“L’amico del popolo”, 8 luglio 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

UOMINI SUL FONDO (Italia, 1941), scritto, diretto e montato da Francesco De Robertis. Fotografia: Carlo Bellero, Giuseppe Caracciolo. Musica: Edgardo Carducci.

Un sottomarino italiano, durante una manovra, urta con una nave da carico e affonda. Il comandante e gli uomini dell'equipaggio si prodigano, in collegamento con le unità di superficie, per cercare di salvare l'imbarcazione. Ma l'incidente piuttosto grave e la posizione che il sommergibile ha preso sul fondo subacqueo impediscono l'efficacia di ogni sforzo. Occorre che un marinaio, uscendo dallo scafo e affrontando una quasi certa morte, si sacrifichi per salvare gli altri. E ciò avviene, con quella cosciente e semplice generosità eroica che distingue gli uomini del mare d'Italia.

“Fra tanti film strombazzati prima di nascere, eccone uno anonimo, inavvertito, senza lustri di grandi firme e di stelle che si scopre di colpo per un capolavoro del nostro cinema. Ha avuto la preziosa collaborazione del "Centro cinematografico della Marina"; gli interpreti sono gli ufficiali, i sottufficiali e l'equipaggio di un nostro sommergibile da grande crociera; hanno partecipato ai vari episodi della vicenda 24 sommergibilisti del primo Gruppo, quattro squadriglie "Mns" della sesta flottiglia, due squadriglie di idrovolanti da ricognizione, le navi di salvataggio Titano e Ciclope, il pontone da sollevamento Anteo”.

(Mario Gromo, La Stampa)

“Il primo lungometraggio d'ambiente marinaro appare come un'autentica rivelazione, anticipatrice del neorealismo, per il taglio documentaristico del racconto, che descrive con grande verismo uomini, ambienti e situazioni. Merita un posto d'onore tra i predecessori del cinema "neorealistico" per la sobrietà del suo approccio semi documentaristico, la rinuncia alla retorica militare, il sagace impiego degli attori non professionisti - tutti marinai della Marina - l'uso espressivo del montaggio cui probabilmente non fu estranea la lezione del cinema sovietico muto e del documentarismo britannico degli anni '30”.

(Filippo Sacchi, Il Corriere della Sera)

“L’Italia è entrata in guerra il 10 giugno 1940. Ma non ha atteso la decisione di Pavolini per mobilitare il cinema. Allenatosi, per così dire, in Africa e in Spagna, il cinema è in preallarme con due film di De Robertis, il cortometraggio Mine in vista (1940) e Uomini sul fondo (girato nel 1939-1940 e distribuito nei primi mesi del 1941).
Nato nel 1902, il “comandante” De Robertis, come viene spesso definito, era all’epoca tenente di vascello (poi, dal settembre 1942, capitano di corvetta) e direttore del Centro Cinematografico del Ministero della Marina. Produttivamente, il Centro era collegato sia al LUCE che alla Scalera. Il 18 gennaio 1939 De Robertis aveva indirizzato al ministro della Cultura Popolare Dino Alfieri, che l’aveva inoltrata al sottosegretario di Stato per la Marina, ammiraglio Domenico Cavagnari, una lettera con accluse due relazioni: una sui criteri di indirizzo per la realizzazione di un film sulla Regia Marina, l’altra sui contatti da lui già presi con due case di produzione, la Scalera e la APE (Anonima Pellicole Editrice). Nei Criteri, un denso dattiloscritto di 13 pagine, il soggetto proposto è preceduto da considerazioni estetiche, tecniche e produttive di grande interesse. È esplicita l’intenzione di fare un film di «spettacolosità non immaginosa e fittizia, ma reale» i cui criteri direttivi siano: «Importanza della forma sul contenuto e quindi necessità che questa sia trattata, in tutta la sua particolareggiata stesura (cioè la sceneggiatura), da coloro che, per competenza acquisita, possiedano, in pieno, quel certo che di indefinibile che è lo spirito dell’ambiente navale, oltre la “conoscenza vissuta” degli usi, delle consuetudini, dei modi di esprimersi e di tutto ciò che è forma di vita tipica della marina di guerra. Necessità di un contenuto che risulti esente da retorica, da situazioni psicologiche forzate, da tesi e da morali e che sia invece qualche cosa di normalmente vissuto, tenendo come direttiva che, in un film militare e navale, non v’è niente da “dimostrare”, c’è solo da “mostrare”». Il soggetto proposto, dal titolo Vira a lasciare, è la storia di due guardiamarina, dal primo gallone al primo imbarco; ma solo pochi mesi dopo, in una lettera del capo di gabinetto del Ministero della Marina del 25 luglio 1939, si parla di «un film documentario sul salvataggio dei sommergibili» , e in una lettera del 12 agosto si dice che «nella seconda quindicina del corrente mese si recherà a La Spezia il tenente di vascello Francesco De Robertis per riprendere alcune scene del film documentario sul salvataggio dei sommergibili» . Forse si tratta di sopraluoghi, perché l’inizio effettivo della lavorazione è annunciato dalla stampa solo nel novembre, mentre il film risulta al montaggio addirittura nell’agosto 1940, per uscire nel febbraio 1941... Nel riconsiderare le opere di De Robertis di questo periodo, ma anche molte del dopoguerra, si ha la netta impressione di trovarsi di fronte a un autore dalla forte personalità, che merita ancora una rivalutazione nonostante alcuni studi recenti.

Più di 5 milioni d’incasso all’agosto 1943 attestano il successo di Uomini sul fondo. La critica dei quotidiani accoglie il film in modo positivo, mentre quella dei periodici specializzati sembra più reticente: al punto che Ugo Casiraghi e Glauco Viazzi sentono il bisogno di risarcirlo con un lungo e appassionato saggio.

Uomini sul fondo, concepito in tempo di pace ed «eseguito alla vigilia dell’attuale conflitto», come recita il cartello iniziale, non sembra aver subito “correzioni” per il fatto di essere stato terminato in tempo di guerra. L’incidente che causa l’affondamento del sommergibile A 103 in emersione è provocato da un piroscafo italiano di linea per un errore di manovra dovuto alla nebbia improvvisa. Il nome del piroscafo, che si contrappone ai “virili” Ciclope e Titano, le navi di soccorso, è sintomatico: Ariel (lo spirito dell’aria, che nel romance shakespeariano provoca la tempesta che fa affondare la nave, è un messaggero di evasione: di un’Italia “in vacanza”, dove sul ponte ci si diletta in incontri di pugilato).

Uomini sul fondo è un film “perfetto”, e a tale perfezione deve i propri pregi ma anche i propri limiti. «È forse l’unico film italiano, di tutti i tempi, compatto ed omogeneo in tutte le sue parti», ebbero a dire giustamente Casiraghi e Viazzi. Tale perfezione “classica” appartiene a un cinema che concepisce l’opera come un universo autosufficiente, che nella “forma” trova la propria autonomia rispetto alla “realtà”: un’ambizione stilistica che nel cinema italiano dell’epoca era raro trovare.

Il film, pur conservando e, per l’epoca, esibendo un sostrato realistico (attori non professionisti, location autentiche o, anche nelle ricostruzioni in studio, assai verosimili), ha la virtù di identificare un “mondo” a sé stante - quello composto dal sottomarino, dai mezzi di soccorso, dalle sale di controllo della base di La Spezia e da quelle del Comando in capo Alto Tirreno: il cuore militare - rispetto a un “fuori campo”, a un “altrove” - il cuore “civile” - che viene confrontato al campo centrale: le fidanzate in attesa al cancello della libera uscita; le famiglie che ascoltano la “radiocronaca” dell’odissea dell’A 103; la madre che entra in contatto telefonico col figlio (seguita da una breve scena in chiesa di alta intensità emotivo-retorica, e altamente formalizzata, che costituisce il limite estremo a cui si spinge De Robertis rispetto alla sua regola, ripresa poi da Rossellini, di “mostrare e non dimostrare”).
Il regista, con sorprendente autocontrollo per un’opera prima, ha già piena padronanza del modo di inquadrare, di muovere la macchina da presa e di montare. Il film ha un ritmo compatto, con momenti di calma e di foga, senza vuoti. Esemplari, quasi da manuale, sono la scena della partenza dei mezzi di soccorso, dal ritmo serratissimo; quella del loro arrivo in prossimità della boa dell’A 103, la cui cadenza viene bloccata di colpo dall’inquadratura della boa mentre viene coperta dalla nebbia, che ne rende per il momento impossibile l’individuazione; e quella del messaggio radio che ci fa entrare nelle case degli ascoltatori, aperta “a effetto” da una cantante che negli studi dell’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) canta un motivo in voga. Ma tutto il film ha un montaggio perfetto, rinvigorito dal sonoro: se da una parte le voci dei doppiatori, riconoscibili qui come negli altri film di De Robertis, rendono più “generico” il verismo dei volti, dall’altra la scelta minuziosa dei rumori accentua la fisicità del film (i colpi sordi dei palombari, le voci via interfono alternate a quelle normali, i fischi e i rumori meccanici), mentre la musica passa da momenti più tradizionali a “esperimenti” quasi d’avanguardia.

De Robertis si limita a registrare la cronaca dei fatti, senza eccessi di retorica patriottica. Sarà stato un tale understatement ad avere ritardato l’uscita del film, forse non del tutto gradito alle autorità militari in tempo di guerra e neppure considerato “commerciale” dalla Scalera? Il tono è cupo. Il salvataggio, oltretutto, si svolge prevalentemente di notte; e se i soccorsi sono tempestivi per la salvezza degli uomini, quella del sommergibile si deve in definitiva al sacrificio di un marinaio. Ciò che colpisce oggi non è solo l’essenzialità e la precisione del racconto, anche se gli si possono rimproverare alcune “sbavature” simboliche (che invece andavano incontro al gusto dell’epoca, stando a Casiraghi e Viazzi); colpisce la commistione fra immagini tecnologiche che sfiorano la fantascienza (gli scafandri dei palombari, per esempio), o da film del mistero (le riprese subacquee sfocate, la nebbia, i vapori del fluoro), e gli inserti “neorealistici” delle fidanzate e delle madri in attesa o delle case dei radioascoltatori.”

(In Storie di guerra: De Robertis e Rossellini, di Adriano Aprà)

 

Una poesia al giorno

Vivere, di Orhan Veli Kanik (13 aprile 1914, Beykoz, Istanbul-14 novembre 1950, İstanbul). Traduzione italiana di A. Masala in "Interno Poesia".

Lo so, non è facile vivere
Innamorarsi e cantare per l’amata;
Camminare di notte alla luce delle stelle,
Riscaldarsi di giorno alla luce del Sole
Trovare il modo di passare
Una mezza giornata sulle colline di Çamlica
- i mille toni di blu che colorano il Bosforo -
Saper obliare ogni cosa nell’azzurro.

Lo so, non è facile vivere;
Ma ecco
È sempre tiepido il letto di un morto,
L’orologio di qualcuno sta battendo al suo polso.
Non è facile, fratelli miei, vivere,
Ma neanche lo è morire.

Non è facile separarsi da questo mondo.

 

Un fatto al giorno

8 luglio 1972: “In un attentato a Beirut perde la vita lo scrittore Ghassan Kanafani, portavoce del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. Ghassan Kanafani (Acri, 9 aprile 1936 - Beirut, 8 luglio 1972) è stato uno scrittore, giornalista e attivista palestinese, particolarmente impegnato per la causa del suo popolo, scomparso nel 1972 a seguito di un attentato incendiario in cui perse la vita insieme ad una sua nipote sedicenne. All'epoca della sua morte era portavoce del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, e l'attentato, si dice, fu ordinato dal Mossad per vendicare il Massacro dell'Aeroporto di Lod, attacco attribuito al suo gruppo politico e all'Armata Rossa Giapponese”.

(Wikipedia Italia)

Si vedano:

Si legga:

 

Una frase al giorno

“Questa Gaza, più stretta del respiro di uno che sogna un incubo terribile, con l’odore particolare dei suoi stretti vicoli, l’odore della povertà e della sconfitta, e le case con i protuberanti balconi... Questa Gaza!

(Ghassan Kanafani, Kuwait, 1956)

Ghassan Kanafani

 

Un brano al giorno

Quiet Riot, Cum On Feel The Noize, 1983.

Spesso il titolo del brano è scritto Come On Feel the Noise, per ragioni di semplicità o censura (la parola "cum", infatti, nel gergo comune, indica volgarmente il seme umano), è una canzone del gruppo rock inglese Slade, pubblicata come singolo il 23 febbraio 1973. La prima band a rivisitare il brano furono nel 1983 i Quiet Riot, gruppo heavy metal di Los Angeles. La loro versione, contenuta nell'album Metal Health, contribuì al successo della band e del movimento musicale della Los Angeles degli anni ottanta, oltre a far riguadagnare popolarità alla versione originale degli Slade, certificata disco d'oro dalla RIAA. La versione dei Quiet Riot è presente anche nel noto videogioco Grand Theft Auto: Vice City della Rockstar North, ambientato nel 1986, e nel videogioco NHL 2K8 della 2K Sports. Fu usata anche nel finto trailer The Fatties: Fart 2, allegato al film Tropic Thunder. Fa parte anche della colonna sonora del videogioco musicale Rock Revolution della Konami. Nel 2009 la versione dei Quiet Riot si è piazzata al 41° posto nella classifica delle migliori canzoni hard rock di tutti i tempi.

Cum on feel the noize
Girls rock your boys
We get wild, wild, wild
Wild, wild, wild

So you think I got an evil mind
I'll tell you honey
That I don't know why
I don't know why

So you think my singing's out of time
It makes me money
And I don't know why
And I don't know why anymore
Oh no ....

(Scritta da Jim Lea e Noddy Holder)

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k