“L’amico del popolo”, 7 luglio 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

DIVA (Francia, 1981), regia di Jean-Jacques Beineix. Tratto dal romanzo omonimo di Daniel Odier. Sceneggiatura: Jean-Jacques Beineix, Jean Van Hamme. Fotografia: Philippe Rousselot. Montaggio: Marie-Josèphe Yoyotte, Monique Prim. Musiche: Vladimir Cosma. Con: Frédéric Andréi, Roland Bertin, Richard Bohringer, Gérard Darmon, Jacques Fabbri, Thuy An Luu, Dominique Pinon, Anny Romand, Wilhelmenia Wiggings Fernandez.

“Jules - ragazzo-postino di una Parigi irreale e fantasmagorica - appassionato di musica lirica e infatuato di Cynthia Hawkins, una cantante lirica di colore, riesce a registrare di nascosto, dalla viva voce della "diva", un pezzo della Wally di Catalani, da lei interpretato con straordinaria purezza melodica. Quel canto e il bianco abito fluente della "diva", da lui rubato, gli creano, nell'angolo bohémien in cui abita, una fragile atmosfera di sogno. Solo quando - nel camerino della "diva", che lo riceve, meravigliata e intenerita per la candida infatuazione del ragazzo - viene a sapere da un diverbio della cantante con il suo manager che Cynthia non accetta in modo assoluto di far incidere le proprie esecuzioni, il ragazzo decide di far omaggio alla diva delle preziose registrazioni in suo possesso. Egli ignora, però, che dentro la borsa di postino, fissata al portabagagli della sua motoretta, è finita anche un'altra registrazione, di tutt'altro genere, in cui Nadia - una povera ragazza sfruttata - prima di venir assassinata, denuncia un'alta personalità della polizia, coinvolta nello sfruttamento della prostituzione. Tutto il film è giocato sulla frenetica rincorsa - per ragioni opposte - delle due registrazioni, di qua da parte del ragazzo, di là da parte della malavita organizzata, decisa a distruggere la prova pericolosa incisa da Nadia. Dopo di che il postino - con l'aiuto di un estroso fotografo e della sua giovanissima amica vietnamita - uscirà rocambolescamente vivo dal thrilling spettacolare del regista e forse anche dal suo ingenuo sogno musicale di adolescente”.

(Comingsoon.it)

"Variamente valutato dalla critica ufficiale - che si sbilancia saccente fra opposti giudizi di 'roba da cestino' e 'opera sublime' - il film di Beineix ha indubbiamente un suo fascino ed è rivelatore di una padronanza tecnica del mezzo abbastanza sorprendente per un'opera prima. Il montaggio è audace, ma non salva del tutto il film da qualche passaggio abbastanza caotico, mentre indulge notevolmente alla spettacolarità e a una suspence qua e là esasperata - al rallentatore - tanto da sfiorare il melodramma e rischiare di muovere al riso nel bel mezzo del precipitare della tragedia. Narrativamente difetta di sintesi fra le storie parallele delle due registrazioni contese e la fragile storia d'amore di Jules e la 'diva', storia punteggiata d'ironica tenerezza, ma che pure tocca momenti di poesia. Gli epiteti di 'stucchevole romanticismo' dedicati a questa storia, una volta tanto pulita, tradiscono forse la grossolanità del nostro palato di spettatori 1983, alterato dalle volgarità plateali di certo cinema corrente, caratterizzato da un turpiloquio noiosamente ripetitivo e da assoluta mancanza di fantasia e di levità poetica. Resta da spiegare l'enorme successo registrato dal film negli Stati Uniti, dopo lo sdegnoso rifiuto parigino di un paio d'anni fa. Caparbietà manageriale di Beineix? Indice di un ritorno della gente a tematiche che stimolino la fantasia e aiutino a sognare in un mondo e una società tutta piattamente programmata? Beineix si è - comunque - rivelato un talento di robusto mestiere e di qualche felice impennata di fantasia e di simpatia per l'uomo. Vedremo se per fortuna o caso, o se per reale capacità di cogliere le aspirazioni che sonnecchiano nel profondo di un'umanità appesantita da interessi banali e avidità deludenti, che sostanzialmente la impoveriscono di valori e di speranza."

('Segnalazioni cinematografiche', vol. 94, 1983)

“Uomini alle prese con qualcosa di più grosso di quanto possano pensare; inseguimenti, incomprensioni e colpi di scena dietro ad ogni angolo: ecco alcune delle caratteristiche (che poi rimarranno nelle successive opere) del film d’esordio del regista francese Jean-Jacques Beiniex (Lo specchio del desiderio, Betty Blue, Roselyne e i leoni). Jules (Frédéric Andreï), un giovane postino amante della musica lirica, riesce a registrare in diretta il concerto della celebre Cynthia Hawkins (Wilhelmina Wiggins Fernandez), ma mentre esce dal teatro assiste all’omicidio di una donna che, però, prima di morire riesce ad infilare nello scooter di Jules una audiocassetta. Il ragazzo si troverà inseguito da una parte da due uomini di Taiwan interessati a speculare sulla registrazione pirata del concerto lirico e dall’altra da due sicari al servizio del corrotto commissario di polizia, smanioso di recuperare l’audiocassetta contenente la descrizione dei suoi crimini. Beineix, forte della lezione dei connazionali Melville, Godard e Malle, costruisce un complicato gioco di intrecci e di ribaltamenti per cui la vicenda gira su se stessa e lo spettatore si ritrova davanti una serie di personaggi senza alcuna attinenza con la trama, ma semplici passanti che intervengono in alcuni momenti per poi sparire, come deus ex machina super partes rispetto al film. Grazie ad uno stile fatto di frammenti e di numerosi particolari, il regista può permettersi di creare una storia quasi al di fuori del tempo, in cui l’aura dell’incomprensibile è appena suggerita, resa più concreta e comprensibile dallo sguardo della cinepresa; cinepresa che non è mai mezzo per poter giudicare le azioni dei protagonisti, ma semplice spettatrice senza facoltà di “parola”: i personaggi, in questo modo, acquistano la possibilità di poter agire ed apparire a piacimento, senza che sia necessaria alcuna “spiegazione logica”. Strizzando l’occhio ad alcuni canoni del noir americano Beineix costruisce con Diva un caleidoscopio di attimi, momenti, situazioni in cui tutto ciò che avviene è sempre esterno e slegato rispetto al canovaccio principale e se, forse alla fine il tutto sa di bluff, non si può non rimanere affascinati dal talento visionario del regista francese”.

(Marco Mastino in Sentieri Selvaggi)

“Una donna giovane, a piedi scalzi, nel centro di Parigi, inseguita da due sicari spietati, lascia un’audiocassetta nella borsa del motorino di un postino; è il suo ultimo gesto, e pochi secondi dopo la vedremo colpita da un coltello nella schiena, lanciato con grande abilità. La ricerca di quella cassetta, che incastrerebbe il commissario corrotto, occupa gran parte del film e ne costruisce l’ossatura; ma è una trama risibile, poco più di un pretesto per una serie di invenzioni di cinema sul cinema, peraltro serissime e girate con ottima mano. Quando “Diva” uscì, nel 1981, si gridò al miracolo: il film ebbe un buon successo di pubblico, piacque molto, e ci si aspettavano grandi cose dal suo autore, l’allora giovane Jean Jacques Beineix. Grandi cose che poi non vennero, ormai sono passati più di trent'anni e possiamo dirlo - con molto dispiacere, perché “Diva” è ancora oggi un film simpatico e piacevole, e anche piuttosto fuori del comune. Rivedendolo, mi tornava spesso alla mente un altro film francese piccolo e simpatico, e un po’ stralunato: “Zazie nel metro” di Louis Malle, girato nel 1960 e tratto dal libro di Queneau. Il film di Malle ha una cosa in comune con “Diva”: visto oggi appare molto datato, molto legato al momento in cui fu girato. Gli oggetti, i vestiti, i colori, il modo di parlare, la città, tutto quanto rappresenta con molta evidenza un mondo che non c’è più, e anche questo è un motivo d'interesse perché testimonia quanto siano effimere le mode.
Per esempio, l’abitazione del postino: che è un ragazzo svelto e piacevole, timidissimo. Il ragazzo abita in un loft, un enorme spazio che ha riempito di impianti stereo, di dischi e di cassette: e già parlare di stereo e di audiocassette fa impressione. Quando è uscito il film, non c’erano ancora nemmeno i cd: erano appena nati, pochissimi li avevano visti o avuti fra le mani. Tutto il loft meriterebbe una nota a parte, e direi che il suo arredamento ha poco da invidiare alla casa di Alex, quello di “Arancia meccanica” (un complimento a chi ne ha inventato la scenografia). La cosa curiosa di questo film, quello che lo rende davvero diverso da tutti gli altri, è che al suo centro (thriller a parte) c’è una cantante lirica, della quale il ragazzo è un fan molto acceso. Siccome la cantante, una nera bellissima e fascinosa, non ha mai voluto incidere dischi, le sue registrazioni sono molto ambite: e anche questo è un particolare che oggi può far sorridere. Dire “cantante nera e fascinosa, che fa solo recital”, in quel 1980, era un riferimento chiaro a Jessye Norman, voce sontuosa e meravigliosa che ho avuto la fortuna di ascoltare in concerto, proprio in quegli stessi anni. Ma la vera Jessye Norman non era scritturabile da Beineix, e per due motivi: il costo del suo ingaggio (le star dell’opera viaggiano su cachet astronomici, da sempre) e il fatto che la Norman non ha il fisico da top model della cantante che vediamo nel film. La “Diva” del film si chiama Wilhelmenia Wiggins-Fernandez, ed è stata una buona cantante senza mai raggiungere livelli di grande prestigio; somiglia molto a Jessye Norman, che però è una donna di taglia diversa - una dimensione fisica che le ha creato diversi imbarazzi nella sua vita, e che per lungo tempo l’ha tenuta lontana dal palcoscenico (è per questo che dava solo concerti), anche se - in fin dei conti - donne come Jessye Norman se ne incontrano spesso, e anche nelle foto dei suoi dischi figura sempre bene...”

(operagiuliano.blogspot.com)

Lacerti del film in:

DIVA (Francia, 1981), regia di Jean-Jacques Beineix
 
Una poesia al giorno

Viaggio a Montevideo, di Dino Carlo Giuseppe Campana (Marradi, 20 agosto 1885 - Scandicci, 1º marzo 1932)

Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D'ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola...
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell'ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzi!
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d'oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l'ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un'isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai pi˘ del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell'equatore: finché
Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolio di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l'inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco:
selvaggia a la fine di un giorno che apparve
La riva selvaggia sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune.

Dino Carlo Giuseppe Campana

 

Un fatto al giorno

7 luglio 1953: Ernesto "Che" Guevara compie un viaggio attraverso Bolivia, Perù, Ecuador, Panama, Costa Rica, Nicaragua, Honduras e El Salvador. “...A dicembre ne supera dieci. L'ultima prova la svolge l'11 aprile 1953. Tutta la famiglia è felice, anche se Ernesto annuncia che sta progettando un nuovo viaggio. Questa volta parte con Carlos Ferrer, un amico d'infanzia ribattezzato Calica. Il viaggio, con direzione Bolivia, inizia il 7 luglio a bordo di un treno. Dopo alcuni giorni giungono a La Paz. Al potere c'è il Movimiento nacionalista revolucionario che ha dissolto l'esercito e nazionalizzato le miniere, inaugurando una politica democratica. I due fanno amicizia con Ricardo Rojo, un avvocato argentino che è dovuto emigrare per la sua militanza nell'Unión civica radicale, un'organizzazione antiperonista. Tutti insieme si rendono conto come la politica progressista del governo boliviano non piaccia a Washington. La curiosità spinge Guevara e Calica a visitare le miniere di Balsa Negra, nei pressi di La Paz. "Il silenzio della miniera assale quelli come noi che non ne conoscono il linguaggio", annota il Che. Anche qui è la dura vita dei minatori che vivono ai margini della società, pur producendo la ricchezza economica della Bolivia, a colpire Ernesto. I due si fermano a La Paz per oltre un mese. Poi partono verso il confine con il Perù. Dopo una deviazione per vedere Macchu Picchu, si dirigono verso Lima, dove vengono accolti nel locale lebbrosario di Guia e dal dottor Pesce. Il 28 settembre arrivano in Ecuador. Guevara spera di trovare un lavoro, dopo che sua madre lo ha rassicurato di essere riuscita ad avere una raccomandazione presso il Presidente di quel paese, Velasco Ibarra. Riescono a incrociare il capo di Stato a Guayaquil, dove questi è in visita. Ma il colloquio è deludente. Non riescono a incontrare il Presidente e parlano solo con il suo segretario. Dopo alcune settimane di dolce far niente, il "Che" decide di intraprendere la marcia verso il Guatemala. A convincerlo a partire ci pensa un nuovo amico, Gualo García. Con la nave "Guayos" si dirigono a Panama.”.

(Filosofico.net)

Ernesto

“Il 7 luglio 1953 comincia il suo secondo viaggio in America Latina, saranno tremila km fino alla capitale della Bolivia, La Paz. Il 2 agosto entra in vigore la riforma agraria e si preannunciano manifestazioni e disordini in tutto il paese. Conosce in quei giorni l'avvocato Ricardo Rojo, esiliato politico del peronismo, ed insieme a questi passa il confine con il Perù sul cassone di un camion. In Perù ad Ernesto torna la passione per l'archeologia. A Lima osserva i sintomi di decomposizione politica generati dalla dittatura militare di Odría, repressiva e sanguinaria. Il 24 ottobre arriva a Panama per poi proseguire verso Costa Rica, qui entra in contatto con un gruppo di esiliati cubani che si sono appena scontrati con la dittatura di Batista assaltando la grande caserma del Moncada. Appare scettico quando gli raccontano la storia di Fidel Castro, il giovane avvocato che intorno a un progetto morale riunisce il meglio della gioventù e con poche armi. Nel dicembre del 1953 arriva in Guatemala dove si unisce ad un gruppo di amici nel giro degli esuli. Durante il suo secondo mese in Guatemala la situazione politica si va facendo sempre più tesa, cresce la possibilità di un colpo di stato, si scoprono cospirazioni militari appoggiate dagli Stati Uniti. Ernesto comincia ad avere contatti con la sinistra guatemalteca”.

(I viaggi e l'incontro con Fidel Castro - Scuola Media Dante Alighieri)

Si possono vedere sul “Che”:

 

Una frase al giorno

“La mia adorata Callas, mi mette ancora soggezione. Con quella sua voce artificiale, totale, con le sue colorature, con la sua devastante personalità. Proprio pochi giorni fa sono andata a risentirmela dopo aver visto la «Traviata» alla Scala... Che dire? Solo lei. Ogni paragone diventa impietoso. Vorrei avere la sua determinazione, la sua tenacia. Vorrei avere il suo stesso atteggiamento nei confronti della musica. Ma io sono una cialtrona al suo confronto”.

(Mina)

Maria Callas

 

Un brano al giorno

Ebben ne andrò lontana”, dalla Wally di Alfredo Catalani (1892), cantata da Maria Callas.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k