“L’amico del popolo”, 7 agosto 2019

L'amico del popolo
Grandezza Carattere

L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno III. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

BITTER VICTORY (Vittoria amara, USA, 1957), regia di Nicholas Ray. Prodotto da Paul Graetz. Sceneggiatura: René Hardy, Nicholas Ray, Gavin Lambert, Paul Gallico. Basato sul racconto di René Hardy “Amère victoire”, del 1956. Musica: Maurice Leroux. Fotografia: Michel Kelber. Montaggio: Léonide Azar.
Cast: Richard Burton as Captain Jim Leith. Curt [Curd] Jürgens as Major David Brand. Ruth Roman as Jane Brand. Raymond Pellegrin as Mekrane. Anthony Bushell as General Patterson. Alfred Burke as Lieutenant Colonel Callander. Sean Kelly as Lieutenant Barton. Ramón de Larrocha as Lieutenant Sanders. Christopher Lee as Sergeant Barney. Ronan O'Casey as Sergeant Dunnigan. Fred Matter as Colonel Lutze. Raoul Delfosse as Lieutenant Kassel. Andrew Crawford as Private Roberts. Nigel Green as Lance Corporal Wilkins. Harry Landis as Private Browning. Christian Melsen as Private Abbot. Sumner Williams as Private Anderson. Joe Davray as Private Spicer.

Richard Burton in

Nel 1942, un plotone inglese parte in missione, attraverso il deserto, per impadronirsi di alcuni documenti custoditi dai tedeschi a Bengasi. Il gruppo è guidato dal capitano Jim Leith e dal maggiore David Brand, la cui moglie, Jane, ha avuto in passato una relazione con Leith, verso il quale prova ancora attrazione.
Durante l'assalto al quartier generale tedesco, Brand non se la sente di uccidere una sentinella e al suo posto lo fa Leith, che poi accusa il maggiore di viltà. Brand, ferito nell'amor proprio e geloso di Leith, ne desidera la morte e durante una sosta, vedendo uno scorpione che si avvicina al rivale, esita ad avvisarlo, sicché questi viene punto. Nonostante le cure, Leith s'indebolisce sempre più e muore durante una tempesta di sabbia.
La missione si conclude con successo, ma Brand, insignito di una medaglia, l'attacca al petto di un fantoccio dopo che Jane si è allontanata da lui.

“Nicholas Ray ci costringe a guardare come reale ciò che non guardavamo neppure come irreale, che non guardavamo affatto. [...] Vittoria amara non è il riflesso della vita, è la vita stessa fatta film, vista da dietro lo specchio in cui il cinema la capta. È nello stesso tempo il più diretto e il più segreto dei film, il più sottile e il più grossolano. Non è cinema, è meglio del cinema”

(Jean-Luc Godard)

Il Morandini cita il giudizio di Jean-Luc Godard («...come il sole, Vittoria amara vi farà chiudere gli occhi. La verità acceca») e conferisce al film un punteggio in stelline di 3½ su 5 (a fronte di 2 pallini su 5 come successo di pubblico), commentando: «Suggestivo, pieno di pagine di dolorante intensità e sequenze di smagliante efficacia, ha anche momenti sordi o irrisolti ma non incidono. Funzionale la fotografia di M. Kelber».”

(In wikipedia.org)

“Dal romanzo di Hardy. Nel 1942, il comandante (Curd Jurgens) d'una pattuglia nel deserto libico permette che uno scorpione velenoso punga l'amante (Richard Burton) di sua moglie (Ruth Roman) e poi uccide il testimone (Raymond Pellegrin) del delitto. Compiuta la missione, viene accolto come un eroe. Il film ha indubbiamente diversi punti deboli (specie nella prima parte); ma le scene di deserto, girate in Africa, sono stupende. L'episodio più valido è quello in cui un ufficiale deve ubbidire all'ordine di finire con un colpo di rivoltella il compagno ferito.”

(Georges Sadoul)

“È il secondo film di guerra girato da Nicholas Ray, dopo I diavoli alati (1952), ma gli stilemi classici del genere bellico lasciano spazio a un melodramma dove il vero conflitto non è tra Alleati e tedeschi, ma è quello interiore che alberga nell'animo umano. Calato nella suggestiva ambientazione di un deserto che si fa luogo simbolico, è una riflessione sul coraggio e la viltà, sulla morte e sulla guerra come meccanismo di progressiva disumanizzazione (perfetta la metafora dei manichini, a rendere l'idea di uomini trasformati in pupazzi insensibili). Ray cesella con finezza le personalità del rigido ma controverso Brand e del colto e umanissimo Leith (magistrali le interpretazioni di Burton e Jürgens) in un crudo apologo pacifista antieroico che fa prevalere la psicologia sull'azione. Gran parte delle scene furono davvero girate in Libia, con il supporto dell'esercito britannico; gli interni furono invece filmati negli studi francesi di Nizza.”

(In www.longtake.it)

BITTER VICTORY (Vittoria amara, USA, 1957), regia di Nicholas Ray

 

  • Il film: Bitter Victory (1957) con Richard Burton, Curd Jürgens, Ruth Roman, Christopher Lee. Diretto da Nicholas Ray.

Nicholas Ray, pseudonimo di Raymond Nicholas Kienzle (Galesville, 7 agosto 1911 - New York, 16 giugno 1979), è stato un regista statunitense che sposò l'attrice Gloria Grahame. Ray ebbe successo per il film Rebel Without a Cause e per un gran numero di opere narrative prodotte tra il 1947 e il 1963, tra cui Bigger Than Life, Johnny Guitar, They Live by Night e In a Lonely Place, nonché per un lavoro sperimentale prodotto negli anni '70 intitolato We Can't, incompiuto per la morte di Ray per cancro al polmone. Le composizioni di Ray all'interno della cornice di CinemaScope e l'uso del colore sono particolarmente apprezzati. Ray ha avuto un'influenza importante sulla New Wave francese, con Jean-Luc Godard che ha scritto in una recensione di Bitter Victory: "il cinema è Nicholas Ray."”

BITTER VICTORY (Vittoria amara, USA, 1957), regia di Nicholas Ray

 

Una poesia al giorno

August, di Federico Garcia Lorca

August.
Contraste
de piersică şi de zahár
şi soare în inima serii
ca sâmburu-n fruct.

Neatins porumbu-şi păstrează
râsul galben şi dur.

August.
Copiii mânâncă
pâine neagră şi lună rotundă.

Agosto

Controluce a un tramonto
di pesca e zucchero.
E il sole all’interno del vespro,
come il nocciolo in un frutto.

La pannocchia serba intatto
il suo riso giallo e duro.

Agosto.
I bambini mangiano
pane scuro e saporita luna.

Federico Garcia Lorca

 

Un fatto al giorno

7 agosto 1942: Seconda Guerra Mondiale, inizia la battaglia di Guadalcanal. I Marines iniziano la prima offensiva americana della guerra con uno sbarco a Guadalcanal nelle Isole Salomone.

“La campagna di Guadalcanal, nota anche come battaglia di Guadalcanal, ebbe luogo tra il 7 agosto 1942 e il 9 febbraio 1943 nel teatro del Pacifico della seconda guerra mondiale tra gli Alleati sbarcati sull'isola di Guadalcanal, nelle Salomone meridionali, e l'Impero giapponese che all'inizio del luglio 1942 aveva cominciato a costruirvi sulla costa nord una pista aerea. Rappresenta la prima grande offensiva lanciata dagli Alleati contro il Giappone, che fino ad allora aveva mantenuto l'iniziativa bellica.
Il 7 agosto 1942 le forze alleate, principalmente composte da truppe Usa, sbarcarono sull'isola di Guadalcanal, su quella di Tulagi e su quella di Gavutu-Tanambogo per privare il Giappone di tali basi avanzate e conquistare l'aeroporto che avrebbe potuto minacciare, una volta completato, le rotte dei rifornimenti tra gli Stati Uniti, l'Australia e la Nuova Zelanda; messe in sicurezza, le isole sarebbero servite agli Alleati per supportare una campagna volta a neutralizzare o catturare le piazzeforti giapponesi nella Nuova Britannia, come Rabaul.

Sorpresi dall'offensiva i giapponesi effettuarono tra agosto e novembre numerosi tentativi di riprendere l'isola e la base aerea (denominata Henderson Field dagli statunitensi) che causarono tre battaglie terrestri, cinque battaglie navali e scontri aerei quasi quotidiani, una serie di combattimenti culminata nella decisiva battaglia navale di Guadalcanal a metà novembre, nella quale venne respinto l'ultimo grande sforzo giapponese di far sbarcare un numero sufficiente di truppe per ricatturare l'aeroporto. A dicembre il Giappone rinunciò alla riconquista dell'isola di Guadalcanal ed evacuò le forze restanti entro il 9 febbraio 1943, lasciando definitivamente l'isola in mano agli Alleati.
La campagna di Guadalcanal segnò la prima grande vittoria strategica degli Alleati sul Giappone e perciò venne spesso definita il punto di svolta della guerra: la campagna rappresentò per gli Alleati l'inizio della transizione dalle operazioni difensive a quelle offensive, mentre il Giappone venne costretto sempre più sulla difensiva. Dal successo a Guadalcanal gli Stati Uniti continuarono la campagna attraverso il Pacifico, che culminò con la sconfitta del Giappone e il termine della seconda guerra mondiale. (...)

La campagna di Guadalcanal

I piani alleati per l'attacco alle Salomone meridionali furono concepiti dall'ammiraglio Ernest King, comandante in capo della flotta statunitense, che vedeva nell'operazione l'unico modo per strappare al Giappone posizioni pericolose per le linee di rifornimento tra gli Stati Uniti e l'Australia; inoltre ritenne possibile sfruttare questa campagna in congiunzione con quella della Nuova Guinea (dove le forze australiano-americane stavano combattendo sotto il comando del generale Douglas MacArthur) per catturare l'arcipelago di Bismarck ed eliminare la principale base giapponese a Rabaul. L'obiettivo finale sarebbe stato la riconquista delle Filippine. Il Joint Chiefs of Staff statunitense stabilì il teatro del Sud Pacifico il cui comando fu assunto il 19 giugno 1942 dal viceammiraglio Robert Ghormley. L'ammiraglio Chester Nimitz, a Pearl Harbor, venne nominato comandante in capo alleato dell'Area del Pacifico. A maggio 1942, in preparazione alle future offensive nel Pacifico, il maggior generale Alexander Vandegrift del Corpo dei Marines ricevette l'ordine di spostare la 1ª Divisione marines dagli Stati Uniti alla Nuova Zelanda; altre forze terrestri e aeronavali vennero inviate per stabilire delle basi nelle isole Figi, Samoa, Nuova Caledonia e nelle Nuove Ebridi; di quest'ultimo arcipelago l'isola di Espiritu Santo venne scelta come quartier generale e base principale per l'offensiva, prevista per il 7 agosto 1942 e denominata in codice operazione Watchtower ("torre di guardia"). Inizialmente era stata pianificata l'occupazione di Tulagi e delle isole Santa Cruz ma, dopo che i ricognitori avevano individuato la base aerea in costruzione, la seconda operazione era stata annullata in favore di Guadalcanal. Per l'attacco 75 navi da guerra e da trasporto (tra cui vascelli americani e australiani) furono riunite presso le isole Figi il 26 luglio 1942, dove effettuarono le prove generali di sbarco prima di dirigersi verso Guadalcanal il 31 luglio. Il comandante in campo delle forze di spedizione alleate era il viceammiraglio americano Frank Fletcher imbarcato sulla portaerei USS Saratoga; al comando delle forze anfibie era il contrammiraglio Richmond Turner mentre il maggior generale Vandegrift era a capo dei circa 16 000 uomini (principalmente marines) coinvolti negli sbarchi.

Grazie al maltempo, la flotta d'invasione poté giungere la mattina del 7 agosto nei pressi di Guadalcanal senza essere individuata dai giapponesi. Le navi vennero suddivise in due gruppi: uno con il compito di assaltare Guadalcanal e l'altro l'isola di Tulagi, di Florida e le isole vicine. Le navi bombardarono le spiagge mentre i velivoli imbarcati sulla portaerei colpirono le posizioni giapponesi nell'entroterra, distruggendo inoltre quindici idrovolanti a Tulagi. Tulagi e le due piccole isole vicine, Gavutu e Tanambogo, furono assaltate da 3.000 Marines che cozzarono contro la strenua resistenza opposta dai reparti nipponici. Con qualche difficoltà, le truppe statunitensi misero in sicurezza tutte le tre isole: Tulagi l'8 agosto e Gavutu e Tanambogo il 9 con il quasi totale annientamento dei difensori, al prezzo di 122 perdite. A differenza di Tulagi, Gavutu e Tanambogo, gli sbarchi a Guadalcanal furono incontrastati: alle 09:10 del 7 agosto, il generale Vandegrift e 11.000 soldati giunsero sulle spiagge dell'isola tra Punta Koli e Punta Lunga, attraverso la quale gli uomini avanzarono ostacolati solo dall'intricata foresta pluviale. Al calare della notte i soldati si fermarono a 1 chilometro circa dalla base aerea; il giorno successivo, 8 agosto, i Marines avanzarono senza difficoltà di rilievo seguendo il fiume Lunga e mettendo in sicurezza l'aeroporto alle 16:00. Gli addetti alle costruzioni e le truppe giapponesi, al comando del capitano Kanae Monzen, sprovvisti di armi pesanti e in preda al panico per il bombardamento aeronavale che aveva provocato tredici morti, abbandonarono la base e fuggirono 5 chilometri a ovest verso il fiume Matanikau lasciandosi dietro viveri, rifornimenti, equipaggiamenti e veicoli...”

(Articolo completo in it.wikipedia.org)

“La sottile linea rossa” (The Thin Red Line) è un film del 1964 diretto da Andrew Marton

La sottile linea rossa” (The Thin Red Line) è un film del 1964 diretto da Andrew Marton. Soggetto: James Jones. Fotografia: Manuel Berenguer. Montaggio: Derek Parsons. Musiche: Malcolm Arnold.

Nel 1942 una compagnia di soldati USA sta per sbarcare sull'isola di Guadalcanal. Mentre il colonnello Tall ed il capitano Stone pianificano l'invasione dell'isola, il soldato Doll ruba una pistola ad un commilitone di un'altra compagnia. Il sergente Welsh inizia a sospettare di Doll e della sua condotta, rimproverandolo beffardamente, ma il capitano Stone, che assiste al battibecco, interviene richiamando Welsh ed invitandolo ad essere meno severo, è qui che, dopo essersi congedato da Welsh, Stone afferma "c'è solo una sottile linea rossa tra il senno e la follia". Giunto sull'isola con la sua compagnia, Stone, viene nuovamente convocato dal colonnello Tall, il quale gli illustra la missione e gli spiega la sua importanza per poi interrogarlo duramente su quanto si senta veramente pronto ad entrare in azione ed a sacrificare i suoi uomini.

Frattanto i soldati Doll, Fife e Mazzi si avventurano nei boschi e rinvengono una fossa comune piena di cadaveri decomposti, è qui che, dopo essere rimasti sconvolti dalla vista della fossa, il sergente Welsh li raggiunge e, per scherzo, fa credere loro di essere caduti in un agguato da parte dei soldati giapponesi. Doll malsopporta lo scherzo di Welsh e malsopporta soprattutto la sua idea di far saltare in aria la fossa, dunque si allontana da solo per non averlo più vicino a sé, ma è qui che, isolato dal resto del gruppo, cade in un vero agguato di un soldato giapponese che degenererà in una lotta corpo a corpo nella quale, però, avrà la meglio. La vista del soldato giapponese, strangolato dalle sue stesse mani, ha sconvolto l'animo di Doll ed alimenta l'astio creatosi fra lui e Welsh, quando questi vuole regalargli, come bottino di guerra, il fucile nipponico del soldato ucciso. Il rimorso tormenta Doll anche di notte, quando il ricordo in sogno dell'ultima notte d'amore con la moglie e della falsificazione del numero sulla piastrina per evitare la chiamata alle armi, si trasforma in un incubo in cui Doll rivede ancora una volta sé stesso strangolare il soldato giapponese. Il mattino seguente la compagnia prosegue la conquista di Guadalcanal cadendo nelle trappole dei cecchini giapponesi appostati sugli alberi, Doll, in preda al panico, sfiora molte volte la morte arrischiandosi tra gli acquitrini della zona.

Il capitano Stone, intanto, inizia a scoraggiarsi, dando ragione a sospetti di Tall sulla sua incompetenza. Doll, per mettere a tacere il terrore che lo sta lentamente conquistando, si avventura, assieme ad un compagno, nel rischioso attraversamento di una pozzanghera e, nascosto dietro un tronco galleggiante, lancia contro il nemico una mezza dozzina di granate affastellate con degli stracci, aprendo un varco per l'intera compagnia. In un'operazione bellica successiva, la compagnia si ritrova a dover oltrepassare una vallata ostruita da del filo spinato, i soldati hanno due possibilità di attraversarla, la prima apparentemente più semplice è di mandare due di loro giù per la valle a tranciare il filo, la seconda, più complicata e pericolosa, è quella di arrampicarsi su delle scogliere laterali dove, però, si diventa bersagli molto facili per le mitragliatrici nipponiche appostate nei dintorni. Stone opta per la prima soluzione, mandando Mazzi in avanscoperta con un paio di tenaglie, questi però cade tragicamente in una trappola: il filo spinato era collegato a delle mine e l'artificio si sarebbe innescato non appena il filo fosse stato tagliato. Welsh turbato dalle urla dell'agonizzante Mazzi corre fra le raffiche di mitra giapponesi per portargli della morfina, Stone, intanto disubbidisce a Tall che via radio gli ordina di mandare i suoi uomini giù per la vallata, malgrado le mine. Lo stesso Stone ordinerà poi a Welsh di scegliere un uomo con cui attraversare le scogliere laterali secondo quanto stabilito dal piano B. Welsh sceglie proprio Doll, confidando nell'incoscienza che costui tira fuori per reprimere la paura, incoscienza che, però, gli ha fino ad ora permesso di avere successo nelle missioni. Sulle scogliere Welsh e Doll, mentre assicurano una fune per permettere al resto della compagnia di attraversare la zona facilmente, diventano bersaglio dei cecchini. Doll per schivare i proiettili fa cadere giù nella vallata alcuni massi i quali, a loro volta, fanno esplodere le mine, rendendo la zona innocua ed attraversabile.

Una volta attraversata la vallata la compagnia giunge al quartier generale dei giapponesi, qui dopo un cruento combattimento gli americani, cogliendo di sorpresa i nemici, avviano un veicolo militare senza conducente e carico di esplosivo verso il loro rifugio, distruggendolo. Durante le feste dei soldati per il successo nella battaglia, Stone viene convocato presso la base operativa da Tall, il quale lo solleva dal comando perché lo giudica "troppo buono". Cala la notte, gli yankee festeggiano ancora la conquista della base nemica, ma durante un ballo improvvisato da un soldato vestito scherzosamente da donna, alcuni giapponesi, nascostisi nei sotterranei, aprono il fuoco, cogliendo di sorpresa i festeggianti, la risposta della controparte americana ha successo, ma solo grazie ad un colpo di fortuna, e lo stesso Doll inizia a scaricare senza pietà la mitragliatrice anche contro soldati ormai inermi. Le perdite sono comunque considerevoli da entrambe le parti e, alla vista dei cadaveri, Welsh e Doll si accusano reciprocamente degenerando in una rissa dove a far da pacere si mostra necessario l'intervento del capitano Gaff, sostituto di Stone, e l'arrivo in jeep dello stesso Tall.

Il mattino seguente, quando la battaglia di Guadalcanal volge ormai al termine, la compagnia giunge ai piedi di una collina nelle cui caverne si sono defilati gli ultimi giapponesi rimasti. Ancora una volta Doll viene sopraffatto dalla paura, ma questa volta Welsh, invece che schernirne il comportamento, cerca, a suon di rimproveri, di dissuaderlo dall'essere tanto incosciente, Doll non lo ascolta e, di sua iniziativa, malgrado ciò faccia di lui un bersaglio, si arrampica su per la collina e raggiunge uno degli accessi alle caverne. Qui, Doll lancia una corda per permettere ai suoi commilitoni di accedere alle caverne e si addentra da solo, camminando in mezzo ai nemici, per i corridoi delle stesse. Il resto compagnia, compreso Welsh, giunge all'interno delle caverne e, durante il combattimento, un proiettile colpisce una cassetta esplosiva, avviando così una reazione a catena che porta all'esplosione di tutti gli ordigni ivi presenti, decimando sia le forze statunitensi che quelle giapponesi. È la vista di una tale carneficina, che fa sì che il senno del sopravvissuto Doll, passi dall'altra parte della "sottile linea rossa" ed inizi a sparare con la mitragliatrice su qualunque altro sopravvissuto si muova vicino a lui, amico o nemico. È solo dopo che Doll ha esaurito tutte le munizioni che Welsh gli si avvicina per parlargli, ma un giapponese che si era finto morto si solleva da terra per sparare Doll alle spalle e Welsh, pur di difenderlo, si piazza fra i due venendo colpito mortalmente. Doll, rientrato in sé, assiste impotente alla morte di Welsh e gli domanda perché mai lo abbia difeso, le ultime parole di Welsh saranno: "perché sono stupido". Infine Doll, come era solito fare lo stesso Welsh ai cadaveri dei compagni, prende la piastrina dal cadavere di Welsh e gliela mette in bocca.

 

Una frase al giorno

“Così armato, mi sentivo un perfetto guerriero, bello e imponente. Ma avevo un aspetto troppo moderno, intellettuale: Otello è un moro, deve avere qualche cosa della tigre. Ci vogliono delle movenze feline e ho cominciato a fare una serie di strani esercizi, ecco: cammino per la stanza strisciando, con passo felpato, sgattaiolando abilmente negli interstizi tra mobile e mobile. Mi nascondo dietro gli armadi in attesa della preda, e balzando fuori dall'agguato, assalgo un immaginario nemico, rappresentato da un grande cuscino. Gli pianto gli artigli nel collo, gli salto addosso. Poi il cuscino si è trasformato in Desdemona. E l'abbraccio appassionatamente, le bacio la mano (che era un angolo della federa). Poi la respingo con disprezzo per abbracciarla di nuovo e finalmente la strangolo e piango sul suo cadavere. Ho lavorato per quasi cinque ore, e non me ne sono accorto. È una cosa che non si può fare per forza. Solo quando si è in stato di «grazia». Le ore mi sono sembrate minuti, e questa è la prova che ho lavorato in stato di autentica ispirazione.”

(Konstantin Sergeievich Stanislavski, Mosca, 5 gennaio 1863 - Mosca, 7 agosto 1938, in “Il lavoro dell’attore su se stesso”)

(Konstantin Sergeievich Stanislavski, Mosca, 5 gennaio 1863 - Mosca, 7 agosto 1938)

Konstantin Sergeevič Stanislavskij, pseudonimo dell'attore e regista K. S. Alekseev, fu regista teatrale e insegnante russo, teorico del teatro, noto per essere l'ideatore del metodo Stanislavskij. Proveniente da un teatro d'amatori, dopo aver conosciuto la scena parigina e frequentato i corsi della scuola teatrale moscovita, esordì come regista (1889) ispirandosi ai metodi della compagnia dei Meininger che egli vide recitare a Mosca (1885-90). Teorico del teatro, sostenne il "naturalismo spirituale" dell'interpretazione scenica, curando la piena rispondenza della realtà al contenuto dell'opera nei drammi naturalistici e l'espressione di un'atmosfera spirituale in quelli simbolici. I suoi spettacoli messi in scena nel Teatro d'Arte, da lui fondato con V. I. Nemirovič-Dančenko, segnano una tappa gloriosa nella scena russa: memorabili gli allestimenti di Shakespeare, Maeterlinck, Gor´kij e, specialmente, Čechov. Dalla sua scuola uscì pure il grande secessionista V. E. Mejerchol´d.
Il metodo di recitazione di S., basato sul duplice lavoro dell'attore su se stesso e sul personaggio che dovrà interpretare-rivivere, ha avuto straordinaria fortuna nel teatro del Novecento. S. ha lasciato numerosi scritti essenziali per comprendere il suo pensiero: "Opere complete", 8 voll., 1954-61. Fra gli altri volumi usciti in italiano: Il lavoro dell'attore sul personaggio (1956; 1988); L'attore creativo (1980); Le mie regie (1986).”

 

Un brano musicale al giorno

Friedrich Wilhelm Zachow, Suite in Si minore. Carole Cerasi al clavicembalo.

Friedrich Wilhelm Zachow o Zachau (Lipsia, 14 novembre 1663 - Halle, 7 agosto 1712)

Friedrich Wilhelm Zachow o Zachau (Lipsia, 14 novembre 1663 - Halle, 7 agosto 1712) è stato un compositore tedesco. Zachow studiò con suo padre, Heinrich Zachow, musicista nativo di Lipsia. Nel 1684 fu organista e cantore della chiesa Marktkirche Unser Lieben Frauen. Durante la sua permanenza ad Halle diventò particolarmente noto come compositore di cantate drammatiche. Nel 1695 fu criticato dai pietisti a causa della sua musica eccessivamente lunga ed elaborata, che poteva essere apprezzata solo dai cantori e dagli organisti.
Zachow fu influenzato da Johann Theile e da Erdmann Neumeister. Egli fu l'insegnante di Gottfried Kirchhoff, Johann Philipp Krieger e Johann Gotthilf Ziegler, ed il primo insegnante di musica di George Friderich Handel. Gli insegnò a suonare il violino, l'organo, il clavicembalo, l'oboe e il contrappunto.
Dopo la morte di Zachow nel 1712, Handel diventò benefattore alla famiglia, per l’insegnamento che ricevette. Nel 1713 J. S. Bach prese il posto di Zachow.
Handel continuò a suonare le composizioni di Zachow nelle proprie opere, non semplicemente citandolo, ma anche in termini di timbro: per esempio la cantata Herr, wenn ich nur dich hab.”

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k