L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno III. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
LES TROIS COURONNES DU MATELOT (Le tre corone del marinaio, Francia, 1983), regia di Raúl Ruiz. Prodotto da Paulo Branco. Scritto da Raúl Ruiz. Musica: Jorge Arriagada. Fotografia: Sacha Vierny. Montaggio: Valeria Sarmiento. Cast: Jean-Bernard Guillard, il marinaio. Philippe Deplanche, Tadeusz Krasinski, lo studente. Jean Badin, il primo ufficiale. Nadège Clair, María, la prostituta. Lisa Lyon, Matilde, la ballerina. Claude Derepp, il capitano della nave. Franck Oger, l’uomo cieco, Diogo Dória, il fidanzato della sorella del marinaio.
"Un marinaio (Jean-Bernard Guillard), preda di un’inquietudine notturna, racconta a un perfetto sconosciuto alcune delle sue perizie in giro per il globo. Il suo interlocutore è uno studente polacco (Philippe Deplanche), giovane e con molta meno esperienza del suo navigato affabulatore.
"Il cinema, atto d’amore, si fa con qualsiasi cosa e di qualsiasi cosa: un filo di ferro, una goccia d’acqua, un tuono lontano, il miagolio di un gatto. Tutto può essere punto di partenza o punto di arrivo. Il cinema non è necessariamente un’arte totale, come l’opera, ma è l’arte di far vedere la parte invisibile di ogni cosa fatta dal Creato”.
(Raoul Ruiz in filmperevolvere.it)
"La vertigine dell’illusione: breve introduzione al cinema di Raoul Ruiz
Ha scritto Jean-Luc Godard che, se Fassbinder ha idealmente rappresentato il cinema negli anni Settanta, Raoul Ruiz è stato il regista che meglio ha interpretato quest’arte durante gli anni Ottanta.
Al di là della tipica apoditticità degli aforismi godardiani, è interessante constatare che questo esaustivo giudizio provenga proprio da uno degli autori che più hanno lavorato, non solo nel cinema, quanto sul cinema: un autore, Godard, che condivide con Ruiz un approccio e un’interpretazione della settima arte come luogo - e “gioco” - linguistico.
Originario del Cile, Ruiz è autore di un cinema senza patria, apolide, eccentrico, inclassificabile; vero e proprio compositore di universi barocchi in cui, come nel cinema di Peter Greenaway, coesistono elementi eterogenei. Se, infatti, in Greenaway il cinema si fonde teoricamente con la pittura, in Ruiz esso si “confonde” con la letteratura di impronta filosofica. Entrambi i registi sono d’altronde autori di un cinema postmoderno che mischia fra loro ambiti culturali diversi. Nel cinema di Raoul Ruiz si respirano le pagine dei libri di Borges, di Bataille, di Potocki, di Stevenson, di Cortázar, di James, di Proust, evocate attraverso immagini che paiono sottratte a lungometraggi di registi quali Ophuls, Cocteau e Buñuel. Ma è soprattutto Orson Welles il nume tutelare di Ruiz. Con una sottile differenza: come ha individuato perfettamente Alessandro Cappabianca «Welles è capace di ricostruire una ferrea consequenzialità narrativa riassemblando spezzoni girati su set diversi, magari ai quattro angoli del mondo [Othello]; Ruiz non solo sembra più interessato a far passare per luoghi diversi (isole, terre esotiche) quello che è sempre lo stesso, ma, una volta radunate tutte le tessere del puzzle, gli piace rimetterle insieme in modo che non combacino mai perfettamente, in modo che qualcosa sempre non torni, per eccesso o per difetto».
Un cinema, quello ruiziano, non solo esclusivamente metalinguistico, ma strutturalmente onirico, scomposto. E, perché no? anche ludico. Tanto teorico quanto pronto a farsi trasportare dal piacere del racconto - tanto meglio se fantastico. Un’idea di cinema, dunque, come luogo di pura immaginazione (e narrazione), dove storie partoriscono incessantemente altre storie, costituendo in tal modo un universo di scatole cinesi e sentieri che si biforcano.
Ruiz è un autore incredibilmente prolifico. La sua filmografia conta più di un centinaio di titoli che, come i suoi film, costituiscono nel loro insieme un enciclopedico universo (borgesiano?) a se stante. Dopo i primi lavori in Cile, tra cui bisogna perlomeno ricordare Tre tristi tigri [Tres tristes tigres, 1968] e Nessuno disse niente [Nadie dijo nada, 1971] - film contrassegnati da un allontanamento dal realismo socialista nei confronti di un evidente interesse per il mezzo, e dai risolviti surreali e paradossali del plot -, intorno al 1977 Ruiz si trasferisce in Europa. Qui conosce il filosofo Pierre Klossowski, col quale collabora in alcuni film - oltre alla trasposizione de La vocazione sospesa [La Vocation suspendue, 1977] bisogna citare almeno il fondamentale L’ipotesi del quadro rubato [L’Hypothèse du tableau volé, 1978].
Ma è forse negli anni Ottanta che il talento visionario di Ruiz raggiunge probabilmente il suo vertice. Nell’arco di pochi anni dirige, infatti, alcuni dei film più impressionanti, visionari e avanguardistici che la settima arte abbia conosciuto in questo decennio. Dopo l’horror metafisico The Territory [id., 1981], gira, nello stesso anno (!), due dei suoi capolavori, Le tre corone del marinaio [Les Trois couronnes du matelot, 1983] e La città dei pirati [La Ville des pirates, 1983]. Questi due film, seppur differenti nella trama, esprimono al meglio l’interesse per il fantastico del regista cileno. Le tre corone del marinaio, in particolare, è forse il film che meglio trasmette l' “idea cinematografica” di Ruiz, contenendo, in potenza, tutto il suo cinema precedente e venturo.
Si tratta di un film che, letteralmente, “esplode” per visionarietà, suggestione e atmosfera, nonché uno dei pochi (e discreti) successi del regista, come puntualizza Jonathan Rosenbaum. Un vertice di trucido, allegorico e ironico postmodernismo cinematografico, in cui viene fagocitato di tutto: La signora di Shanghai [The Lady from Shanghai, 1947] e Thomas Pynchon, Buñuel e Borges, Storia immortale [Une Histoire immortelle, 1968] e Il manoscritto trovato a Saragozza. Il regista cileno imbastisce, in questo film, un vero e proprio labirinto di specchi, di luci, grandangoli e lenti deformanti in cui lo spettatore si perde a poco a poco. La storia del giovane studente (interpretato da Philippe Deplanche) che, sfuggendo da un omicidio appena compiuto, si imbatte in un marinaio cantastorie (Jean-Bernard Guillard) - per tre corone, ovviamente - è solo un pretesto per costruire una rete inestricabile di racconti fantastici, per mare e per terra, in un regno immaginifico dominato da fantasmi.
Ruiz e il circolo vizioso: Le tre corone del marinaio
Un bicchiere; poi una mano che scrive un manoscritto. Il testo recita così: «Del tutto inutile perdersi in futili dettagli, fatemi solo dire che abbiamo attraversato la più infida delle tempeste prima di giungere nelle indie occidentali». E poi una musica epica, d’avventura diretta, come di consuetudine, da Jorge Arriagada - sui titoli di testa. Un vascello sta solcando l’oceano. Così inizia Le tre corone del marinaio. L’atmosfera è quella di un racconto di Robert Louis Stevenson.
Ma Ruiz ci sta in qualche modo ingannando. Perdersi (“in futili dettagli”, in racconti, in storie...) sarà, infatti, la principale prerogativa di questo film labirintico. Fin da subito, a condurre la narrazione - e lo spettatore - interviene una voce over: in questo caso, quella dello studente. La voce fuori campo è, d’altronde, uno degli espedienti narrativi prediletti dal regista cileno. Ma Ruiz, ne Le tre corone del marinaio, decide di “complicarne” l’uso attribuendo, di volta in volta, il ruolo di narratore ad un personaggio diverso. In particolare, è il marinaio incontrato dallo studente ad essere il vero nucleo su cui la storia, o per meglio dire le storie si intrecciano e si moltiplicano.
La fotografia di Sacha Vierny, il grande direttore dei film di Alain Resnais e Peter Greenaway, asseconda Ruiz in quello che sarà un vero e proprio caleidoscopio di stili e di esperimenti visivi, passando dai viraggi con colori accesi, quali il violetto o l’arancione, fino a pastosi effetti flou. Ciò contribuisce a calare il film entro una cornice dichiaratamente onirica e sognante.
Come spiega lo stesso Ruiz: «[...] la rottura costante dell’asse visuale, il fare errori di continuità, e il farlo sistematicamente, al principio viene percepito come un semplice errore, ma, dopo quattro, cinque, dieci volte, si crea un altro spazio: lo spazio discontinuo dove esistono solo cose che dobbiamo guardare due volte, per poterle metter in relazione con quello che arriva dopo.»
Come nel capolavoro noir Il segreto del medaglione [The Locket, John Brahm, 1946], anche Le tre corone del marinaio è articolato attraverso una struttura “in abisso” dove flashback si sommano ad altri flashback.
Oltre alla bellezza delle immagini, che traducono bene il mondo finzionale de Le tre corone del marinaio, anche i dialoghi si rivelano fondamentali nel costruire giochi di parole paradossali, e dai significati misteriosi. Oltre al divertente espediente delle lettere incise come tatuaggi sui corpi dei marinai della Funchalanse, vale la pena ricordare il poetico e assurdo discorso del nero sulle tre corone danesi che danno titolo al film.
«Se vuoi aiutarmi, portami, senza chiedere perché, tre corone danesi.»
«Perché non posso chiederti il motivo?»
«La spiegazione sarebbe troppo lunga perché ogni circostanza della mia vita è parte di questa spiegazione. E se per spiegare un minuto della mia vita avrei bisogno di un giorno intero, per spiegare la mia vita intera dovrei avere un’infinità di anni. E la cosa curiosa è che questa infinità di anni sarebbe compresa in un solo istante della mia vita. Un istante che noi vivremo insieme, se mi porterai tre corone danesi, oggi.»
Nel finale del film, il cerchio finalmente si chiude. Lo studente uccide il marinaio. Poco dopo, il suo fantasma lo chiama a salire finalmente sulla Funchalanse - come gli era stato spiegato, per salire sulla nave bisognava uccidere qualcuno. Una volta salito, le immagini che seguono sono a colori, e non più in bianco e nero. Il presente e il passato, il racconto e il ricordo diventano tutt’uno. D’altronde, come dice anche la voce over: «Sulla nave dei morti ci vuole sempre un marinaio vivo. Compresi che spettava a me questo umile compito.»"
(Articolo completo di Nicolò Vigna in specchioscuro.it)
- Il film: Raoul Ruiz, 1983, Three Crowns of the Sailor
Una poesia al giorno
Arbolé, arbolé seco y verdé, di Federico del Sagrado Corazón de Jesús García Lorca
La niña del bello rostro
está cogiendo aceituna.
El viento, galán de torres,
la prende por la cintura.
Pasaron cuatro jinetes
sobre jacas andaluzas
con trajes de azul y verde,
con largas capas oscuras.
«Vente a Córdoba, muchacha».
La niña no los escucha.
Pasaron tres torerillos
delgaditos de cintura,
con trajes color naranja
y espadas de plata antigua.
«Vente a Sevilla, muchacha».
La niña no los escucha.
Cuando la tarde se puso
morada, con luz difusa,
pasó un joven que llevaba
rosas y mirtos de luna.
«Vente a Granada, muchacha».
Y la niña no lo escucha.
La niña del bello rostro
sigue cogiendo aceituna,
con el brazo gris del viento
ceñido por la cintura.
Arbolé arbolé
seco y verdé.
(Traduzione in www.nonsoloaforismi.it)
Albero, albero
Secco e verde
La ragazza dal bel viso
Sta raccogliendo le olive.
Il vento, amante di torri,
la prende per la cintura.
Passaron quattro cavalieri,
sopra cavalli andalusi
con vestiti azzurri e verdi,
con lunghi mantelli scuri.
"Vieni a Cordova, ragazza".
La ragazza non li ascolta.
Passarono tre toreri
sottili nella cintura:
vestiti color d'arancia
con spade d'argento antico.
"Vieni a Siviglia, ragazza".
La ragazza non li ascolta.
Quando la sera divenne
Viola, con luce diffusa,
passò un giovane che aveva
rose e mirti di luna.
"Vieni a Granada, ragazza".
La ragazza non lo ascolta.
La ragazza dal bel viso
Continua a raccogliere olive,
col braccio grigio del vento
stretto intorno alla cintura.
Albero, albero
Secco e verde.”
Federico del Sagrado Corazón de Jesús García Lorca (5 giugno 1898 - 19 agosto 1936), noto come Federico García Lorca, fu un poeta, drammaturgo e regista teatrale spagnolo. García Lorca ottenne il riconoscimento internazionale come membro emblematico della Generazione del '27, un gruppo composto principalmente da poeti che introdusse i principi delle avanguardie artistiche europee (come simbolismo, futurismo e surrealismo) nella letteratura spagnola con risultati eccellenti, tanto che la prima metà del Novecento viene definita la Edad de Plata della letteratura spagnola. Sostenitore dichiarato delle forze repubblicane durante la guerra civile spagnola, fu catturato a Granada, dove si trovava ad alloggiare in casa di amici, e fucilato da uno squadrone della milizia franchista. Il suo corpo fu poi gettato in un burrone ad alcuni chilometri alla destra di Fuentegrande e non è mai stato trovato.
Un fatto al giorno
19 agosto 1945: Rivoluzione d'agosto. Il Viet Minh guidato da Ho Chi Minh prende il potere ad Hanoi, in Vietnam.
“La rivoluzione di agosto (in lingua vietnamita: Cách mạng tháng Tám) fu l'insurrezione del popolo del Vietnam che ebbe luogo nell'agosto fino al 2 settembre del 1945. Fu organizzata dal movimento Viet Minh, egemonizzato dal Partito Comunista Indocinese di Ho Chi Minh, dopo che alla fine della seconda guerra mondiale si era creato un vuoto di potere nel Paese con la resa del Giappone, il cui esercito nel marzo precedente aveva occupato l'Indocina francese ed aveva disarmato e imprigionato i colonizzatori europei. Entro fine mese, i Viet Minh si assicurarono il controllo di gran parte del Paese e, il 2 settembre, Ho Chi Min proclamò l'istituzione della Repubblica Democratica del Vietnam e l'indipendenza nazionale. ... Il 13 agosto 1945, subito dopo i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki con cui gli Alleati piegarono definitivamente il Giappone, il comitato centrale del PCI riunito a Tan Trao diede indicazioni di dare il via all'insurrezione generale durante il Congresso Nazionale di Viet Minh, e istituì un comitato rivoluzionario alla cui guida fu posto il segretario del PCI Trường Chinh. Il 16 agosto, il Congresso di Viet Minh ratificò le decisioni prese a Tan Trao; a capo del nuovo Comitato di Liberazione Nazionale, che rappresentava il governo provvisorio, fu posto Ho Chi Minh (gravemente malato in quel periodo). Il giorno dopo fu ufficialmente adottata la bandiera rossa con la stella gialla, e Ho lesse un appello alla Nazione per aderire all'insurrezione.
Il 15 agosto, l'imperatore Hirohito aveva annunciato la resa del Giappone; la notizia si diffuse ad Hanoi il 16 e subito il comando militare giapponese locale consegnò il potere alle autorità vietnamite, che il giorno dopo furono deposte dalle forze Viet Minh. I rivoluzionari si armarono e la mattina seguente fu proclamato a una folla di 200.000 cittadini ad Hanoi l'inizio della rivolta. La folla occupò i principali edifici di potere senza incontrare resistenze; la vittoria ad Hanoi si estese subito agli altri capoluoghi delle province del Tonchino, che a loro volta occuparono le sedi dell'amministrazione. In Annam e in Cocincina, malgrado il PCI non avesse potuto espandersi come al nord, Huế e Saigon seguirono la sorte di Hanoi nel giro di pochi giorni. Il 25 agosto, l'imperatore Bảo Đại fu costretto ad abdicare. Le principali resistenze incontrate dai Viet Minh, ad opera dei gruppi buddhisti Hoa Hao e Cao Dai che cercavano di affermarsi in ambiti locali, si registrarono nel Delta del Mekong, dove in settembre iniziarono scontri armati.
Il 28 agosto Ho Chi Minh annunciò ad Hanoi, nuovo quartier generale Viet Minh, la formazione del governo provvisorio nazionale del quale era presidente e ministro degli Esteri, Giap era ministro degli Interni e Pham Van Dong delle Finanze, mentre il deposto imperatore fu nominato consigliere. Il 2 settembre, Ho Chi Min proclamò ad Hanoi davanti a mezzo milione di vietnamiti l'istituzione della Repubblica Democratica del Vietnam e chiuse il discorso con l'appello di riconoscere l'indipendenza del Paese alle forze alleate, vittoriose nel conflitto mondiale...”
(Articolo completo in it.wikipedia.org)
Una frase al giorno
"Nessun uomo ti farà sentire protetta e al sicuro come un cappotto in cashmere e un paio di occhiali neri."
(Coco Chanel, 19 agosto 1883, Saumur, Francia - 10 gennaio 1971, Hôtel Ritz, Parigi, Francia)
"La celebre stilista Coco Chanel nonostante l'aspetto minuto era dotata di una personalità forte e carismatica. Passa gli anni giovanili in un orfanotrofio ma il suo fiuto per gli affari unito alla sua capacità di saper precorrere i tempi saranno fattori determinanti per la sua rivalsa sociale.
Nel giro di pochi anni si fa valere come couturière e aprirà il suo primo atelier in Rue Cambon (tuttora sede della Maison). Fu Coco Chanel a lanciare sul mercato il tubino nero. Si trattò di una vera rivoluzione che nobilitava un colore che fin allora era considerato adatto solo a occasioni di lutto e di morte. Da quel momento in poi il tubino (lbd acronimo per little black dress) diverrà il capo pilastro di tutti i guardaroba femminili.
Sempre grazie all'influenza di Coco Chanel il modo di vestire diverrà più confortevole. Fu lei a usare per le sue creazioni tessuti morbidi e scivolosi come il jersey al posto di abiti più formali e costrittivi. E fu sempre lei a sdoganare il pantalone che fino ad allora era un capo considerato maschile. Memorabili le immagini, per niente scontate in quel periodo, che ritraggono la stilista che indossa una marinière e un paio di pantaloni larghi.
Coco Chanel è stata una rivoluzionaria della moda e non è un caso se una personalità così forte ci abbia lasciato delle memorabili citazioni... "
(in www.cosmopolitan.com)
La vera storia di Coco Chanel, il genio assoluto della moda: www.lofficielitalia.com
Chi non conosce Coco Chanel, la rivoluzionaria stilista francese, icona cult della moda? Il suo nome è indissolubilmente legato alla sua maison e al profumo Chanel n° 5, l’unica cosa che valeva la pena di indossare a letto, secondo Marylin Monroe. La sua vita fu un’avventura costellata di dolori, successi, intuizioni, amori e.. spionaggio. Già, perché secondo alcuni documenti segreti resi poi pubblici, Coco Chanel fu anche un abile ed astuto agente segreto che durante la seconda guerra mondiale collaborò con tedeschi e russi.
Nata in un ospizio per poveri a Saumur, Francia, da una relazione clandestina, la piccola Gabrielle Bonheure Chanel perse la madre ad appena 6 anni e fu quindi spedita in un orfanotrofio dove, a causa della sua povertà, venne maltrattata dalle suore che gestivano la struttura. Secondo molti, la predilezione della stilista per le linee austere degli abiti ed il frequente uso del bianco e nero si deve proprio a quel periodo. Fu quando, dopo aver lasciato l’orfanotrofio, si esibì come cantante nei caffè parigini che le fu affibbiato il nomignolo di Coco, derivante dalla canzone Qui qu’a vu Coco? che apriva le sue esibizioni. La sua fortuna si deve all’accuratezza con la quale sceglieva le sue relazioni e le sue amicizie, tutte facoltose e ben disposte a finanziare i suoi progetti, alla capacità imprenditoriale ed all’innata predisposizione ad uscire fuori dagli schemi.
Furono proprio queste caratteristiche che la portarono ad avere un ruolo importante durante la seconda guerra mondiale, quando, a causa del conflitto, fu costretta a chiudere il suo atelier parigino per dedicarsi ad un’attività più emozionante, quella di agente segreto. In una Parigi devastata dai bombardamenti tedeschi, che ben poco aveva di affascinante, la stilista francese intraprese dapprima una relazione con Hans Günter von Dincklage, membro del controspionaggio nazista (Abwehr) e poi con un ufficiale delle famigerate S.S., la terribile organizzazione paramilitare nazista. Del resto, le sue relazioni avevano incluso personaggi ben più stravaganti, a cominciare dal II Duca di Westminster, Hugh Richard Arthur Grosvenor, noto antisemita e fiancheggiatore del nazismo, che le aveva regalato una casa a Londra ed un terreno a Roquebrune-Cap-Martin, dove sorge Villa La Pausa, progettata dalla stessa Chanel. Non è difficile credere che in realtà Gabrielle fosse più interessata ai suoi profitti che non alle ideologie di partito, anche se il giornalista Hal Vaughan nel suo saggio A letto con il nemico - La guerra segreta di Coco Chanel, sostiene che, oltre che opportunista, fosse ‘ridicolmente snob’, razzista, omofobica e che odiasse ebrei e comunismo.
Da numerosi documenti emersi dagli archivi dell’intelligence tedesca e francese, risulta evidente che agli inizi del 1941 Coco Chanel fu contattata dall’Abwehr, che teneva in gran considerazione le numerose amicizie altolocate della stilista, tra cui il primo ministro inglese Winston Churchill, e fu arruolata con il nome in codice di Westminster (riferito alla sua relazione con il duca Grosvenor), matricola F 7124, al fine di intrattenere rapporti diplomatici segreti con Churchill stesso ed altri personaggi di rilievo. Forte della sua posizione, provò anche a sfruttare le leggi razziali in vigore in quegli anni, per riottenere i profitti del celebre Chanel n° 5, venduto anni prima ad una famiglia ebrea, ma senza successo.
L’operazione più rilevante alla quale prese parte, fu l’operazione ‘Cappello da modella‘ (Modellhut, in tedesco) del 1943, che la voleva ambasciatrice degli ufficiali tedeschi decisi ad abbandonare Hitler e negoziatrice di una pace segreta con gli inglesi. Le trattative si sarebbero dovute svolgere in Spagna, sotto la copertura di un viaggio d’affari, per il quale Coco Chanel fu accompagnata dalla sua assistente Vera Bate Lombardi e dal Conte Joseph von Ledebur-Wicheln, un agente segreto nazista. Fu proprio la Lombardi, non troppo convinta dagli atteggiamenti sospetti dei suoi compagni di viaggio, a denunciarli all’ambasciata britannica come spie naziste. L’accusa portò a diversi interrogatori e ad un processo che però non ebbero conseguenze per Gabrielle, a favore della quale intervenne nientemeno che Churchill in persona. La stilista e la sua maison erano salve, Coco Chanel tornò presto ad occuparsi dei suoi affari e ad essere quell’icona di stile che tutti conoscono, giacché, come ella stessa disse una volta: ‘una donna deve essere solo due cose, elegante e straordinaria´.
(M. Gatti in cultstories.altervista.org )
Immagini:
- Karl Lagerfeld's Coco Chanel Film, 'The Return'
- Coco Chanel Documentary
Un brano musicale al giorno
Salamone Rossi, Songs of Solomon - Kuhn Chamber Soloists
Salamone Rossi, detto l'Ebreo (Mantova, 19 agosto 1570 circa - Mantova, 1630), è stato un compositore e musicista italiano vissuto nel tardo rinascimento e nel primo barocco.
Nacque a Mantova nel 1570 circa in una famiglia della vasta comunità ebraica mantovana, protetta dai Gonzaga. Con la famiglia dominante ebbe rapporti intensi e duraturi particolarmente con il duca Vincenzo I. In occasione delle nozze di Francesco IV Gonzaga con Margherita di Savoia compose, tra lʼaltro, il primo e il quinto intermedio per Lʼidropica, commedia di Battista Guarini rappresentata il 2 giugno 1608. Sul fronte della musica strumentale diresse i due ensemble attivi a corte. Formò anche un duo, conosciuto anche nelle altre corti dell'epoca, con il cantante, danzatore e violinista ebreo Isaac Massarano.
Celeberrimo ai suoi tempi, lasciò un'impronta personale nella produzione strumentale, essendo tra i primi a sviluppare la tecnica della variazione e a trattare la Sonata a tre. Tenne una delle prime scuole violinistiche e introdusse nella salmodia ebraica lo stile polifonico del madrigale. Consapevole dell'importanza, in prospettiva, della pratica esecutiva del madrigale accompagnato, Salamone Rossi fu il primo a dare alle stampe un libro che la ufficializzasse (Il primo libro de madrigali... con alcuni di detti madrigali nel chittarrone, a cinque voci, 1600). Nella sua opera salmodica (mottetti) il Rossi fu largamente influenzato dal Salterio ginevrino di cui riprende molte melodie. Rossi morì nel 1630 a Mantova, probabilmente di peste. "
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.
È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.
Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.
“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”
(Wikipedia)
“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”
(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)
“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.
(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)
“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”
(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)
“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)
“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.
(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)
Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/
Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0
https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs
https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4
https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk
Una poesia al giorno
Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l'anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
Nous serons
N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents
N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.
Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.
Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible
Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.
Unis par le plus fort et le plus cher lien,
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.
Sans nous préoccuper de ce que nous destine
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?
Un fatto al giorno
17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.
(da Focus)
Una frase al giorno
“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”
(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)
Un brano al giorno
Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k