1938) di Orson Welles

Too Much Johnson è un film muto diretto da Orson Welles. Si tratta, probabilmente, della prima pellicola diretta dal cineasta americano, nonché debutto per due attori feticci quali Joseph Cotten e Judy Holliday. Il mediometraggio è stato riscoperto nel 2008. Le bobine sono state ritrovate casualmente in un magazzino a Pordenone e il film, restaurato, è stato proiettato in prima mondiale il 9 ottobre 2013 alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone.

(Wikipedia)

“Come lo hai girato?” chiese Peter Bogdanovich a Orson Welles verso la fine degli anni Sessanta. “Mi sono procurato una cinepresa da cinema muto e ho semplicemente cominciato a girare la manovella... È stato un gran divertimento.” Welles parlava di Too Much Johnson, stravagante jeu d’esprit realizzato nel 1938 ma mai proiettato in pubblico prima d’ora; anzi, per molto tempo si era pensato che fosse svanito nel nulla, scomparso nell’incendio che intorno al 1970 devastò la villa di Welles a Madrid. Oggi sappiamo che il materiale di Too Much Johnson non era andato perduto: si era solo smarrito. Alla fine degli anni Settanta una casa di spedizioni ricevette una misteriosa consegna, dei cui documenti di accompagnamento non rimane traccia. Casualmente depistato in un magazzino di Pordenone, il materiale, in apparente stato di decomposizione, a giudicare dall’odore, fu accolto nel 2005 dalla locale associazione cinematografica, Cinemazero. La conferma che si trattasse proprio di Too Much Johnson si è avuta solo nel dicembre del 2012, quando il materiale è stato identificato da Ciro Giorgini, specialista italiano del cinema di Welles. È poi rapidamente seguito l’’intervento di conservazione. Chi aveva organizzato la spedizione di questo materiale? Impossibile dirlo, ma certo il regista di F for Fake, che si dilettava di enigmi e giochi di prestigio, avrebbe apprezzato il contorto destino della sua prima impresa cinematografica di un certo respiro; forse ne avrebbe addirittura tratto un film, se avesse avuto tempo e denaro.
Nella filmografia wellesiana Too Much Johnson è preceduto solo da un cortometraggio di otto minuti, The Hearts of Age (1934), sardonica satira di Caligari e di altri capolavori dell’avanguardia europea, con Welles nel ruolo della Morte. Citizen Kane, il suo esordio hollywoodiano, si sarebbe fatto attendere ancora tre anni. Too Much Johnson è diverso da entrambi, non da ultimo nelle intenzioni; infatti non è stato concepito come film autonomo, ma piuttosto come una serie di sequenze girate per essere inserite in uno degli allestimenti teatrali del Mercury Theatre. Oggi l’intreccio di cinema e azione drammatica dal vivo è cosa consueta, ma rappresentava una novità nel 1938, quando Welles e John Houseman stavano pianificando la loro seconda stagione al Mercury Theatre di New York. Due anni prima, per il Federal Theatre Project, la coppia aveva messo in scena con successo Horse Eats Hat, adattamento allegramente infedele della commedia di Eugène Labiche Un Chapeau de paille d’Italie (Un cappello di paglia di Firenze), da cui già René Clair aveva tratto un film. Nell’evidente speranza di ripetere tale successo, Welles riesumò un’altra farsa, Too Much Johnson (1894) di William Gillette (1853-1937), attore e commediografo americano famoso soprattutto per le sue interpretazioni teatrali di Sherlock Holmes. Manipolando il testo con la stessa libertà che si era concesso nei confronti di quello di Labiche, Welles pensò di evitare i lunghi dialoghi espositivi del primo atto, fornendo al pubblico le informazioni necessarie essenzialmente per mezzo di una pantomima filmata muta gremita di inseguimenti e chiassosi effetti comici. Risolto così il primo atto, Welles prevedeva di realizzare sequenze filmate introduttive più brevi anche per il secondo e il terzo atto.

Le riprese vennero effettuate in fretta e furia nell’estate del 1938, in modo da poter rispettare la data prevista per l’esordio fuori Broadway, il 16 agosto a Stony Creek nel Connecticut. Già indossando quelli che sarebbero stati i costumi di scena, gli attori del Mercury si lanciarono con brio nell’avventura, soprattutto Joseph Cotten, che interpreta il ruolo di Augustus Billings, eroe della vicenda e irresistibile dongiovanni.
Sfoggiando costantemente una paglietta e un colletto di celluloide tanto alto da sembrare fabbricato con la pellicola delle sequenze perdute di Greed, Cotten si getta nella sua parte con un ardore e una vivacità che raramente avrebbe dimostrato di nuovo di fronte a una cinepresa. Arlene Francis, futura colonna del programma televisivo americano a quiz What’s My Line? ricopre il ruolo di Clairette Dathis, l’innamorata francese di Billings; un’altra affascinante presenza femminile è quella di Virginia Nicholson, che allora era la moglie di Welles. L’operatore è Harry Dunham, avventuroso talento proveniente dai cinegiornali, che dopo aver seguito la guerra civile in Spagna e l’invasione giapponese della Cina si era ormai abituato a improvvisare le riprese. Girò quasi sempre in esterni: nella zona del mercato di Lower Manhattan, a Battery Park e più avanti, lungo il corso dell’Hudson, presso la cava Tomkins Cove a Haverstraw, luogo scelto per rappresentare Cuba, ove Gillette aveva collocato gli ultimi due atti nei quali il groviglio di inganni ed equivoci raggiunge l’apice. Munitosi di una moviola, Welles montò il film personalmente nella suite di un albergo di Manhattan, scoprendo nel corso di questo lavoro la verità di una massima che sarebbe stata formulata parecchi anni più tardi dal suo biografo Simon Callow: “Girare è umano, montare divino.”
Con l’approssimarsi della prima a Stony Creek divenne malauguratamente chiaro che quel teatro non avrebbe potuto ospitare una proiezione cinematografica. Nella fretta, Welles aveva pure ignorato la questione dei diritti cinematografici della commedia, rivendicati dalla Paramount che ne aveva realizzato una versione nel 1920 e minacciava di esigere un pingue risarcimento se la produzione del Mercury avesse mai raggiunto Broadway. Orbata delle sequenze cinematografiche, la commedia esordì in Connecticut alla data prevista ma non registrò un successo tale da giustificare il trasferimento a Broadway. Il materiale filmato di Too Much Johnson cadde nel dimenticatoio, a differenza dell’accompagnamento musicale, scritto in stile metà americano e metà parigino dal futuro romanziere Paul Bowles (che aveva già composto la musica per Horse Eats Hat), il quale si affrettò a trarre dalla sua partitura un vivace brano da concerto, Music for a Farce, scritto per clarinetto, tromba, pianoforte e un’indaffarata sezione di percussioni, comprendente bottiglie di latte e un campanello. La prepubblicità per l’allestimento del Mercury Theatre menziona “parecchie spassose sequenze filmate nella tradizione di Mack Sennett”. L’eredità della slapstick comedy del cinema muto è evidente nei 66 minuti del materiale ritrovato che è embrionalmente montato, con riprese multiple e un certo disordine narrativo. La Manhattan di Welles sembra pattugliata dai Keystone Kops; gli inseguimenti si scatenano frenetici attraverso strade, uscite antincendio e tetti, ripresi spesso a velocità accelerata. Una spasmodica ansia nello stile di Harold Lloyd influenza palesemente gli inseguimenti sui tetti e le peripezie di Cotten con una scala estensibile, mentre Edgar Barrier, nella parte del marito geloso che si torce i baffi, esibisce uno strabismo alla Ben Turpin. A parte l’influenza delle comiche mute, la velocità dell’azione corrisponde anche al dialogo originale della commedia, ed è infatti strutturata in modo da adeguarsi all’accavallarsi cadenzato ma quasi affannoso delle battute nel testo di Gillette, che a sua volta vuol rendere l’atmosfera confusa di un’autentica conversazione. Si possono cogliere anche altre influenze. Le luminose scene di “interni”, girate in realtà in esterni a Yonkers, rimandano alle maliziose riprese en plein air delle prime comiche Pathé: una soluzione quanto mai opportuna, dal momento che la commedia di Gillette è l’adattamento di una farsa francese, La Plantation Thomassin di Maurice Ordonneau (1891). Si intravedono anche i germi del futuro di Welles: il divertito ritratto di un ambiente di fine Ottocento (atmosfera che tornerà a visitare in The Magnificent Ambersons); le inquadrature di interni domestici costruite con cura estrema; l’uso spumeggiante degli spazi architettonici. In una delle prime sequenze di inseguimento vediamo scorrere le immagini, davvero notevoli, di una serie di scatoloni di imballaggio - inquietante presagio dei beni terreni di Charles Foster Kane, ammucchiati per la vendita all’asta alla fine di Citizen Kane.
Per tutta la durata dell’azione, gli attori di Welles attraversano le sequenze del film correndo a passo di carica, compiendo azioni che corrispondono alla trama della farsa di Gillette o più spesso la ampliano con generosa esuberanza. Ma chi sono esattamente questi personaggi? Cosa fanno, e perché? Spiegarlo non è facile, ma la natura obliqua del nostro materiale ci obbliga perlomeno a tentare. Ecco quindi una breve guida per lo spettatore. Augustus Billings (Joseph Cotten), inguaribile ganimede e tessitore di menzogne, corteggia l’avvenente signora Dathis sotto le mentite spoglie di Alfred Johnson, inesistente proprietario di una piantagione di zucchero a Cuba (reale professione di uno degli amici di Billings, Lounsberry). All’inaspettato ritorno a casa del signor Dathis, Billings deve darsi alla fuga, tenacemente inseguito dall’iracondo marito armato della metà superiore di una foto di “Johnson”, strappata dalle mani della moglie. Mentre l’azione si sposta prima a una parata di suffragette, poi sulle banchine di Manhattan e infine su una nave diretta a Cuba, Dathis passa ossessivamente il suo tempo a buttar giù il cappello a tutti gli uomini che incontra, nella speranza di identificare la fronte dell’odiato “Johnson”.
Le sequenze filmate da Welles si aprono in realtà con una lite domestica completamente diversa, tra Leonora Faddish (Virginia Nicholson), il suo innamorato Mackintosh e il dispotico padre di Leonora che vuole imporle come marito l’autentico ricco proprietario di una piantagione di zucchero a Cuba (il cognome di quest’ultimo è naturalmente Johnson). Dopo prolungati inseguimenti che si snodano attraverso Lower Manhattan, le circostanze conducono tutti i protagonisti, comprese la moglie e la nonna di Billings (brevemente intraviste mentre facevano le valigie), a bordo del piroscafo Munificent diretto a Santiago. Fine del primo atto. Gli inseguimenti continuano sulla nave e poi a Cuba, ove la trama diventa sempre più aggrovigliata. Arriviamo a un promontorio roccioso adorno di palme comicamente finte, ove troviamo un servitore in lacrime presso la tomba di Lounsberry (il piantatore amico di Billings), la cui azienda è opportunamente passata, assieme alle terre, al vero Johnson, collerico individuo armato di frusta. “Johnson” e Johnson si affrontano in un duello in cui viene coinvolto anche Dathis. Dopo una lunga scena in cui i personaggi sguazzano in una cava di ghiaia inondata, la commedia si conclude con Billings, maestro di imbrogli e macchinazioni, che organizza la fuga da Cuba per sé, la propria famiglia, Leonora e Mackintosh, mentre i rimasti a Cuba tramano vendetta. La fusione di teatro e cinema tentata da Welles con Too Much Johnson avrebbe potuto funzionare? Forse no, perché il testo di Gillette e i supplementi filmati raggiungono l’effetto umoristico tramite registri differenti: il testo è metodico, le immagini anarchiche. Ma nonostante l’irregolare snodarsi del film, è ancora emozionante veder tornare miracolosamente in vita questa tappa essenziale della carriera di Welles. Guardate attentamente e attenti al cappello, soprattutto se vi chiamate Johnson.

(Geoff Brown)

“Il ritrovamento di Too Much Johnson, film incompiuto del 1938 di Orson Welles, ha del miracoloso e dell'incredibile, perché l'unica copia esistente è riemersa alla luce proprio a Pordenone dove da 32 anni si svolgono Le Giornate del Cinema Muto ed è a tutti gli effetti, oltre al breve cortometraggio The Hearts of Age del '34, l'unico film muto di Welles. Le casse che contenevano il film sono rimaste per più di vent'anni in un magazzino di Pordenone, provenienti da Roma, senza che nessuno sapesse cosa vi fosse dentro. Poi, spostate negli spazi dell'associazione Cinemazero, co-fondatrice e co-organizzatrice delle Giornate, sono rimaste chiuse ancora per qualche anno e quindi finalmente aperte perché letteralmente puzzavano, visto che le pellicole soffrivano di sindrome acetica. A quel punto ci è voluto ancora un po', fino all'inverno del 2012, per capire che, tra le altre cose, lì si celava anche Too Much Johnson, film che Welles diresse nell'estate del 1938 e che, rimasto incompiuto, non era mai stato proiettato pubblicamente, fino almeno allo scorso 9 ottobre quando, grazie alla rassegna friulana, è stato possibile vederlo, a ben 75 anni di distanza dalla sua realizzazione. Un'occasione storica dunque, che di qui in poi costringerà a rimettere mano alla filmografia di Welles e alle monografie a lui dedicate.
Certo, va pur sempre valutato che Welles, con Too Much Johnson, non intendeva dirigere un film tradizionalmente inteso. In effetti, le riprese che il cineasta americano girò a New York nell'estate del 1938 dovevano servire da prologo di una commedia teatrale di William Gillette intitolata per l'appunto Too Much Johnson e interpretata dagli stessi attori cui Welles chiese di recitare nelle parti filmate. Si trattava perciò di un complemento allo spettacolo e ciascuno dei tre atti della commedia doveva essere preceduto da dei filmati - quindi non un solo prologo, ma tre - della durata complessiva di poco più di 40 minuti.

Too Much Johnson: un'immagine tratta dal film incompiuto di Orson Welles. Ma, sia perché il teatro che avrebbe ospitato lo spettacolo non era attrezzato per delle proiezioni sia perché erano finiti i soldi, alla fine la commedia andò in scena senza i prologhi. Welles perciò lasciò incompiuto il materiale, che nella versione in cui ci è arrivato dura 66 minuti, quindi più di venti minuti della durata inizialmente stabilita. Date tutte queste premesse, vien quasi voglia di definire Too Much Johnson un lungometraggio suo malgrado ed è per questo suo paradossale status che andrà valutato da qui in avanti.
Infatti, ormai finiti nel dimenticatoio sia la commedia originale che l'autore di quel testo, ciò che appare a noi è un film in cui Welles si è divertito a ricostruire il linguaggio del cinema muto, e in particolare quello delle comiche anni '20. In maniera più precisa, è probabile che in cima ai pensieri di Welles ci fosse Preferisco l'ascensore (Safety Last, 1923) in cui Harold Lloyd si arrampicava sui tetti di Los Angeles. In Too Much Johnson si vede infatti Joseph Cotten - che reciterà anche in Quarto potere e ne L'orgoglio degli Amberson - fingersi Alfred Johnson, fantomatico proprietario di una piantagione a Cuba, e ritrovarsi ad essere inseguito dal marito della sua amante, interpretato da Edgar Barrier (che nel 1948 reciterà, sempre per Welles, in Macbeth). Al di là di alcune brevi apparizioni di altri personaggi, sono proprio Cotten e Barrier i protagonisti assoluti del film, in una girandola di inseguimenti che passa dai tetti di New York per l'appunto, a una manifestazione di suffragette che chiedono il diritto di voto per le donne - il film è ambientato, come la commedia, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento - fino a una nave pronta a salpare e, infine, a Cuba dove i due si rincontrano proprio nella piantagione di cui Cotten/Johnson si è finto proprietario. Qui, ormai esausti, si ritrovano sotto la pioggia in una pozza d'acqua e stringono una sorta di tacito accordo all'insegna della rassegnazione.
Se, inoltre, è vero che - non essendo mai stato finito il montaggio - appaiono nel film diversi ciak ripetuti, è anche vero che Too Much Johnson non può e non deve essere considerato un reperto solo per archivisti e storici del cinema, come purtroppo è successo finora per altri lavori incompiuti di Welles, dal Don Chisciotte a The Other Side of the Wind.

Too Much Johnson: una scena tratta dal film incompiuto di Orson Welles. Pur non paragonabile alla grandezza di altri incompiuti wellesiani, Too Much Johnson è - nella sua dinamica da divertissment - il tassello fondamentale che mancava per poter finalmente porre in primo piano anche le capacità di Welles come regista di commedie e di film comici. Due sequenze in particolare meritano di essere segnalate: la prima è l'iniziale scena di sesso tra Cotten/Johnson e la sua amante con un montaggio rapidissimo e con la presenza scenica di una pianta le cui foglie vanno ripetutamente sul volto di Cotten distogliendolo; la seconda è la sequenza del marito cornificato che, folle di gelosia, aggredisce chiunque incontri e gli toglie il cappello con lo scopo di individuare l'amante di sua moglie. Se la scena di sesso suggerito è qualcosa di inaudito grazie al montaggio spiazzante (anticipa delle soluzioni che arriveranno solo negli anni Sessanta), la sequenza "dei cappelli" è una scena che, secondo tradizione delle comiche, gioca sull'accumulo e sulle variazioni del tema (le espressioni di volta in volta diverse delle persone che si ritrovano senza copricapo) e che però riesce ad ascendere fino al visionario nel momento in cui il marito sconfitto e furibondo, ripreso dall'alto, vaga per delle strade ormai colme di cappelli abbandonati.

Too Much Johnson: una sequenza tratta dal film incompiuto di Orson Welles. Decidendo inoltre di girare il film a meno di 24 fotogrammi al secondo - in modo tale che poi una volta proiettato gli attori si muovessero più velocemente e più a "scatti" - e mettendo in scena anche alcuni poliziotti a mo' di Keystone Cops come nelle comiche di Mack Sennett, Welles dimostra che, già nel 1938, aveva una consapevolezza critica e "storicista" del mezzo cinematografico, compiendo una sorta di operazione manierista ante litteram. Mentre di suo, di tipicamente wellesiano, pare di riconoscere almeno un paio di elementi: lo sfruttamento della profondità di campo e in generale di ottiche grandangolari (anche nei primi piani, che sarà poi una caratteristica del suo cinema, da Quarto potere in poi) e lo sviluppo dell'azione su più piani dell'inquadratura, come se ci si trovasse per l'appunto su un palcoscenico teatrale.
Che percorso avrà ora Too Much Johnson ancora non è dato saperlo e non sappiamo nemmeno come verranno confezionate le prossime visioni pubbliche del film, anche perché va ricordato che qui a Pordenone ci si è potuti avvalere della preziosissima testimonianza di Paolo Cherchi Usai, restauratore del film con la George Eastman House e tra i soci fondatori della Giornate del Cinema Muto, che ha commentato Too Much Johnson durante la proiezione come una sorta di oratore, per una esperienza cinematografica unica, divertente, commovente ed eccitante. Un evento raro e inedito, probabilmente irripetibile, che però ha restituito la magia primigenia del cinema di fronte all'epifania dell'ennesimo magnifico contributo dato da Welles alla Settima Arte”.

(Alessandro Aniballi in movieplayer.it)

Un ventitreenne Orson Welles dirige le sequenze di

6 maggio 1915 nasce Orson Welles, attore, regista, produttore e sceneggiatore americano (morto nel 1985).

 

Una poesia al giorno

Orazione, di Maurice Maeterlinck (traduzione di Daniele Ventre)

Abbiate pietà di mia assenza
sulla soglia delle intenzioni!
La mia anima d’impotenza
è smorta e di bianche inazioni!

L’anima mia, gesta lasciate,
l’anima mia, smorta ai singhiozzi,
guarda invano le mani affrante
che tremano a fior d’incompiuto.

E intanto che il mio cuore spira
le bolle di sogni lillà,
l’anima, a mani ceree, fragili,
spruzza un chiaro di luna stanco.

Chiaro di luna in cui traspaiono
gigli ingialliti del domani;
chiaro di luna in cui non nascono
che le ombre tristi delle mani.

Maeterlinck porta il Simbolismo sul palco

6 maggio 1949 muore a Nizza il conte Maurice Polydore Marie Bernard Maeterlinck, nato a Gand, il 29 agosto 1862. Fu poeta, traduttore, romanziere, drammaturgo e saggista belga, vincitore del Premio Nobel per la Letteratura nel 1911. Maurice Maeterlinck non è noto solo per il suo ruolo cruciale nel movimento simbolista, ma anche per le sue radici belghe e specificamente fiamminghe.

 

Un fatto al giorno

6 maggio 1933: la Deutsche Studentenschaft attacca l'Istituto per la ricerca sessuale di Magnus Hirschfeld, in seguito bruciando molti dei suoi libri.

6 maggio 1933: la Deutsche Studentenschaft attacca l'Istituto per la ricerca sessuale di Magnus Hirschfeld

L'Institut für Sexualwissenschaft era un istituto privato tedesco di ricerca sessuologica, con sede a Berlino, attivo dal 1919 fino al 1933, quando fu distrutto dai nazisti con un rogo di libri (Bücherverbrennung). Il nome può essere variamente reso in italiano come "Istituto per la ricerca sessuale", o "Istituto per la sessuologia", o "Istituto per la scienza della sessualità". L'istituto era situato nel parco Tiergarten di Berlino e diretto dal dottore di origine ebrea Magnus Hirschfeld. Dal 1897 Hirschfeld, insieme ad alcuni collaboratori) egli aveva istituito Wissenschaftlich-humanitäres Komitee (Comitato scientifico-umanitario), che si occupava di promuovere una campagna per la promozione dei diritti degli omosessuali, osteggiati dal paragrafo 175 del codice penale tedesco, che trattava l'omosessualità maschile come un crimine. Il Comitato pubblicava inoltre il giornale Jahrbuch für sexuelle Zwischenstufen.
Hirschfeld era inoltre un ricercatore: raccolse oltre 10.000 questionari relativi alla sessualità e pubblicò i risultati nel 1914 nel suo Die Homosexualität des Mannes und des Weibes. Egli, nel corso degli anni, raccolse una immensa ed unica, per l'epoca, biblioteca sui temi dell'amore e dell'erotismo omosessuale.

Magnus Hirschfeld (Kolberg, 14 maggio 1868 - Nizza, 14 maggio 1935)

L'Istituto per la ricerca sessuale venne inaugurato nel 1919 da Hirschfeld e dal suo collaboratore Arthur Kronfeld, un famoso psicoterapista e più tardi professore nella celebre clinica parigina della Charité.
Oltre essere una grande biblioteca per ricercatori contenente un grande archivio di documenti, l'Istituto possedeva anche di sezioni mediche, psicologiche ed etnologiche, oltre che di un apposito consultorio matrimoniale e sessuale. L'Istituto veniva visitato da circa 20.000 persone l'anno, e forniva circa 1.800 consulti. I visitatori più indigenti venivano seguiti gratuitamente. Inoltre l'Istituto patrocinava l'educazione sessuale, la contraccezione, la cura per le malattie trasmesse sessualmente e l'emancipazione femminile, oltre ad essere un precursore assoluto dei diritti civili e l'accettazione sociale degli omosessuali e dei transgender. Magnus Hirschfeld coniò il termine transessuale identificando per primo la categoria clinica sulla quale il suo collega Harry Benjamin, lavorò successivamente negli Stati Uniti con la pubblicazione di The transsexual phenomenon. Alcuni transgender facevano parte dello staff dell'Istituto e molti venivano per una consultazione. L'Istituto offriva diversi servizi endocrinologici e chirurgici, inclusa la prima operazione moderna di cambiamento di sesso, effettuata negli anni Trenta. Hirschfeld patrocinò inoltre presso la polizia di Berlino l'abbreviazione degli arresti di travestiti sospetti di prostituzione, fino a quando l'ascesa del nazismo lo obbligò ad abbandonare la Germania. Alla fine di febbraio 1933, in seguito all'indebolimento della posizione di Ernst Röhm, importante leader omosessuale nazista, il partito nazionalsocialista lanciò una violenta purga contro i locali di ritrovo per gay, lesbiche e bisessuali, soppresse pubblicazioni omosessuali e vietò le organizzazioni gay. In conseguenza delle difficoltà a vivere liberamente, molti abbandonarono la Germania (ad esempio Erika Mann). Nel marzo 1933, Kurt Hiller, amministratore principale dell'Istituto venne deportato in un campo di concentramento.

Il 6 maggio 1933 mentre Hirschfeld era impegnato in una serie di conferenze negli Stati Uniti, la gioventù studentesca nazista del Deutsche Studentenschaft organizzò un attacco contro l'Istituto. Vennero saccheggiati 20.000 volumi, 5.000 immagini ed una lunga lista di nomi e indirizzi di persone che erano, a diverso titolo, transitate dall'Istituto: il totale del materiale sequestrato assommava ad oltre mezza tonnellata. La notte del 10 maggio, la biblioteca e gli archivi sequestrati vennero pubblicamente bruciati sulle strade della Opernplatz. Durante il rogo Joseph Goebbels tenne un violento discorso contro la cultura «degenerata» ad una folla di 40.000 uomini e i leader del Deutsche Studentenschaft proclamarono i loro Feuersprüche ("legge del fuoco contro lo spirito non germanico"). I libri di autori ebrei delle librerie vicine all'Istituto e dell'Università Humboldt vennero altresì distrutti.
Altri piccoli roghi di libri vennero organizzati in tutta la Germania la stessa notte. Entro il 22 maggio erano stati effettuati roghi a Heidelberg, Francoforte, Gottinga, Colonia, Amburgo, Dortmund, Halle, Norimberga, Würzburg, Hannover, Münster, Königsberg, Coblenza e Salisburgo - la Gestapo sequestrò inoltre biblioteche pubbliche e private e le inviò al macero.
Gli edifici vennero successivamente requisiti dal partito nazista e nel 1944 erano rimaste solo rovine danneggiate dai bombardamenti che vennero demolite alla metà degli anni Sessanta. Hirschfeld cercò invano di rifondare l'Istituto a Parigi ma morì in Francia nel 1935. Hirschfeld lasciò nel suo testamento fondi per l'Istituto ma i beneficiari, fuggendo dalla Germania a causa delle persecuzioni, avevano distrutto i loro documenti di identità e non poterono reclamare legalmente il denaro. I frammenti rimasti della biblioteca dell'Istituto e delle ricerche di Hirschfeld vennero raccolti negli anni Cinquanta da W. Dorr Legg e ONE, Inc.
Nonostante molti abbandonassero la Germania per l'esilio, il radicale attivista Adolf Brand cercò di rimanere in Germania per altri cinque mesi dopo il rogo dei libri. Nel novembre 1933 anche Brand dovette rassegnarsi segnando la fine formale di ogni movimento di emancipazione omosessuale in Germania.
Il 28 giugno 1934 Hitler lanciò la Notte dei lunghi coltelli contro le SA, utilizzando il pretesto dell'omosessualità di molti appartenenti al reparto, anche se le vere ragioni risiedevano nel timore del troppo potere che le SA avevano. Nei mesi successivi la persecuzione contro gli omosessuali si inasprì, vennero promulgate leggi più severe, si ebbero i primi arresti e non è difficile immaginare che la lista di indirizzi sequestrata all'Istituto dia stata utilizzata per questa azione. Migliaia di arrestati vennero deportati nei campi di concentramento dove morirono a causa delle impossibili condizioni di vita e delle crudeli persecuzioni dei loro aguzzini. Altri, come John Henry Mackay, si suicidarono.
Uno dei volumi bruciati dai nazisti sull'Opernplatz era il lavoro del poeta ebreo Heinrich Heine; uno dei suoi versi più conosciuti è: «Dovunque si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini».”

(Wikipedia)

Immagini:

  • Nel film tedesco Different From the Others (1919, 50’), primo film gay al mondo, il sessuologo Dr. Magnus Hirschfeld interpreta se stesso.

 

Una frase al giorno

“Pensavo che lei fosse venuto come amico, non come giudice”

(Berndt Andreas Baader, 6 maggio 1943 - 18 ottobre 1977, fu uno dei primi leader dell'organizzazione militante di sinistra tedesca Red Army Faction, anche comunemente noto come Baader-Meinhof Group)

Jean-Paul Sartre e Andreas Baader

 

E SARTRE DISSE A BAADER: BASTA CON IL TERRORISMO

BERLINO. Già anziano e pieno di dubbi, ma carico di prestigio, il grande intellettuale critico della gauche tentò di fermare il partito armato, e di redimere l'artefice degli Anni di piombo. Andò apposta a trovarlo nel carcere di massima sicurezza di Stammheim presso Stoccarda, ma non riuscì a fargli cambiare idea. Ripartì celando dietro dichiarazioni ufficiali contro la repressione la sua delusione profonda, e tenendosi dentro il senso di sconfitta. Sembra un film, invece è una storia vera, top secret fino a ieri. L'eroe sconfitto e l'antieroe caparbio, si chiamavano Jean-Paul Sartre e Andreas Baader. Accadde il 4 dicembre 1974. Quasi quarant' anni dopo, i protocolli segreti di quel colloquio in carcere sono stati resi pubblici. Sono un documento storico, rivelato da Der Spiegel, che ha ottenuto dalle autorità la trascrizione pressoché integrale del colloquio, stilata con diligenza e persino con precise annotazioni sugli umori dei due, da parte dei poliziotti presenti. «Le masse, guardiamo alle masse», esordì l'autore de La nausea, Critica della ragione dialettica, Situazioni e di tanti testi-chiave della cultura contemporanea. «La Rote Armee Fraktion ha intrapreso azioni con cui il popolo non era d'accordo». Un j'accuse e un monito chiaro, contro la scelta della lotta armata e del terrorismo in una democrazia. Baader rispose arrogante e impassibile: «È stato constatato che il venti per cento della popolazione simpatizza con noi». L'idea dell'incontro era venuta a Ulrike Meinhof, la pasionaria delle Br tedesche. Sperava che il grande Sartre, già prigioniero della Wehrmacht e resistente, vedesse nella Repubblica federale uno Stato-erede del Reich e nei terroristi quasi una reincarnazione dei partigiani. Ma il muro dell'incomprensione si levò subito tra i due. «So di quelle statistiche», replicò Sartre, «sono state pubblicate ad Amburgo». Baader s'illuse di averlo convinto, e partì alla carica: «La situazione in Germania dipende da piccoli gruppi, nella legalità e nell' illegalità». Immediata, dura e chiarissima venne la risposta di Sartre: «Queste azioni sono giustificabili in Brasile (dove allora era al potere una brutale dittatura militare, ndr), ma non in Germania». Perché mai? chiese Baader infastidito e sorpreso. «In Brasile», rispose il premio Nobel, «singole azioni sono state necessarie per cambiare la situazione, quelle azioni sì che furono il necessario lavoro di base». Baader, annotarono i poliziotti, appariva sempre più irritato. Perché qui è diverso? domandò. «Qui non c'è il tipo di condizione del proletariato che c'è in Brasile», tentò di convincerlo Sartre. Il terrorista allora divenne ostile. Ricordò (nelle comode celle d'isolamento lui e gli altri avevano radio e tv) che Sartre aveva appena definito "un crimine" l'assassinio di un giudice a Berlino da parte dei terroristi. «Pensavo che lei fosse venuto come amico, non come giudice». «Voglio discutere con lei dei vostri princìpi», tentò ancora Sartre, «Difficile», ribatté il terrorista. Poi, annotarono i poliziotti, prese a leggere più volte frasi fatte di un suo comunicato di tre pagine dattiloscritto. «Il processo obiettivo attraversa contraddizioni... nell'offensiva la sinistra in Germania è accerchiata e isolata, la annienteranno... lo stato d'emergenza è in preparazione, l'offensiva contro di noi non è visibile, gli strumenti del capitalismo sembrano naturali; la politica del nemico di classe...». A quel punto Sartre lo interruppe, con un soprassalto: «Scusi, non riesco capire, che vuol dire "la politica del nemico di classe?"». Tentativo inutile. Baader tornò a leggere, parlò di «due linee, la frazione del Capitale e quella del debole riformismo... noi vediamo la possibilità di una dittatura strisciante, ecco la speciale situazione tedesca, il capitalismo Usa impone la sua politica». Nello scarno locale peri colloqui strettamente sorvegliati a Stammheim, si respirava sempre più un'atmosfera di dialogo tra sordi. Sartre ripeté con la massima chiarezza: «Guardi, le azioni della Rote Armee Fraktion non raccolgono nessuna eco nella Repubblica federale. Attacchi armati sono certamente giusti in paesi come il Guatemala, ma non qui». Baader rispose con una provocazione, gli suggerì di creare gruppi armati in Francia. «Eh no, non credo proprio che il terrorismo sarebbe una cosa buona per la Francia», replicò Sartre. Baader, annotarono i poliziotti, si mostrò deluso, aveva sperato in un appoggio di Sartre al partito armato. Il visitatore da Parigi se ne andò in silenzio, alla conferenza stampa si limitò a criticare la "inumana" detenzione in isolamento di Baader e degli altri terroristi. La stampa tedesca sparò a zero su di lui. Baader, Gudrun Ensslin e gli altri capi storici della Raf morirono suicidi in cella il 18 ottobre 1977 dopo il blitz antiterrorismo contro il jet Lufthansa dirottato a Mogadiscio per ottenere la loro liberazione. L'ultrasinistra parlò di omicidio, ma i loro avvocati - disse l'inchiesta - avevano procurato loro le armi per uccidersi. Sartre scomparve tre anni più tardi, all'apice della gloria, senza mai narrare a nessuno quel suo disperato tentativo di risparmiare all'Europa gli anni di piombo del partito armato.”

(Andrea Tarquini, 4 febbraio 2013 in ricerca.repubblica.it)

Immagini:

Una canzone: Kari Peitsamo - Andreas Baader Son

6 maggio 1943 nasce Andreas Baader, Terrorista tedesco, co-fondatore della Fazione dell'Armata Rossa (morto nel 1977)

 

Un brano musicale al giorno

Jean-Baptiste Stuck, Les Festes Bolonnoises, quinta cantata, libro IV, 1714

I. Prélude
II. Récitatif: Quel bruit fait retentir
III. Air: Volez, volez, charmants Amours
IV. Récitatif: Bientôt un héros glorieux
V. Air: Que de la Seine à la Tamise

Les Festes Bolonnoises

Jean-Baptiste Stuck (o Struck) fu musicista francese di origine italo-tedesca (Livorno, 6 maggio 1680 - Parigi 1755), noto anche con il nome di Batistin. Violoncellista nell'orchestra dell'Académie royale de musique di Parigi, fu il primo a introdurre l'uso del violoncello al posto della viola da gamba. Compose le opere francesi Méléagre (1709), Manto la fée (1711), Polydore (1720), l'opera italiana (perduta) Il gran Cid (1715), cantate e arie.»

(Treccani)


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k