“L’amico del popolo”, 7 gennaio 2021

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno V. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

ANNA BOLEYN (Germania, 1920), regia di Ernst Lubitsch. Prodotto da Paul Davidson. Scritto da Norbert Falk (come Fred Orbing), Hanns Kräly. Musiche di Eduard Prasch (Originale), Javier Pérez de Azpeitia (2006). Fotografia: Theodor Sparkuhl.
Cast: Henny Porten nel ruolo di Anna Boleyn. Emil Jannings nel ruolo di Henry VIII. Paul Hartmann nel ruolo di Sir Henry Norris. Ludwig Hartau nel ruolo del Duca di Norfolk. Aud Egede-Nissen nel ruolo di Jane Seymour. Hedwig Pauly-Winterstein nel ruolo della regina Catherine. Hilde Müller [de] nel ruolo della principessa Marie. Maria Reisenhofer nel ruolo di Lady Rochford. Ferdinand von Alten nel ruolo di Marc Smeton. Adolf Klein nel ruolo del cardinale Wolsey. Paul Biensfeldt come Jester. Wilhelm Diegelmann nel ruolo del Cardinale Campeggio. Friedrich Kühne come Arcivescovo Cranmer. Karl Platen come medico. Erling Hanson [de; no; sv] come il conte Percy. Sophie Pagay come infermiera. Joseph Klein nel ruolo di Sir William Kingston.

Per sposare la timida damigella di corte Anna Bolena, Enrico VIII divorzia dalla moglie Caterina d'Aragona, autoproclamandosi capo della Chiesa inglese. Ma quando Anna non gli dà il sospirato erede maschio, lascia che essa sia decapitata per un inesistente adulterio e si sposa con Jane Seymour.

“«La dolorosa storia di Anne Boleyn (1507-36) che, dopo esserne stata in segreto l'amante, divenne la seconda moglie del re Enrico VIII che, nel frattempo, aveva divorziato da Caterina d'Aragona. Data alla luce nel 1533 Elisabetta (e un maschio, nato morto, nel 1536), fu accusata di adulterio, rinchiusa nella Torre di Londra e decapitata. ... Nella mise en scène dei grandiosi quadri in costume (l'incoronazione, la festa, il torneo ecc.) il regista guarda alla lezione teatrale del grande Max Reinhardt più che a quella dei colossi storici italiani (e di Griffith) del decennio precedente. Ricostruito e restaurato con imbibizioni e viraggi nel 1998 a cura del laboratorio bolognese L'Immagine Ritrovata».”

(In www.cinemedioevo.net)

“Intorno al 1920 Ernst Lubitsch raggiunse il primo apice della sua carriera. Si misurò con diversi generi facendo di ogni film un risultato unico e un gran successo. Girò una serie di deliziose commedie e grandi drammi in costume. Nessun regista tedesco poteva reggere il confronto con lui. Come molti drammi in costume, Anna Boleyn fu realizzato con grande profusione di mezzi, come sottolineava la pubblicità del film. Secondo la rivista “Lichtbild-Buhne”, per la scena del torneo furono usati cinquecento cavalli e quattromila comparse; per il set dell’Abbazia di Westminster furono modellate trecentottanta sculture e uno stuolo di sarte lavoro ai costumi. Il recensore di “Das Tage-Buch” fu cosi colpito da queste immense risorse che scrisse: “Con Reinhardt e con Lubitsch ho sempre l’impressione che nel teatro e nel cinema stiamo ora raccogliendo i frutti del passato militarismo. Scene di massa come queste riescono così bene solo grazie a un popolo abituato alle esercitazioni”. Oltre a esporre questa astrusa ipotesi, il critico osservava anche che il talento di Lubitsch stava non solo nella capacità di comandare masse di comparse come un generale, ma anche nella direzione degli attori nelle scene individuali. La recitazione in queste scene è infatti immancabilmente brillante. Il film, che a quanto pare era il lungometraggio più costoso mai realizzato in Germania, riunisce un cast di vaglia. Innanzitutto, ovviamente, Henny Porten nel ruolo di Anna Bolena, una donna che tenta di affermarsi in un mondo di maschi dominato dai giochi di potere e dall’egoismo, e dunque condannata a soccombere all’orgoglio ferito e al narcisismo degli uomini. La trama, inizialmente allegra, s’incupisce man mano che l’azione precipita inesorabile con un’intensità che appare ancora oggi scioccante. Malgrado siano chiaramente funzionali all’intreccio drammatico, i personaggi sono caratterizzati con un’umanità e una complessità che possono essere conseguite solo da attori d’eccezione guidati da un regista straordinario come Lubitsch. Per esempio, quando Enrico VIII (Emil Jannings), uomo di cieca violenza, versa lacrime di dolore e lutto perché non gli viene dato un erede maschio, si percepisce come Lubitsch riesca a ritrarre l’umanità in tutte le sue tragiche forme.”

(Karl Wratschko in festival.ilcinemaritrovato.it)

“Anna Bolena è una donna che bene o male è entrata nell’immaginario di tutti, sia per essere, in parte, responsabile dello scisma anglicano sia per la sua tragica fine. Nel 1920 Ernst Lubitsch decide di dedicarsi a un dramma in costume a lei dedicato lasciando da parte le commedie che lo avevano reso celebre. Inutile dire che dei momenti comici sono comunque presenti nel film, in particolare legati alla figura di Enrico VIII, interpretato da uno splendido Emil Jannings. Il suo personaggio è, infatti, molto caricaturale e, in alcuni frangenti, riesce a strappare qualche risata. In questa versione romanzata, troviamo una Anna Bolena (Henny Porten) che lotta tra il desiderio di ottenere la corona inglese e il suo amore per Sir Norris. La storia la conosciamo, Anna sceglierà il regno ma alla fine, non avendo dato i natali a un figlio maschio, perderà i favori del Re e, infine, anche la testa.
Personalmente ho trovato impossibile empatizzare con questa Anna Bolena perché rappresenta un ideale di donna retrogrado e maschilista. Anna è una marionetta nelle mani degli uomini (in particolare dello zio e del Re), non riesce ad imporre la propria volontà e gioisce solo quando realizza di essere la Regina d’Inghilterra. Tra le sue virtù si tende sempre ad enfatizzare la castità, la fedeltà al marito e l’attenzione per la figlia. Infine, seppur non esplicitato, c’è sempre quell’elemento indigesto dell’amore scoppiato dopo aver consumato il primo rapporto anche se avuto con un partner non voluto. A questo si aggiunge l’interpretazione molto classica e impostata della Porten che mette in scena un personaggio che estremizza ogni emozione con la propria mimica e gestualità.

Non mancano però degli aspetti positivi, primo tra tutti quello della gestione delle scene di massa che includevano più di 4000 comparse. Le più impressionanti sono quelle in cui il popolo assiste alla cerimonia di nozze tra Anna ed Enrico VIII con relative sommosse sedate dall’esercito schierato. Scene così maestose e ben realizzate sono rare nella storia del cinema, specie se realizzate utilizzando una telecamera fissa. Le scenografie, così come i costumi, sono curate nel dettaglio e rispecchiano perfettamente quello che ci aspetteremmo da una corte del 1500.
Insomma, tra alti e bassi quantomeno Anna Boleyn di Lubitsch ha il merito di non lasciare indifferenti.”

(Yann Esvan in www.cinefiliaritrovata.it)

  • Il film: Anna Boleyn, 1920, German, silent film, Ernst Lubitsch (1892-1947)

 

Un’attrice e produttrice cinematografica tedesca: Henny Porten

Henny Porten, nome d'arte di Henny Frieda Ulricke Porten, (Magdeburgo, 7 gennaio 1890 - Berlino Ovest, 15 ottobre 1960), è stata un'attrice e produttrice cinematografica tedesca dell'epoca del muto. Figlia del regista Franz Porten e sorella di Rosa Porten, partecipò ad oltre 170 film tra il 1906 e il 1955, tra i quali si ricorda La contessa Donelli, diretto nel 1924 da Georg Wilhelm Pabst. Il 10 ottobre 1912 sposò il regista Curt A. Stark. Il matrimonio durò fino alla morte di Stark che morì in battaglia il 2 ottobre 1916 in Romania, durante la prima guerra mondiale. Nel 1921 si sposò con Wilhelm von Kaufmann di origine ebrea. Il regime le impose di divorziare ma lei si oppose e questo le costò la carriera, all'improvviso non poté più lavorare e non ottenne nemmeno il visto per lasciare la Germania. Durante la guerra venne chiamata per interpretare un paio di pellicole dato che la sua immagine calma e rassicurante confortava la popolazione impaurita dai bombardamenti alleati. Durante uno di questi bombardamenti la sua casa venne distrutta e fu costretta a vivere per la strada con il marito dato che era proibito dare protezione e assistenza agli ebrei.
L'attrice morì a Berlino il 15 ottobre 1960 all'età di settant'anni.”

(In httwikipedia.org)

 

Una poesia al giorno

Il carro di vetro, di Giorgio Caproni

Il sole della mattina,
in me, che acuta spina.
Al carro tutto di vetro
perché anch'io andavo dietro?

Portavano via Annina
(nel sole) quella mattina.
Erano quattro cavalli
(neri) senza sonagli.

Annina con me a Palermo
di notte era morta, e d'inverno.
Fuori c'era il temporale.
Poi cominciò ad albeggiare.

Dalla caserma vicina
allora, anche quella mattina,
perché si mise a suonare
la sveglia militare?

Era la prima mattina
del suo non potersi destare.

 

CAPRONI, Giorgio Nacque a Livorno il 7 gennaio 1912, secondogenito di Attilio, ragioniere, e di Anna Picchi, sarta e ricamatrice. La città portuale toscana si iscrisse nel mondo dei suoi ricordi più antichi, nella mitica luce delle origini e degli affetti primigeni, trasfigurati, attorno alle figure dei genitori, in un coefficiente poetico sentimentale e metricamente impeccabile. Esemplari di questa idealizzazione furono i Versi livornesi, concepiti dopo la morte della madre e pubblicati nel suo libro più fine e popolare, Il seme del piangere (Milano 1959).

LE FIGURE DEI GENITORI
Anna Picchi era nata a Livorno nel 1894, da Gaetano e da Fosca Bottini. Impiegata sin da ragazza nel magazzino Cigni, rinomata casa di moda livornese, dopo il matrimonio continuò a lavorare come sarta in laboratori che attrezzava in casa. Amava suonare la chitarra, frequentare i circoli cittadini e ballare. Morì a Palermo il 15 febbraio 1950 e fu sepolta nel cimitero di S. Orsola presso il fiume Oreto.
Meno fertili poeticamente ma non meno intensi furono i rapporti di Caproni con il padre che la domenica lo guidava, mano nella mano, in compagnia del fratello Pier Francesco, di lui maggiore di due anni, in lunghe passeggiate presso le livornesi piane degli Archi a spiare il ritorno dei cacciatori di lepri. Oppure, durante le vacanze estive, organizzava le gite a San Biagio, nelle campagne dell’Alta Maremma, nella tenuta di Cecco, un allevatore e domatore di cavalli che segnò in modo indelebile la sua personalità. «Lontano dalla mal’aria,/ domerò la mia vita/ come domavi le tue cavalle/ ombrose,/ tutte slanci ed inutili corse» (A Cecco, in L'Opera in versi, 1998, p. 9).
Attilio lavorava in una ditta di importazione del caffè e si occupava dell’amministrazione del teatro Avvalorati di Livorno. Dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale, rimasto disoccupato per il fallimento della ditta livornese dei Colombo, fu assunto dall’azienda conserviera Eugenio Cardini situata a Genova nel palazzo Doria. Suonava il violino e il mandolino e amava leggere la poesia italiana delle origini e la Commedia, che acquistava in edicola nell’edizione in dispense pubblicata dalla casa editrice Nardini di Firenze con le illustrazioni di Gustave Doré. Morì a Bari il 21 febbraio 1956.

L'infanzia di Caproni fu condizionata dalle difficili condizioni economiche in cui la famiglia precipitò dopo il richiamo in guerra del padre e i tumulti sociali e politici che prepararono l’avvento del fascismo. Da un’elegante palazzina di corso Amedeo (ove Giorgio era nato), presto dovettero trasferirsi nella popolare via Palestro in un appartamento dove conobbero i disagi della coabitazione forzata con una coppia di lontani parenti, Itala e Pilade Bagni. Nel 1922, dopo la nascita della terzogenita Marcella e una breve sosta a La Spezia, si trasferirono a Genova dove continuò la ridda dei traslochi: da Via S. Martino a Via Michele Novaro, da Via Bernardo Strozzi a Piazza Leopardi. Se Livorno era stata la simbolica città della madre, Genova rappresentò per Caproni il luogo della formazione umana e culturale: «Genova sono io. Sono io che sono 'fatto' di Genova» («Era così bello parlare»…, 2004, p. 107). Ma segnò anche l'inevitabile epilogo della infanzia: «Genova della Spezia./ Infanzia che si screzia./ Genova di Livorno,/ partenza senza ritorno» (Litania, in L'Opera in versi, 1998, p. 178).

SCUOLA, MUSICA E POESIA
Iniziati gli studi elementari presso le suore dell’Istituto del Sacro Cuore, li proseguì nella scuola comunale del Gigante, «un quartieraccio» di Livorno («Era così bello parlare»…, 2004, p. 81) e li completò a Genova, nella scuola Pier Maria Canevari. Si iscrisse quindi alla scuola tecnica Antoniotto Usodimare, contemporaneamente dedicandosi, incoraggiato dal padre, allo studio del violino. A 13 anni si diplomò in composizione all’istituto musicale Giuseppe Verdi, in salita S. Caterina. Di giorno si esercitava su corali a quattro voci prima pescando le parole da Poliziano, Tasso, Rinuccini, poi provvedendovi di testa sua. Di notte suonava il violino nell’orchestrina di un dopolavoro. A 18 anni, dovendo contribuire al magro bilancio famigliare, accettò l’incarico di fattorino presso lo studio legale dell'avvocato Colli in Via XX settembre. Alla fine, con una sofferta decisione, rinunciò agli studi musicali.
La musica tuttavia restò in lui viva per sempre, quasi come una controprova all'armonia intrinseca alla poesia. Il classicismo dissonante di Stravinskij fu riversato nel pathos esclamativo dei sonetti sperimentati negli anni Quaranta e la sua passione per il melodramma romantico influenzò la struttura delle ultime raccolte. Il franco cacciatore (Milano 1982) prese il titolo dall’omonima opera di Carl Maria von Weber, mentre Il conte di Kevenhüller (ibid. 1986), titolo scelto «per il suo sapore operettistico» fu diviso in tre sezioni: Il Libretto, La Musica e Altre cadenze (v. Apparato critico, in L'Opera in versi, 1998, pp. 1627 s.). Nei lavori preparatori della raccolta postuma Res amissa (Milano 1991) alcune poesie furono scandite in sillabe e trascritte direttamente sui righi di uno spartito musicale.

Sempre di più la poesia occupava i suoi giorni e la sua mente. Già con i compagni di studio del violino e in particolare con l’amico Adelio Ciucci, «in quella brulla Piazza Martinez» dove si recava ogni giorno dalla sua casa di S. Martino, aveva scoperto in «disordinate e infatuate letture» la poesia moderna, contrapposta, «con una boria scusata soltanto dall’età», alla poesia insegnata a scuola (Un ricordo un debito, in La Fiera letteraria, 28 giugno 1959). Nel 1932 inviò i suoi primi versi ad Adriano Grande, direttore della rivista genovese Circoli, che li rifiutò. Pochi mesi dopo, portando dentro di sé «una specie di minima antologia del cuore» composta da Ungaretti, Montale, Saba, Sbarbaro, se ne andò «a far da cappellone» nel 42° reggimento fanteria di stanza a Sanremo, dove rimase dal settembre 1933 all’agosto 1934 (Attorno al 1930, in Il Caffè politico e letterario, IV [1956], febbraio, pp. 13 s.). Maturò nelle lunghe ore di guardia molti fra i nostalgici idilli dai contorni stilnovistici che sarebbero confluiti nella sua prima plaquette: Come un’allegoria (Genova 1936). Avendo perso tempo con il servizio militare, si preparò agli esami delle magistrali privatamente, supportato da un professore di larghe vedute, l’antifascista Alfredo Poggi che lo introdusse alla riflessione filosofica. Per conto suo lesse Agostino, Kierkegaard e scoprì lo scetticismo leopardiano di Giuseppe Rensi. Approfondì Dante e i classici italiani, appassionandosi soprattutto agli autori latini, non solo Catullo, Virgilio, Lucrezio, ma anche Cesare e Minucio Felice. Si diplomò nel 1935, al cospetto di una commissione presieduta da Ugo Spirito.

MAESTRO ELEMENTARE E POETA
S’iscrisse quindi all’istituto superiore di magistero di Torino ma a soli 23 anni prese servizio come maestro elementare a Rovegno, «un adorabile paesino montano» dell’Alta Val Trebbia, situato al 54° chilometro della statale numero 45 tra Genova e Piacenza (Due inediti di Giovanni Boine, in La Fiera letteraria, 6 settembre 1959). Cominciava una faticosa carriera che si protrasse dal dicembre 1935 al dicembre 1973: una scelta professionale quasi obbligata e tuttavia mai rinnegata, anzi stoicamente difesa dalle accuse che scaturivano dall’«ignoranza» presuntuosa dei tecnici ministeriali (I due analfabetismi, in Il Caffè…, III [1955], luglio-agosto, pp. 14 s.).

La frazione Loco di Rovegno divenne la sua 'piccola patria', snodo e paesaggio chiave di un destino. Nel marzo 1936 la sua fidanzata Olga Franzoni, una ragazza genovese che lo aveva seguito nonostante la salute precaria, morì di setticemia poco prima delle nozze. Travolto dallo choc, sprofondò in una grave crisi psicologica. Al poeta Carlo Betocchi, primo recensore di Come un’allegoria, con il quale intrecciò dal 1936 al 1986 uno splendido diario epistolare, il 7 aprile 1937 confessò la tentazione di farla finita con la poesia: «Forse tutto il mio mondo era legato a quella che se n’è andata. Forse su lei poggiava tutta la mia certezza» (Una poesia indimenticabile..., 2007, p. 64). Fu quello il primo dei suoi innumerevoli congedi.

Nell’anno scolastico 1936-37 insegnò ad Arenzano, cittadina della Riviera di Ponente e a Casorate Primo, in provincia di Pavia. Superò la crisi del 1937 grazie a una ragazza di Loco, Rosa Rettagliata che sposò nella chiesina del suo villaggio nell’agosto 1938, dopo aver pubblicato la sua seconda plaquette, Ballo a Fontanigorda (Genova 1938). Da allora trascorse tutte le sue estati in Val Trebbia nella casa della moglie.
Olga Franzoni e Rosa, indicata anche con il nome di Rina, inizialmente si sovrapposero nell’immaginario caproniano, per divergere poi radicalmente fino a incarnare i due opposti poli di un'antitesi. Il fantasma della fidanzata defunta lo perseguitò con l’effigie di una stagione sensuale e illusoria rappresentata nella gesticolazione sonora dei Sonetti dell’anniversario confluiti in Cronistoria (Firenze 1943). Nel poemetto Le biciclette, pubblicato dapprima nelle Stanze della funicolare (Roma 1952) e poi nella raccolta complessiva Il passaggio d’Enea (Firenze 1956), il suo ricordo, velato dal travestimento ariostesco di Alcina, divenne la perturbante icona del «tempo ormai diviso» dalla guerra (Le biciclette, in L'Opera in versi, 1998, p. 128). All’inverso Rina «dalle iridi grandi e azzurre e così delicatamente silenziose» (Alta Val Trebbia, in Augustea, 31 agosto 1939) incarnava le gioie e le angustie dell’amore coniugale sia in pace sia in guerra e fu spesso celebrata come il tenace strumento della vita che continua. «Se il mondo prende colore/ e vita, lo devo a te, amore» (A Rina, II, in L'Opera in versi, 1998, p. 911).

LA GUERRA
Si trasferì a Roma il 1° novembre 1938. Ottenuto un posto di maestro di prima categoria, prese servizio nella scuola Giovanni Pascoli a Trastevere. Ma il suo primo soggiorno romano durò poco: con l’entrata in guerra dell’Italia, nella primavera del 1939 venne richiamato alle armi e rispedito a Genova, presso il distretto di Sturla. Nel giugno 1940 fu inviato tra i monti dell’estrema frontiera occidentale a combattere la fulminea campagna di Francia, raccontata nel diario di guerra Giorni aperti. Itinerario di un reggimento dal fronte occidentale ai confini orientali (Roma 1942). Quella esperienza che molti anni dopo avrebbe stigmatizzato come «un capolavoro di insensatezza» (C. D’Amicis, Caproni, in l’Unità, 21 agosto 1995), pur non annullando del tutto gli accenni celebrativi al vigente regime presenti in alcuni articoli pubblicati nella rivista Augustea tra il 1938 e il 1940, vi aveva però spalancato profonde crepe. Da Mentone fu dislocato ai confini orientali, a Vittorio Veneto, e tra il 1940 e il 1942 cominciò un periodo di continui spostamenti, tra Genova, la Val Trebbia, Roma e varie altre località dell’Italia centro-settentrionale, come Udine, Pisa, Assisi, Foligno, Tarquinia e Subiaco.
A Roma tornava ancora volentieri. La capitale infatti lo attirava, anzi lo «abbagliava» (Cronologia, in L'Opera in versi, 1998, p. LV) con le vestigia e le rovine di un glorioso passato, dietro cui però scorgeva un retroscena luttuoso e magniloquente in cui il giovane provinciale si aggirava smarrito. Sin dal primo momento risolutore fu l’incontro con Libero Bigiaretti, narratore e intraprendente giornalista il quale gli aprì le porte dell’ambiente letterario e artistico legato all’editore romano Luigi De Luca, che gli pubblicò Finzioni (Roma 1941): raccolta lapidariamente definita dal ventinovenne poeta «l’epitaffio della mia gioventù» (Una poesia indimenticabile..., 2007, p. 65). Tramite Piero Bargellini entrò in contatto con Enrico Vallecchi, il prestigioso editore degli ermetici fiorentini che, dopo qualche esitazione, accettò di pubblicare Cronistoria, in cui, a una scelta delle poesie giovanili, si aggiungeva un sostanzioso nucleo di composizioni scritte nel 1942 durante i suoi coatti vagabondaggi.

L’armistizio dell’8 settembre 1943 lo sorprese a Loco, in congedo provvisorio presso la famiglia dei genitori della moglie, accanto a Rina e ai due figli ancora piccoli: Silvana nata nel maggio 1939 e Attilio Mauro nel giugno 1941. Ripugnandogli l'idea di unirsi alle brigate della Repubblica di Salò, entrò nella resistenza partigiana attiva in Val Trebbia, pur svolgendo, in qualità di commissario del Comune di Rovegno, compiti quasi esclusivamente civili, come l’approvvigionamento del cibo e la riorganizzazione della scuola. Le scene di orrore di quei tragici 19 mesi, le violenze praticate dai mongoli alleati dei tedeschi sulla popolazione inerme, gli dettarono, accanto agli struggenti racconti della sua saga partigiana, tra i quali lo splendido Il labirinto (L'Opera in versi, 2008, pp. 138-164), i suoi versi più cupi e chiusi: I lamenti composti tra il 1944 e il 1947, raccolti nella sezione Gli anni tedeschi de Il passaggio d’Enea. Da allora in poi i monti della Val Trebbia gli offrirono il paesaggio più idoneo alla rappresentazione della guerra via via sempre più allegorica, dopo la svolta metafisica della sua poetica evidente in Acciaio, sezione centrale de Il muro della terra (Milano 1975).

ROMA: ANGOSCE E AMICIZIE
Nell’ottobre 1945 tornò a Roma, dove fino al 1949 trascorse «interminabili inverni di angoscia», abitando da solo prima a Via Merulana, poi al quartiere Prati, poi ancora presso il cavaliere Domenico Gazzillo che gli affittava una camera della sua casa al n. 40 di Via Goffredo Mameli, in Trastevere, ov'era situata anche la scuola presso cui aveva ripreso l'insegnamento (Frammenti di un diario (1948-1949), 1995, p. 44). Infine si trasferì a Monteverde, in Viale Quattro Venti 31, in una piccola casa Incis, senza caloriferi e proprio «dirimpetto al lussuoso appartamento» di Via Giacinto Carini dove, abbandonando Parma, era andato ad abitare Attilio Bertolucci (Una poesia indimenticabile..., 2007, p. 364).
Nel 1951 passò alla scuola Francesco Crispi per rimanervi sino al pensionamento. Non bastandogli il risicato stipendio di maestro correggeva le bozze nella «benedetta e dannata tipografia Tumminelli» (ibid., p. 74). Nella Roma del dopoguerra riprese i rapporti con Bigiaretti, divenuto direttore dell’ufficio stampa dell’Olivetti di Ivrea: a lui dedicò Le biciclette, scritto nel 1947 per le Olimpiadi della poesia di Londra, in cui si premiavano testi letterari ispirati allo sport. Rivide Giorgio Bassani, in cui si era imbattuto durante il servizio militare a Sanremo. Nel 1949 pubblicò su Botteghe oscure, La funivia, primo abbozzo, subito tradotto in inglese da William Weaver, del poemetto Stanze della funicolare, nucleo fondante del libro stampato con lo stesso titolo da De Luca nel 1951.

Grazie al critico fiorentino Ferruccio Ulivi nel 1950, pochi giorni dopo la morte della madre, conobbe di persona Betocchi, che a Roma alloggiava in Via Soana vicino a Piazza Tuscolo e la domenica riceveva volentieri gli amici. Caproni vi si recava spesso, da solo o insieme a Pasolini e Bertolucci. Betocchi si dimostrò un amico attento e generoso e più volte lo invitò alla rassegna radiofonica L’Approdo, commissionandogli tra l’altro i copioni, oggi perduti, di due puntate sulla Riviera ligure, la famosa rivista fondata e diretta da Mario e Angelo Silvio Novaro. Andate in onda il 29 novembre e il 20 dicembre 1954 furono poi sviluppate in una serie di articoli sulla cosiddetta linea ligustica nella poesia novecentesca italiana apparsi sulla Fiera letteraria nel 1956 e sul Corriere mercantile nel 1959.

Con il tempo aveva imbastito nuove amicizie: Giacomo Debenedetti lo pregò di aiutare il figlio Antonio per l’esame di ammissione alle scuole medie nell'anno scolastico 1946-47, e Pier Paolo Pasolini, fortunosamente sbarcato a Roma con la madre Susanna nel 1950, per qualche anno gli fece visita quasi ogni giorno instaurando uno scambio critico vicendevolmente proficuo. Determinante fu anche l’incontro con Bertolucci che - dal Seme del piangere in poi - avrebbe patrocinato il suo approdo alla Garzanti, per di più cercando di fargli ottenere dal ministero della Pubblica Istruzione un periodo di congedo dall’insegnamento. Il tentativo fallì a causa del suo carattere fiero e indipendente. Per lo stesso motivo non accettò mai un impiego stabile alla Rai, mentre dal 1966 al 1972, come consulente editoriale della Rizzoli, esaminò i manoscritti di testi narrativi inediti, italiani e francesi. Dal 1958, anno in cui Betocchi assunse l’incarico di redattore della trasmissione ribattezzata L’Approdo letterario, si moltiplicarono le letture radiofoniche delle sue poesie che trovavano spazio sulle pagine dell’omonima rivista durata fino al 1977.

Nell’estate del 1959 a Spotorno fu presentato dal poeta ligure Angelo Barile all’amatissimo Camillo Sbarbaro con cui mantenne sporadici, ma saldissimi rapporti. Sempre di più al lavoro poetico affiancò il mestiere del traduttore e del giornalista letterario. La politica attiva, nel senso militante del termine, non lo interessò mai fino in fondo. Vicino al Partito socialista italiano (PSI) nel 1945, non negò la sua firma ad alcuni dei più significativi giornali della sinistra, tra i quali Avanti!, l’Unità, Italia socialista, Il Politecnico, Il Lavoro nuovo, Vie nuove e Mondo operaio di cui diresse la pagina letteraria. Nel 1948 si unì al I Congresso internazionale degli intellettuali per la pace tenuto a Breslavia in Polonia. In quell’occasione fece visita ad Auschwitz e ne rimase fortemente scosso. Ma negli anni Sessanta, al culmine della ripresa economica della nuova Italia consumistica, non tardò a esprimere la sua delusione e a deplorare le inadempienze dei politici nei confronti delle speranze del dopoguerra. Esemplare l’invettiva intitolata Lorsignori, una feroce requisitoria consegnata insieme al poemetto Lamento (o boria) del preticello deriso a Cesare Vivaldi per un’antologia di versi satirici («Han la testa sul collo,/ dicon loro. Di pollo./ I piedi sulla terra./ lavoran per la pace/ preparando la guerra» (Vivaldi, 1964, p. 127).

IL TRADUTTORE E IL PUBBLICISTA
Il suo curriculum di traduttore vantò imprese di straordinaria importanza: il Tempo ritrovato di Marcel Proust, su incarico di Natalia Ginzburg (Torino 1951), Poesie e prosa di René Char (Milano 1962) poeta aristocratico e concettuale, di rocambolesca difficoltà, che Caproni sarebbe andato a visitare nel suo rifugio all’Isle-sur-la-Sorgue soltanto nel 1986. Altri titoli memorabili furono La mano mozza di Blaise Cendrars (Milano 1967), Il silenzio di Genova e altre poesie di André Frénaud (Torino 1967) che lo aveva aiutato nell’ardimentosa traduzione di Morte a credito di Louis-Ferdinand Céline (Milano 1964). A quattro mani con Rodolfo Wilcock voltò in italiano Tutto il teatro di Jean Genet (Milano 1971) e nello stesso anno Rizzoli pubblicò le sue traduzioni dalla raccolta Non c’è paradiso di Frénaud che gli valsero nel 1973 il Premio Città di Monselice. Varie altre versioni da poeti francesi e spagnoli del Novecento sono state poi raccolte in un Quaderno di traduzioni postumo (1998). Con un caloroso elogio Mario Luzi lodò il suo proverbiale métier in grado di svelargli, magari proprio attraverso il confronto con poeti da lui diversissimi, le sue più segrete qualità: «Lo sviluppo della poesia di Caproni offre anzi un esempio raro nel panorama del tempo di maturazione sostanziale che si attua dentro un progressivo amoroso affinamento del mestiere; e dico del concreto mestiere di armeggiare con le parole e con i metri che è qualcosa di diverso dal puntualizzare la propria tecnica, lavoro che compete a ogni scrittore serio» (Ama davvero il mestiere, in La Fiera letteraria, 2 novembre 1967).

Frenetica, ma dall’autore ritenuta di minore importanza, fu anche l’opera del pubblicista che annoverava recensioni, elzeviri, interventi di poetica, riflessioni sul costume della nuova società nata con la Repubblica. Il rapporto più longevo fu con La Fiera letteraria. La collaborazione iniziò nell’ottobre 1946, s’intensificò nel 1957 in una specifica rubrica di poesia a lui intestata e nel 1958 continuò con «Il taccuino dello svagato», che ospitava una prosa in qualche modo inattuale sospesa tra elzeviro e memorialistica. Il contatto con la Fiera s’interruppe nel 1961 in segno di protesta contro la pubblicazione di un saggio di Vintilă Horia, scrittore franco-rumeno di tendenze antisemite e filonaziste. Nel 1962, su proposta di Romano Bilenchi, sostituì il critico letterario Giuseppe De Robertis nel giornale fiorentino La Nazione. L’ultimo articolo uscì il 24 aprile 1970.

Critico verso l’ideologia dell’impegno assunta dalla rivista Nuovi Argomenti fondata a Roma nel 1953 da Alberto Moravia e Alberto Carocci, manifestò dubbi anche nei confronti dell’eccessivo filoermetismo manifestato dal mensile di letteratura e d’arte diretto da Enrico Vallecchi, La Chimera, dove in ogni caso pubblicò Sono i poeti i misconosciuti legislatori del mondo, ispirato al famoso saggio di Percy Bysshe Shelley, Difesa della poesia. Pur esprimendo perplessità sulle potenzialità conoscitive del linguaggio, caldeggiava lo «scopo pratico» dei versi dei veri poeti «i quali devono essere anch’essi dei veri utensili per essere veramente utili e perciò per essere autentica poesia» (Versi come utensili, in Mondo operaio, 25 dicembre 1948). Nel 1957 si schierò in difesa della semplicità della poesia contro l’eccessiva intellettualizzazione auspicata dalla rivista Il Verri, fondata da Luciano Anceschi nel 1956.

IL «GRANDE CAPRONI»
Erano i tempi in cui le Stanze della funicolare resuscitavano il mito sbarbariano di una Genova sognata che il confronto con Roma, città ormai quasi aborrita, arricchiva di nostalgici sensi riposti. O in cui Il passaggio d'Enea riproponeva lo struggente mito dell’Enea genovese, inteso non come «la solita figura virgiliana, ma proprio la condizione dell’uomo contemporaneo della mia generazione» uscito dalla guerra da solo e con un imponente carico di responsabilità (Caproni, 1998, p. 1262). Mentre nel Seme del piangere, «in fondo, un libro-ricordo» («Era così bello parlare» 2004, p. 65) la leggenda di Annina, ricreata sfogliando vecchie foto di famiglia, aveva riportato in vita Livorno restituita a un suo mitico e indelebile spazio ideale per i morti più che per i vivi.

Il 26 gennaio 1960 esponeva a Betocchi il desiderio di «una fede più solida, non poetica né intermittente» (Una poesia indimenticabile..., 2007, p. 205). Erano i primi sintomi della crisi religiosa che si sarebbe manifestata nel tema della discesa al Limbo e dell’incontro con i morti affrontato con lucido disincanto nei poemetti del Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (Milano 1965) dedicato all’attore Achille Millo che ne fu per anni elegante e discreto lettore.
Nello stesso anno fu operato allo stomaco per un’ulcera gastrica. Nel 1968 prese in affitto un appartamento a Via Pio Foà 49 dove visse fino agli ultimi suoi giorni. Nonostante il successo lo assillavano la solitudine e una tormentosa e paradossale patoteologia. Nel 1978 in una «Genova sepolta dalla neve» moriva il fratello Pier Francesco (Una poesia indimenticabile..., 2007, p. 319) e nel 1987 la sorella Marcella. Si moltiplicarono gli inviti e i viaggi all’estero. Nel giugno 1978, con la figlia Silvana, visitò per la prima volta Parigi, per una lettura di versi tenuta al Beaubourg, con Mario Luzi, Vittorio Sereni e Delfina Provenzali. Ne nacque la plaquette Erba francese (Luxembourg 1979). Tornò poi in Francia nel 1985 per conferenze e letture a Parigi, Grenoble, Avignone, Arles, Lione. Nel settembre 1978 fu invitato dall’Istituto italiano di cultura alla Columbia University di New York e alle Università di Berkeley e di Stanford in California a San Francisco. Nel maggio 1985 si recò a Vienna e nel 1986, sempre con Silvana, fu in Germania, a Münster e a Colonia, dove concepì lo spunto per la poesia Res amissa che avrebbe dovuto dare il titolo alla raccolta rimasta incompiuta e pubblicata postuma da Giorgio Agamben (Milano 1991). La sua opera cominciò a essere sistematicamente tradotta in francese da Philippe Renard e Bernard Simeone.

Numerosi i premi e i prestigiosi riconoscimenti. Con Stanze della funicolare vinse il premio Viareggio. Assieme a Montale, vincitore con La bufera e altro del premio principale e più cospicuo, Il passaggio d’Enea si aggiudicò il premio selezione Marzotto. Con Il seme del piangere (Milano 1959) tornò a vincere per la seconda volta il Viareggio e con il Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (ibid. 1965) il premio Chianciano. Nel 1982, in occasione dei suoi settant’anni, gli venne attribuito il premio Librex Eugenio Montale per la poesia e il premio Antonio Feltrinelli dell’Accademia nazionale dei Lincei. Il Conte di Kevenhüller è stato insignito con i premi Chianciano, Marradi Campana e Pasolini. Il 1° dicembre 1984 ricevette da Carlo Bo, rettore dell’Università di Urbino, la laurea honoris causa in lettere e filosofia, mentre nel 1985 gli venne conferita la cittadinanza onoraria di Genova.

Con la svolta de Il muro della terra che inaugurò la trilogia del «Grande Caproni» non modificò tanto le forme o i contenuti, ma ampliò la propria sfera di influenza nella poesia contemporanea. In seguito all'edizione economica complessiva di tutte le sue poesie dal 1932 al 1986 (Milano 1989) molti lo avvicinarono ai grandi maestri della poesia del Novecento, da Paul Celan a Samuel Beckett.

Morì a Roma il 22 gennaio 1990 nella sua casa di Via Pio Foà e fu sepolto nel cimitero di Loco, dove riposa accanto alla moglie Rina, morta nel 1993.”

(Biancamaria Frabotta - Dizionario Biografico degli Italiani, 2012. In: www.treccani.it)

 

Amedeo, Dedo per gli amici, è un bambino dolce e sensibile. Ama alla follia l'arte e la letteratura e soprattutto i versi del poeta Giorgio Caproni che ascolta quotidianamente grazie ad un vecchio walk-man; è questo l'unico modo per estraniarsi dalla realtà circostante e dal rude ignorante padre che considera la cultura roba da femminucce. Un giorno scopre nella cantina di un amichetto un antico baule, in cui è custodito un vecchio cappotto di lana appartenuto proprio a Giorgio Caproni; lo prende e dalla felicità decide di non toglierselo mai di dosso, suscitando nel padre rabbia e rimproveri.

Cast: Lorenzo Aloi - Dedo. Marco Conte - Sandro. Laura Palamidessi - Nara. Gabriele Di Palma - Piero. Sergio Giovannini - Giorgio Caproni.
Regia: Luca Dal Canto. Soggetto e sceneggiatura: Anita Galvano, Luca Dal Canto.

Il 7 gennaio 1912 nasce Giorgio Caproni, poeta, critico letterario e traduttore italiano (morto nel 1990)

 

Un fatto al giorno

7 gennaio 1313: Cangrande I della Scala, sconfigge i padovani a Camisano Vicentino e distrugge il castello.

“Il primo documento che nomina Camisano risale al 1050. Si tratta della donazione di una masseria situata infra Comitato Vicentino et infra villa loco qui dicitur Kamesiano. Il donatore era un certo Enrico, probabilmente discendente da una famiglia di origine longobarda o franca che teneva la curtis di Camisano. Quando poi si estinse questa famiglia, un certo Noticherio - a quel tempo suo feudatario - entrò in possesso di una parte dei beni che nel 1241 da un suo discendente, Folco da Camisano, furono donati al vescovo di Vicenza.
Da un inventario dei beni della città redatto nel 1262, si ricava che a Camisano, insieme con altre proprietà, la città di Vicenza possedeva, tra l'altro, un castello con annessa una torre e un terreno presso il fiume Poina. Il documento descrive con precisione il castello medioevale con la fortezza residenza del feudatario ed il burgus domorum, ossia il nucleo di abitazioni popolari addossate al castello. Probabilmente fu proprio il castello - forse perché offriva maggior sicurezza - a promuovere lo sviluppo di un centro abitato diverso da quello attorno alla pieve di Santa Maria.
Le vicende del castello ebbero un tragico epilogo nel 1313 durante le feroci lotte dei padovani contro Cangrande della Scala, che due anni prima - al servizio dell'imperatore Enrico VII di Lussemburgo - aveva loro strappato Vicenza che da mezzo secolo era sottomessa a Padova in forza del "patto di Custodia". Narra lo storico vicentino Ferreto dei Ferreti, contemporaneo al fatto, che Cangrande aiutato da un contingente di truppa speditogli da Matteo Visconti e da Passerino di Mantova, unitamente ai Vicentini guidati dal conte Guarnerio de Homberg che Enrico VII di Lussemburgo aveva lasciato come prefectus apud Lombardos, occupò il castello di Camisano, locus non parum Vicentinis molestus. "Essendo questo castello - conferma il Pagliarino - custodito da Martino Cane nobile padovano insieme con molti padovani e soldati tedeschi, Cangrande andò là con gran compagnia di soldati... lo prese per forza d'armi e l'abbruciò". Ma la peggior sorte fu riservata ai soldati tedeschi: "Guarnerio de Homberg), Vicario Generale per l'imperatore nella città di Vicenza, fece strascinare un certo forte thedesco il quale era stato preso in Camisano; furono appiccati molti altri tedeschi perché erano andati al soldo de Padovani".
A questo fatto si rifà l'odierna memoria del Palio di Camisano Vicentino.
Il castello distrutto da Cangrande probabilmente si trovava nella località ancor oggi detta Cà Alta, o Castellano, dove tuttavia ormai da tempo è scomparsa ogni traccia. Ai confini del territorio di Camisano ma già in provincia di Padova, invece, esistono ancora notevoli resti della cosiddetta Torre Rossa”.

(In wikipedia.org)

Can Francesco della Scala detto Cangrande I (Verona, 9 marzo 1291 - Treviso, 22 luglio 1329) è stato un condottiero italiano. Figlio di Alberto I della Scala e di Verde di Salizzole, è l'esponente più conosciuto, amato e celebrato della dinastia scaligera. Signore di Verona dal 1308 al 1311 insieme al fratello Alboino e da solo dallo stesso anno fino alla morte, consolidò il potere della sua famiglia ed espanse quello della sua città fino a divenire, grazie ai suoi successi, guida della fazione ghibellina. Cangrande non fu solo un abile conquistatore, ma anche uno scaltro politico, un accorto amministratore e un generoso mecenate, noto infatti anche perché fu amico e protettore del Sommo Poeta Dante Alighieri (che, in una lettera, gli dedicò l'ultima cantica della Divina Commedia). Tra i suoi amici si annovera anche Spinetta Malaspina il Grande di Fosdinovo.

Cangrande, figlio del Signore di Verona Alberto I della Scala e di Verde di Salizzole, nacque a Verona il 9 marzo 1291: si trattava del terzogenito maschio, venuto al mondo dopo Bartolomeo e Alboino della Scala.
Nel poema dello storico vicentino Ferreto dei Ferreti si descrive Cangrande come un giovane prodigioso che, non divertendosi a giocare con gli amici, preferiva utilizzare le armi e sognare imprese cavalleresche. Alberto curò personalmente l'educazione militare (e non) del figlio, che infatti provava grande affetto per il padre da cui ereditò le doti di condottiero e cavaliere: proprio da lui venne insignito del titolo di cavaliere mentre era ancora bambino, insieme al fratello Bartolomeo e ai parenti Nicolò, Federico e Pietro, durante la festa di San Martino nel novembre del 1294, festeggiando in questo modo la vittoria contro Azzo VIII d'Este e Francesco d'Este.
Il padre morì nel 1301, quando Cangrande era poco più che un bambino, per cui venne affidato alla custodia del fratello Bartolomeo, che divenne il nuovo Signore di Verona. Fu sotto il suo principato che per la prima volta Dante Alighieri venne ospitato nella città scaligera, dopo che fu esiliato da Firenze. Bartolomeo, dopo aver consolidato il potere della famiglia, morì prematuramente il 7 marzo 1304: gli succedette il fratello Alboino, più incline alla mediazione e alla pace che alla guerra.

Cangrande, spesso al suo fianco, mostrava, diversamente dal fratello, un temperamento cavalleresco e ambizioso e proprio per questo motivo ottenne di poter condividere il peso del potere, anche se in rapporto di subordinazione rispetto al fratello, vista la sua giovane età (era appena quattordicenne). L'effettiva coreggenza sarebbe iniziata solo nel 1308, quando a Cangrande venne affidato il comando supremo delle forze armate.

Nell'aprile del 1305 Azzo VIII d'Este, Signore di Ferrara, Modena e Reggio nell'Emilia, si sposò con la figlia di Carlo II di Napoli divenendo così un importante esponente della fazione guelfa dell'alta Italia, contrastato però da una lega formatasi il 21 maggio e composta dalle signorie di Verona, Brescia e Mantova. L'8 novembre si aggiunse alla lega Parma, mentre Modena e Reggio Emilia si aggiunsero l'11 febbraio 1306: non solo, anche Francesco d'Este, che dopo il matrimonio del fratello Azzo VIII non poteva più ereditare il potere, si aggiunse all'alleanza. Nel luglio dello stesso anno Alboino conquistò Reggiolo e invase il territorio ferrarese, Azzo fu così costretto ad abbandonare Ferrara dove, però, i suoi seguaci riuscirono a fermare gli assalti nemici.

Visto che non si riuscirono ad ottenere risultati di rilievo l'esercito mantovano-veronese si ritirò dai territori ferraresi per andare in aiuto di Matteo I Visconti che stava cercando di riappropriarsi del potere a Milano dopo essere stato cacciato dai guelfi Torriani. In agosto l'esercito venne affidato a Cangrande che lo portò non lontano da Bergamo, dove il Visconti, radunati 800 cavalieri e 1.500 fanti, si unì alle truppe alleate. Guido della Torre preparò un forte esercito e riuscì a mettere in fuga Matteo Visconti, a quel punto Cangrande non vedeva motivi per continuare l'azione di forza e decise di ritirarsi.

14 marzo Verona (alla cui lega si era nel frattempo unita anche Ravenna) riprese la guerra contro Azzo, mentre il mese successivo venne siglata la pace con Milano. A Ferrara si unì Cremona, che dopo la sua entrata in guerra vide il proprio territorio saccheggiato dai cavalieri veronesi. Dopo gli attacchi al territorio cremonese i cavalieri rincasarono a Ostiglia, dove furono raggiunti da Azzo insieme alla truppe ausiliarie di Napoli e Bologna. Cangrande e Alboino raggrupparono un esercito di 10.000 fanti e 1.400 cavalieri per difendere la città, ma nonostante questo Ostiglia venne conquistata e la flotta mantovano-veronese sul fiume Po catturata. Azzo però morì e lasciò il potere al nipote Folco, ma, ritenendo ingiusto questo passaggio, Francesco d'Este chiese a papa Clemente V di fare da arbitro per la contesa.

Verona e Mantova non avevano quindi più motivi per continuare la guerra vista la nascita di lotte intestine a Ferrara, che aveva così perso il ruolo di importante centro guelfo dell'alta Italia: Scaligeri e Bonacolsi chiesero e ottennero il mantenimento dello stato precedente all'inizio della guerra. Durante la guerra morì la madre Verde di Salizzole per cui unico parente stretto di Cangrande ancora in vita rimase il fratello Alboino.

Nel marzo 1308 a Parma era iniziata una lotta interna tra guelfi e ghibellini, così Mantova e Verona, alleatesi con Enrico di Carinzia e Tirolo, Otto III di Carinzia e i Castelbarco (questi ultimi storici amici di famiglia degli scaligeri), decisero di intervenire con l'intento di ostacolare i guelfi parmensi, riuscendo a sconfiggere l'esercito nemico. Il 19 giugno l'esercito parmense subì un'altra sconfitta, questa volta a opera di Giberto III da Correggio; si avvicinava dunque la possibilità di portare la città sotto il controllo ghibellino. E infatti alla fine della guerra tornarono ghibelline sia Parma che Brescia, anche questa in parte protagonista della guerra. Il giovane Cangrande partecipò anche a questa guerra combattendo sotto l'esercito veronese, anche se il comando supremo delle forze armate spettò al più anziano ed esperto fratello.

Nel 1308 Alboino decise di condividere il potere con un Cangrande ormai diciottenne, che fu quindi proclamato Capitano del popolo veronese e divenne coreggente e Signore di Verona. Nuovo obiettivo dei due Signori divenne indebolire la guelfa Milano, ancora asservita ai Della Torre. La prima opportunità arrivò dall'insurrezione antimilanese scoppiata a Piacenza nel 1309, durante la quale i piacentini riuscirono a scacciare i milanesi.

Il 13 giugno 1309 Piacenza formò una lega con Parma, Verona, Brescia, Mantova e Modena allargando così il conflitto. Gli Scaligeri inviarono i 500 migliori soldati veronesi a Piacenza dove sconfissero l'esercito nemico, mentre Parma inviò l'esercito, supportato da truppe veronesi, contro la guelfa Fidenza, ma il cattivo tempo obbligò a interrompere l'assedio e a iniziare le trattative per la pace, che sarebbe stata poi firmata entro la fine dell'anno.
Nell'estate del 1310 Enrico VII di Lussemburgo preparava la sua discesa in Italia, alimentando le speranze dei ghibellini, che auspicavano una restaurazione del suo potere imperiale. Enrico VII arrivò in Italia con l'intento di conciliare la parte guelfa con quella ghibellina sotto il vessillo di un impero unito. Appena mise piede nel territorio italico si presentarono numerosi ambasciatori (compresi legati di Verona) per rendergli omaggio e accompagnarlo a Milano, dove doveva essere incoronato.

Il 15 novembre vennero mandati a lui un giurista e alcuni nobili veronesi, per prestare il giuramento di fedeltà a nome del Comune e della Signoria: il messaggio venne accolto festosamente e l'imperatore promise che sarebbe andato a Verona. Poco dopo egli ordinò ai Comuni italiani di mandare delle rappresentanze a Milano per il 5 gennaio 1311, giorno in cui sarebbe stato incoronato. Finita la cerimonia dell'incoronazione l'imperatore cominciò a render note le sue intenzioni: egli voleva una riforma del regno d'Italia, in modo che l'autorità imperiale nelle città fosse rappresentata da vicari esterni, per poter facilitare la convivenza delle fazioni opposte.

A Verona venne nominato vicario imperiale Vanni Zeno da Pisa, intendendo così di rendere attuabile il ritorno in città dei Sambonifacio. Ritorno però inaccettabile da parte degli Scaligeri, che infatti, in segno di protesta, rinunciarono addirittura alla signoria. Erano sicuri che il popolo veronese non avrebbe accettato di perdere i propri signori, come infatti accadde. Alla fine l'imperatore, pentito dell'errore commesso, si trovò a poter fare affidamento per raggiungere i suoi obiettivi, solo sul sostegno dei ghibellini. Dovette presto ricredersi, e, il 7 marzo 1311, decise di riconoscere come vicarii imperiali di Verona Cangrande e Alboino. A questo punto i due possedevano un doppio riconoscimento della loro autorità: assommarono l'investitura del Comune a quella dell'Imperatore. Il lato negativo del vicariato era però quello finanziario, infatti costava molto denaro e l'obbligo di un contingente di soldati che scortasse il sovrano o comunque servisse in Lombardia. Il Comune di Verona promise ad Enrico VII 3.435 fiorini d'oro, mentre altri 3.000 fiorini furono spediti al vicario di Lombardia Amedeo di Savoia. Il maggiore problema nella nuova organizzazione si ebbe con Padova, a cui l'imperatore riconobbe l'autorità su Vicenza in cambio di un tributo una tantum e di uno annuale, oltre all'obbligo di eleggere un vicario padovano di fede ghibellina. Ma Padova non gradiva le pretese dell'imperatore; iniziarono così con la città guelfa lunghe trattative. Nell'aprile del 1311 Vicenza si ribellò a Padova, ed Enrico VII prese la questione come pretesto per costringere il Comune padovano ad accettare le sue richieste. In seguito ad un attacco subìto, il comandante delle truppe imperiali raggiunse Verona con 300 cavalieri: i due fratelli scaligeri parteciparono all'impresa con le truppe ausiliarie di Verona a Mantova, ed il 15 aprile invasero facilmente Vicenza, mentre la rocca in mano ai padovani veniva conquistata da Cangrande con truppe leggere.

Il 14 maggio gli Scaligeri giunsero all'accampamento di Brescia, dove la fazione guelfa si era impadronita del controllo della città in spregio ad Enrico VII. Durante l'assedio, perirono per un'epidemia numerosi soldati: tra questi si ammalò anche Alboino, che fu riportato a Verona. Da lì, solo Cangrande, reclutata nuova fanteria e cavalleria, tornò a Brescia. Per questo merito, gli venne affidato il comando supremo dell'esercito. E tuttavia la città assediata si arrese solamente il 16 settembre 1311. Dopo aver passato del tempo con il fratello ammalato, Cangrande partì insieme ad una scorta per raggiungere Enrico VII a Genova. Raggiunto però dalla notizia delle gravi condizioni in cui versava il fratello, dovette tornare a Verona, anche per via della possibile minaccia che rappresentava Padova. La notte tra il 28 ed il 29 novembre 1311 Alboino morì e Cangrande divenne l'unico Signore di Verona, all'età di ventidue anni. La salma di Alboino venne posta accanto a quella dal padre Alberto I. Prima guerra contro Padova.

Quando Cangrande assunse il potere, Verona era ancora un Comune modesto, se messo in confronto con il potente Comune di Padova, tanto che lo scaligero non era nemmeno in grado di pagare il tributo ad Amedeo d'Aosta. Nonostante ciò egli adempì sempre ai suoi doveri nei confronti dell'Impero: lo dimostrò ancora una volta quando i guelfi bresciani tentarono di far insorgere la città, e Cangrande intervenne per sventare il complotto. Cangrande si rivelava, dunque, fondamentale per la causa ghibellina.

Cangrande, l'11 aprile 1311, si era recato a Vicenza, dove assunse il vicariato della città, grazie ad un atto di opportunismo politico, approfittando delle controversie della città con i suoi ex-padroni di Padova. Enrico VII aveva bisogno di un sostegno economico per raggiungere Roma, per cui, dietro il pagamento di una forte somma di denaro, diede la carica allo scaligero che riuscì in breve tempo a guadagnarsi la stima del popolo. I vicentini sicuri dunque dall'aiuto scaligero e imperiale iniziarono a provocare i padovani, arrivando addirittura a deviare il corso del Bacchiglione, danneggiando così l'economia della città guelfa.

Alla fine Padova acconsentì alla nomina di un vicario imperiale e al pagamento di 20.000 fiorini annui in cambio di numerose concessioni e al pagamento da parte di Vicenza dei danni da loro subiti per la deviazione del fiume: il consiglio vicentino però si rifiutò di pagare la somma, dando così il via a numerose liti su varie questioni: in particolare sulla restituzione a Padova di alcuni fondi rurali. I padovani mandarono degli ambasciatori all'imperatore perché risolvesse la questione: Enrico cercò di riappacificare le due città, imponendo comunque a Vicenza di riaprire il corso originario del Bacchiglione.

Il 28 gennaio 1312 giunse a Padova la notizia ufficiale che Cangrande era stato nominato vicario di Vicenza, così il consiglio cittadino decise di riunirsi, soprattutto per via delle insistenti voci che parlavano di Padova come obiettivo di Cane: durante la seduta del 15 febbraio il consiglio decise di dichiarare guerra a Verona, mentre in strada la folla distruggeva tutto ciò che era insignito dell'aquila imperiale, e presto cominciarono le prime ruberie in territorio vicentino. La sfida all'imperatore, che aveva sostenuto l'elezione di Cangrande a vicario imperiale di Vicenza, diede a lui il pretesto per muovere guerra a Padova.

Nella primavera del 1312 l'esercito padovano iniziò ad attuare brevi incursioni in territorio vicentino e veronese, e fu così che Cangrande per diciotto mesi venne messo in difficoltà, anche perché Padova era un comune ricco e potente, con forze militari maggiori di quelle che aveva a disposizione in quel momento Cangrande. Nonostante ciò egli riuscì a portare il grosso dell'esercito veronese in territorio padovano, dando inizio ad una serie di devastazioni. Le prime incursioni veronesi videro una sconfitta presso Camisano Vicentino, e successivamente la conquista del castello di Montegalda, importante baluardo per Padova. Questo venne quindi dotato di una guarnigione, mentre poco dopo Cangrande tornò a Verona, anche se i padovani presto iniziarono la controffensiva da Montagnana, da dove raggiunsero e devastarono Minerbe, Pressana e Legnago, mentre Cologna Veneta venne incendiata.

A marzo le truppe padovane si trovavano tra Vicenza e Verona, minacciando così entrambe le città: i padovani decisero di dirigersi su Vicenza, sapendo che all'interno della città si stava sviluppando il complotto dei cittadini guelfi. Alcune sentinelle veronesi videro l'avanzata nemica e si precipitarono ad avvertire il comandante della città, Federico della Scala. Intanto le prime scaramucce tra truppe padovane e vicentine si ebbero a Torri di Quartesolo, dove i secondi vennero sconfitti, subendo notevoli perdite. Cangrande fu informato della disfatta delle truppe vicentine, raggiunse quindi la città, ordinando di chiudere le porte e di arrestare tutti i sospetti traditori: questi in parte riuscirono a fuggire, e in parte furono catturati, e quindi o esiliati o condannati a morte.

I padovani, persa la possibilità di conquistare Vicenza, decisero di attaccare Marostica, che cedette grazie all'arrivo di rinforzi da Bassano del Grappa, e successivamente attaccarono numerosi borghi e villaggi vicentini. Per vendicarsi Cangrande giunse con le truppe a pochi chilometri da Padova e ne distrusse i sobborghi, mentre Montagnana veniva conquistata e incendiata. Ma Padova inviò immediatamente aiuti all'importante città, per cui Cangrande fu costretto a ritirarsi verso Vicenza. Intanto i padovani conquistarono e distrussero a loro volta Noventa Vicentina. Divenendo la situazione critica, Cangrande fu costretto a rivolgersi al luogotenente di Lombardia Werner von Homburg, il quale arrivò con truppe nuove e razziò alcuni villaggi, anche se presto dovette tornare in Lombardia, dove erano scoppiate alcune insurrezioni. Feltre, Treviso, Belluno e Francesco d'Este si allearono con Padova, formando così un esercito di 17.000 uomini: le truppe, il 1º giugno 1312, partirono per Torri di Quartesolo, dove si accamparono. La fanteria leggera fu mandata in spedizione a razziare i campi e i villaggi vicino a Vicenza. In città, Cangrande guidava 800 cavalieri e 4.000 fanti, per cui i padovani, che non si sentivano pronti per attaccare direttamente la città, decisero di proseguire lungo il Bacchiglione, dato che ormai Padova soffriva per la mancanza d'acqua. Fu però impossibile riportare nel suo corso naturale il fiume: il luogo era interamente protetto da fortificazioni e torri. Fu lì che Cangrande riuscì a prendere di sorpresa alcune truppe nemiche. Di esse, durante la battaglia, ne morirono quattrocento. I rinforzi padovani riuscirono però a scacciare i veronesi. Nonostante la vittoria i padovani non riuscirono tuttavia a riportare il Bacchiglione nel suo letto originario, e intanto Cangrande cercava di spingerli verso Castagnaro. I padovani si portarono successivamente nuovamente verso il territorio vicentino, dove depredarono alcuni villaggi, portando poi il bottino in salvo a Bassano del Grappa, dopo aver subito una sconfitta in una breve scontro con Cangrande e i suoi 200 uomini di scorta. Intanto la guarnigione di Cologna Veneta venne nuovamente sopraffatta, e i padovani riuscirono ad appropriarsi di alcuni vessilli scaligeri.
Fino a questo punto la guerra si era svolta con razzie e piccole scaramucce, nonostante la superiorità economica di Padova e l'importante aiuto militare degli alleati, anche perché Cangrande aveva sempre evitato lo scontro campale, date le superiori forze nemiche. Dopo che nel giugno 1312 anche a Modena avevano preso il sopravvento i guelfi, Padova decise di portare una grande spedizione contro Vicenza, e poté marciare relativamente tranquilla fino alla città, mentre Cangrande si trovava a Verona. A Vicenza i padovani cominciarono a saccheggiare i sobborghi cittadini, e finalmente riuscirono, in questa occasione, a reincanalare il Bacchiglione. Ma poi dato che Vicenza non si arrendeva, l'esercito venne spostato per conquistare Poiana, un importante castello sulla strada che da Padova porta a Vicenza, a ci riuscì dopo un breve assedio. Impossessatosi del castello, a fine luglio l'esercito patavino ritornò a Padova. Seguirono ancora razzie padovane, mentre Cangrande, sulla difensiva, cercava di limitarle, riuscendo nonostante questo a mantenere il controllo di Vicenza, anche grazie alla disorganizzazione delle truppe nemiche. Intanto Padova perdeva l'importante alleanza di Treviso, che pretendeva di assumere il comando dell'esercito. A questo punto Werner von Homburg poté nuovamente avanzare in aiuto di Cangrande, in quale intanto, prima dell'arrivo di lui, era riuscito ad impadronirsi del castello di Lozzo, grazie ad un'intesa segreta con il comandante della fortezza. Riuniti, Werner e Cangrande, assalirono il 7 gennaio 1313 Camisano Vicentino e ne distrussero il castello…”

(Leggi l’articolo completo in wikipedia.org)

 

Una frase al giorno

"Non ho mai scritto nulla per premeditazione estetica: la trasposizione musicale di una poesia dev'essere un atto d'amore e mai un matrimonio di convenienza"

(Francis Poulenc, compositore e pianista, Parigi, 7 gennaio 1899 - Parigi, 30 gennaio 1963)

Allievo di R. Vinẽs per il pianoforte e di Ch. Koechlin per la composizione, appartenne al cosiddetto Gruppo dei Sei, costituitosi in Francia nel 1917. La sua musica è caratterizzata da un eclettismo a sfondo prevalentemente neoclassico; degli artisti del gruppo egli fu forse quello più dotato di un'istintiva musicalità, che trovò espressione particolarmente felice nei lavori di intonazione scherzosa e spigliata. P. ha scritto molte musiche teatrali, corali, orchestrali e da camera, tra cui le opere Les mamelles de Tirésias (1947), Les dialogues des Carmélites (da G. Bernanos; 1957), La voix humaine (da J. Cocteau; 1959), il balletto Les biches (composto per i Balletti russi di Djagilev; 1924), le Litanies à la Vierge Noire (per coro femminile, o di voci bianche, e organo; 1936), il Concert champêtre per clavicembalo e orchestra (1928), un Concerto per pianoforte e orchestra (1950), numerose composizioni per canto e pianoforte. Di queste ultime P. spesso fu per varî anni apprezzato interprete in duo con il tenore P. Bernac.”

(In www.treccani.it)

Dialogues Des Carmélites, di Francis Poulenc
Direttore Jérémie Rhorer, Orchestra Teatro Comunale Bologna. Regia Olivier Py

 

Fede, coraggio e redenzione sono i temi principali dei Dialogues des Carmélites, cui fanno da sfondo il terrore e i disordini della Francia rivoluzionaria. Il libretto, ispirato dall’omonimo dramma teatrale di Georges Bernanos, debuttò in prima assoluta al Teatro alla Scala nel 1957. Riferimenti musicali per Poulenc sono in questa occasione Monteverdi, Musorgskij e soprattutto Debussy: il rifiuto dell’effetto che nasce dai contrasti drammatici, l’attenzione ossessiva al “ritmo verbale” del testo, la tematizzazione del silenzio e l’uso di Leitmotiv di tipo simbolico-allusivo sono i tratti distintivi della partitura.

Coproduzione del Théâtre des Champs-Élysées, Paris con Théâtre Royal de La Monnaie, Bruxelles
Cast: Blanche De La Force - Hélène Guilmette. Madame De Croissy - Sylvie Brunet. Madame Lidoine - Marie Adeline Henry. Madre Marie-Sophie Koch. Marchese De La Force - Nicolas Cavallier. Chevalier De La Force - Stanislas De Barbeyrac. Suor Constance - Sandrine Piau. Chaplain Du Carmel - Loïc Félix. Il carceriere - Matthieu Lécroart. Madre Jeanne - Sarah Jouffroy. Mathilde - Lucie Roche. 1° Commissario - Jeremy Duffau. 2° Commissario - Arnaud Richard.

Il 7 gennaio 1899 nasce Francis Poulenc, compositore e pianista francese (morto nel 1963)

 

Un brano musicale al giorno

Modest Mussorgsky: “Boris Godunov: Addio, preghiera e morte di Boris B”, con Feodor Chaliapin (Fëdor Ivanovič Šaljapin, Basso)

  • L’opera completa: Boris Godunov - Nesterenko, Arkhipova - Bolshoi, 1978, English subtitles, Годунов, Большой

Cast:
Boris Godunov - Evgeny Nesterenko. Grigory Otrepyev (False Dimitrii) - Vladislav Piavko. Marina Mnishek - Irina Arkhipova. Pimen - Valery Yaroslavtsev. Principe Shuiskii - Andrey Sokolov. Locandiere - Larisa Nikitina. Tsarevich Fyodor - Glafira Koroleva. Tsarevna Xenia - Galina Kalinina. Infermiera - Nina Grigorieva. Padre Varlaam - Artur Eizen. Il santo sciocco - Alexey Maslennikov
Musica: Modest Mussorgsky.
Orchestre National du Bolchoï. Direttore: Boris Haikin. Direttore: Leonid Baratov

7 gennaio 1598: Boris Godunov si prende il trono di Russia

 

BORIS Fedorovič Godunov, zar di tutte le Russie. - Nato verso il 1551 (la data precisa è ignota), regnò dal 1° settembre 1598 fino alla morte (13 aprile 1605). Discendeva dal capo tartaro Četa, trasferitosi in Russia nel 1329 sotto Ivan Kalita. B. passò la sua giovinezza alla corte dello zar Ivan il Terribile, di cui conquistò il favore. La sua posizione a corte si rafforzò in seguito al suo matrimonio con la figlia del favorito dello zar, Maljuta Skuratov. Morto Ivan il Terribile e salito al tiono Fedor Ivanovič, B., come cognato dello zar (Fedor aveva sposato sua sorella Irina) divenne una delle personalità più eminenti dello stato. Lo zar Fedor era un deficiente, incapace di governare; da ciò la lotta accanita tra i boiari per l'esercizio dell'effettivo potere in Russia. I principali avversari di B. furono i principi Mistislavskij, e Šuiskij, ma la lotta finì con la vittoria di B., che si trovò ad essere il vero capo dello stato. L'attività di lui rivelò subito l'accorto politico: all'interno riordinò l'amministrazione, istituì il patriarcato (1589), rafforzando così il potere dello stato anche dal punto di vista religioso; nelle questioni fondiarie si appoggiò ai medî proprietarî in confronto dei grandi latifondisti; al suo governo si devono le prime misure dalle quali si sviluppò la servitù della gleba (in primo luogo l'abolizione del cosiddetto giorno di S. Giorgio). Nella politica estera B. cercò in generale d'evitare le guerre d'aggressione e di mantenere con tutti rapporti pacifici. Solo nel 1590 si decise alla guerra con la Svezia e riconquistò così le terre perdute da Ivan il Terribile, tra cui Jam e Ivangorod. Due volte dovette opporsi alle incursioni dei Tartari di Crimea. Nel 1591 morì il principe ereditario Dimitrij, che con la madre, fin dall'inizio del regno di Fedor, era stato in una specie di esilio ad Uglič sulle rive del Volga. Fu diffusa la voce che il bambino fosse stato ucciso per ordine di Boris Godunov, ma la critica storica non è riuscita, fino ad oggi, ad assodare le reali circostanze della morte; e se le accuse non hanno trovato conferma nella forma in cui furono divulgate, tuttavia l'ombra del dubbio rimane sulla figura di Boris. Certo è che per la morte del principe e l'incapacità intellettuale di Fedor veniva a mancare sul trono quella stirpe dei Riurik, che aveva finora regnato in Russia. Quando, sopraggiunta anche la morte di Fedor, Irina si ritirò in un monastero e il governo fu assunto dal patriarca Jov, creatura di Boris, fu evidente che questi sarebbe salito al trono. Il Zemskij Sobor, nel quale secondo alcuni dominavano creature di Boris, secondo altri al contrario i suoi nemici, si pronunziò in suo favore. Dopo avere una prima volta rifiutato la corona, egli finalmente si lasciò incoronare zar. Salito al trono, continuò la sua precedente politica interna ed estera. Conscio della necessità per la Russia di avvicinarsi all'occidente egli mandò dei giovani a studiare all'estero il risultato fu nullo, perché questi giovani non tornarono in Russia, ma l'idea da lui concepita fu in seguito più efficacemente realizzata. La grave situazione da lui creata ai servi della gleba con l'abolizione del cosiddetto giorno di S. Giorgio, fu alleggerita con nuove misure. Nella politica finanziaria B. difese il libero commercio, concedendo privilegi agl'Inglesi e alle città anseatiche. In politica estera continuò ad evitare gli urti e a stringere relazioni pacifiche con gli altri stati. Il matrimonio progettato tra il principe danese Joann e la figlia di Boris, Ksenja, fallì però per l'improvvisa morte del principe. Due avvenimenti gravissimi si verificarono durante il suo regno al principio del nuovo secolo: la terribile carestia degli anni 1601-03, che ebbe come conseguenza stragi e saccheggi, e la comparsa d'un pretendente al trono nella persona del falso Dimitrij. Questo avventuriero, appoggiato da re Sigismondo III di Polonia, fondandosi sull'aureola che gli veniva dalla pretesa sua appartenenza alla casa dei Rjurik, riuscì a creare gravissime difficoltà a B., le cui truppe, dopo qualche successo, furono vinte. L'improvvisa morte di B. diede il tracollo alla situazione. Mosca giurò fedeltà a suo figlio Fedor, ma tanto questi quanto la madre furono uccisi e il falso Dimitrij salì al trono.

La personalità morale di Godunov, anche più della sua personalità politica, ha destato sempre l'interesse degli storici, che dapprima vedevano in lui un malvagio e solo nel sec. XIX ne tentarono la riabilitazione; un vero e proprio saggio di giustificazione morale e storica vuol essere l'opera recente di S. F. Platonov. La personalità di B. ha ispirato varie volte i poeti: la più famosa creazione artistica intorno a lui è il dramma Boris Godunov di Alessandro Puškin. Esso è stato anche musicato dal Mussorgskij. Lunga eco ebbero nella poesia popolare l'epoca e la vita di Boris.”

(Ettore Lo Gatto - Enciclopedia Italiana, 1930, in: www.treccani.it)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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