L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
KHANEH - YE DOOST KOJAST? (Dov'è la casa del mio amico? Iran, 1987), scritto e diretto da Abbas Kiarostami. Fotografia: Farhad Saba.Montaggio: Abbas Kiarostami. Musica: Jahangir Mirshekari. Con: Ahmad Ahmadpur, Babak Ahmadpur, Ayat Ansari, Khodabakhsh Defai, Iran Otari.
Un bambino si accorge di aver messo per sbaglio in cartella il quaderno del vicino di banco e sa che il maestro pedante lo punirà se non farà il compito sul quaderno giusto. Vorrebbe quindi riportarglielo, nel villaggio vicino dove egli abita, ma i genitori non lo lasciano andare, lo assillano con i compiti da finire e le mille commissioni casalinghe che i bambini "devono" fare. Finalmente si libera e va di nascosto a cercare la casa del compagno, ma non riesce a trovarla, passa da un'indicazione sbagliata a un equivoco, perde tempo con vecchi noiosi e chiacchieroni, si smarrisce fra i vicoli, si lascia sorprendere dall'oscurità. Tornato a casa senza averlo trovato, il compagno farà, nella notte, il compito anche per lui.
“Dov'è la casa del mio amico? di Abbas Kiarostami è un film magnifico, bello di immagini e con sottigliezze psicologiche e critiche inaspettate. Lo si poteva credere un film di regime poiché è prodotto da un "Istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini e dei giovani", ma non ha nulla dell'opera di propaganda anche se non rinuncia a un suo discorso sulla società e le sue vecchie abitudini. Lo spunto drammatico è semplicissimo, degno di Ladri di biciclette. Una storia fatta di nulla e che ripercorre sempre gli stessi luoghi, le stesse assenze, mentre sul volto del bambino crescono la stanchezza e lo smarrimento. Una piccola tragedia scolastica ma più olmiana che deamicisiana, lontana dalla supponenza pedagogica del Cuore e tutta dalla parte dei bambini e contro la inavvertita prepotenza quotidiana degli adulti”.
(Alberto Farassino, La Repubblica)
“A proposito di questo film di Kiarostami, torna in mente uno splendido racconto kafkiano: La passeggiata improvvisa... È sera e si è già in vestaglia, decisi restare in casa: fuori il tempo è poco invitante, eppoi l'uscire, dopo essersi trattenuti tanto a tavola con gli altri desterebbe stupore; senza contare che le scale sono già al buio e il portone sprangato. E tuttavia, come per un disagio improvviso, ci si veste, si dichiara di voler andar fuori e dopo un breve saluto, lo si fa. Quando ci si ritrova per la strada, si sente che i muscoli rispondono con particolari scioltezza all'inaspettata libertà che si è procurata loro; si sente che per merito di questa sola decisione si è raccolta in se stessi qualsiasi capacità di decisione e si corre per le lunghe strade: allora per questa sera “si è completamente usciti dalla propri famiglia, che si perde nel vuoto mentre la nostra personalità raggiunge la sua vera immagine, ferma, nera nel contorno, battendosi dietro le gambe. E tutto si rafforza ancor più, se a quella ora tarda si cerca un amico per vedere come sta”. Kafka disegna, attraverso la scrittura di questo racconto, il profilo di un'identità che riesce, finalmente, a trovarsi fuori dallo spazio e dal tempo claustrofobico della famiglia. (...)
Così nel film di Kiarostami, il piccolo Ahmad si libera dai vincoli di una famiglia che ripete nel microcosmo della relazione parentale il macrocosmo del sistema politico, sociale, religioso islamico, regolato da leggi eterne.
Il linguaggio filmico, in sintonia con la propria elementarità diegetica, articola parole di grande realismo: tempo e spazio coordinano inquadrature che rispecchiano nel silenzioso torpore dell'azione visiva e sonora, la pesantezza di un mondo chiuso, stagnante nell'incuria di una pavida indifferenza. Anche la fotografia restituisce nelle luci e nei colori una squallida spossatezza. Ma per Ahmad la liberazione non proietta come miraggio: pur significando simbolicamente il percorso rituale di un viaggio di iniziazione, la “passeggiata” del bambino ha una sua concreta realtà: è indirizzo di consapevolezza, di libertà, che non può esse tradito: a costo di violare la Legge. Se nel miraggio kafkiano c'è più la forza virtuale, onirica, di produrre cambiamento, di “uscire fuori” dalla soffocante trama familiare, nella parabola di Kiarostami si avverte piuttosto il bisogno, concreto, realistico, di cambiare un ordine vecchio con un ordine nuovo. Cercare un amico è per Kafka il gesto audace di un sonnambulo, che soltanto nel sonno più fantastico, può liberare se stesso dalle catene di carne della propria famiglia e spingersi lontano.
Perché Kafka è accorpato alla propria famiglia: per lui “cercare un amico” è realmente impossibile. Invece, per il piccolo Ahmad, la casa dell'amico è raggiungibile: il bambino è capace di porsi in modo autonomo di fronte le proprie responsabilità: è capace realmente di aprire la porta ed uscire fuori; oltrepassare la soglia senza provare smarrimento, “battendosi dietro le gambe”, diretto verso la casa del suo amico. Non è un sogno impossibile.
Con ostinazione Ahmad buca il muro di incomprensione profonda che divide il mondo dell'infanzia dal mondo adulto. Le sue domande sono per lo più destinate a rimanere senza risposta, ma in quanto forma linguistica dell'apertura, per il fatto stesso venire pronunciate, agiscono una comunicazione.
Proprio la comunicazione come strumento per operare un cambiamento è posta da Kiarostami al centro del film. Il bambino ha già imparato a conoscere il potere del linguaggio, attraverso cui raggiungere le cose: la casa dell'amico è l'altrove sconosciuto l'amico è quell'altro straniero. Il linguaggio però può vincere questa distanza paurosa, pigra, ignorante: più nessuna rassegnata accettazione è accettabile. La tradizione smarrita nei suoi valori originari dall'uso mascherato che ne ha fatto il potere, viene riscritta sul campo dell'esperienza, a contatto con la realtà.
Ed è l'incontro con il vecchio falegname a restituire un volto alla tradizione: una tradizione il cui passo stanco, impedito dagli anni, le giovani gambe del bambino faticano a seguire ma che senz'altro conosce e può con durre all'indirizzo segreto: finalmente una risposta a “Dov'è la casa del mio amico?”.
Il vecchio guida con saggezza il viaggio del bambino, della sua giovane coscienza, lungo il tratto più arduo mentre la notte confonde le tracce, indizi per una diversa possibilità di scelta. E sono proprio le scelte di Ahmad a contrappuntare tutto il film: veri e propri atti di parola, contrapposti al mutismo sordo degli adulti.
La madre, il nonno, il maestro, la vecchia malata e le altre donne: comparse tiranniche nella vita del bambino tanto assenti quanto condizionanti. Ma Ahmad sembra non curarsene: ostinatamente continua nella ricerca della strada. Quando la madre gli proibisce di andare dall'amico per restituirgli il quaderno, il bambino non smette di spiegare, di chiedere ancora e ancora spiegare: non abbandona la fiducia di farsi comprendere. E tuttavia, incompreso, prosegue.
Ahmad deciderà di fare i compiti per l'amico Mohamed: la scrittura viene a sacralizzare la possibilità di una comunicazione che tra bambini è gesto spontaneo, linguaggio fisico di incontri, scambi, maturazione. L'altro, infatti, è per i bambini sinonimo di libertà e rispetto: e tutto questo la loro giovane, nuova scrittura, scrive. Forse è per questo che spunta un fiore tra le pagine del quaderno: quel fiore che la saggezza antica del vecchio falegname aveva consigliato ad Ahmad di conservare. Così il quaderno di Mohamed diventa il quaderno di Ahmad: un solo quaderno: una lingua comune. Per comprendersi.
Dunque, fuori della fiabesca metafora da racconto delle “mille e una notte”, di cui Kiarostami si serve per fare un film oltre che sui bambini anche per i bambini stessi (che costituiscono la metà della popolazione iraniana), Dov'è la casa del mio amico? resta, realisticamente, come documento di ricerca condotta sulla possibilità di una comunicazione, di un linguaggio, che sappia stabilire, nel recupero dei valori originari, etici, non ancora contraffatti dall'uso storico del pensiero politico e della pratica religiosa, il sentimento di un'esperienza che nessun dogmatismo, tirannicamente conservatore o terroristicamente rivoluzionario, può schiacciare.
Così, la famiglia, la sua Legge, resta alle spalle del figlio che corre in strada a cercare l'amico: per restituirgli il suo quaderno. La porta è spalancata ormai e Ahmad contempla fuori la notte ventosa: le lenzuola si agitano, bianche nel buio. Però non fanno paura, perché il fuori non è più diverso, estraneo; Ahmad ora sa dove abita Mohamed: i contorni dei due amici sono chiari e fermi”
(Emanuela Imparato, Cineforum n. 312, 3/1992)
“Dov’è la casa del mio amico? è essenzialmente un film di viaggio. Utilizzando una “tecnica del pedinamento” di matrice neorealista, l’autore mette in scena il cammino di Ahmad attraverso la campagna che separa il suo villaggio (Quoker) da quello dell’amico (Posteh) e quindi tra i viottoli della stessa Posteh. Simbolo del suo viaggio di ricerca è senz’altro il sentiero a zig zag che va a Posteh, disegnato sulla collina sormontata da un albero solitario. Due figure, quelle del serpente e dell’albero, che costituiscono un’allegoria del desiderio di conoscenza che funge da motore per la formazione del personaggio; rappresentano infatti la curiosità di Ahmad nei confronti di ciò che si trova al di là dei ristretti confini della sua casa, dentro la quale lo vorrebbero costringere la madre e la nonna. Si può notare anche l’utilizzo degli elementi architettonici del cortile e dell’abitazione per sottolineare il regime di chiusura, fatto di obblighi e divieti, cui viene sottoposto Ahmad. È interessante, inoltre, il fatto che il sentiero a zig zag sia stato fatto tracciare ai bambini protagonisti prima delle riprese del film e che l’albero sia stato appositamente trapiantato laddove prima non c’era, secondo quel legame profondo tra il cinema e l’esperienza di vita (i bambini sono attori non professionisti) che caratterizza l’opera di Kiarostami e di altri autori iraniani. La scelta compiuta da Ahmad di lasciare la casa nonostante il divieto della madre è da leggersi come un’assunzione di responsabilità nei confronti dell’ottusità degli adulti: nei confronti dell’inflessibilità con cui il rappresentante dell’istituzione scolastica impone le sue regole, ma anche nei confronti della miope determinazione con cui la madre si ostina a non considerare le ragioni del figlio; nei confronti, infine, dei personaggi incontrati lungo la strada, che risultano essere sempre troppo impegnati nelle loro faccende per dar retta al ragazzino. E’ il caso, ad esempio, della donna cui è caduto in strada il lenzuolo, dell’uomo con l’asino, del vetraio che rimpiange i bei tempi passati e si muove in modo estremamente lento, esasperando il protagonista e lo spettatore del film. Tutto ciò favorisce l’identificazione con il personaggio di Ahmad (a questo proposito, è importante sottolineare la strategia narrativa costante con cui si fa puntualmente slittare il momento dell’incontro tra i due protagonisti, rendendo Ahmad davvero troppo piccolo in confronto all’impresa che deve svolgere). Centrale nel film è il rapporto tra il protagonista e gli anziani. A partire dalla nonna, che ripete all’infinito una serie di regole di comportamento di tipo formale, come quella di togliersi le scarpe prima di entrare in casa; proseguendo con i due vecchi incontrati a Posteh, che parlano dell’importanza, per un bambino, del rispetto della tradizione; per finire con il vetraio, che invece di dare ascolto al piccolo, si sofferma sulle moderne tecniche di costruzione delle finestre, un argomento rispetto al quale Ahmad non può che essere completamente indifferente. Da ricordare, ancora, la figura di un altro compagno di Ahmad, incontrato lungo la strada, costretto dai familiari a trasportare pesantissimi secchi pieni di latte. Attraverso queste relazioni intergenerazionali a senso unico viene sottolineato il ruolo indiscutibile esercitato dalla tradizione all’interno della comunità e la totale subordinazione a essa delle istanze provenienti dalla componente più giovane della comunità stessa”.
(Umberto Mosca, Aiace Torino)
“L'ho definita una commedia, seppur, l'occhio occidentale è abituato a ben altri modelli di riferimento. Commedia perché lieve e delicata, nel raccontare un medioevo moderno nell'Iran del 1987, dove tuttora nulla è cambiato, dove i bambini, tentano di studiare, sotto la ferrea disciplina iraniana, dove ancora la famiglia è patriarcale, dove gli stessi bambini si dividono tra il tempo per l'istruzione, poco, il tempo per il lavoro, molto, e il poco spazio per gli sparuti svaghi, il gioco. Un contorno povero e avaro, ma intensamente umano, un Kiarostami, che fugge dallo stereotipo del cinema politico e polemico di altri registi arabi per dare una visione dell'infanzia iraniana che non condanna ma nemmeno assolve la sua società, dove i bambini e i vecchi, vagano, gli uni alla ricerca del futuro (in questo caso molto lontano ma anche molto vicino) e gli altri in cerca del passato, cui si aggrappano malinconicamente tramite oggetti di manifattura. Un film rurale, sulla spaccatura del mondo legato ai villaggi e una città che non si vede, ma si percepisce nelle parole dei "grandi" come qualcosa da anelare. Eppure, tutto ciò non tocca Ahmad il giovane protagonista un corpo estraneo, un piccolo Odisseo, in cerca della sua Itaca, l'inarrivabile casa dell'amico Mohamed, che egli in un moto di profonda generosità infantile, cerca di salvare da un destino ignoto. Il gesto simbolico del piccolo Ahmad, riconcilia con la speranza di un epoca legato alle leggi dell'amicizia e della solidarietà, l'unico scopo di vita di Ahmad in una qualsiasi giornata nel "medioevo" iraniano è quello di salvare il futuro del compagno di banco. Tutto ciò si svolge nel deserto di strade senza nome, dove casupole di pietra si stagliano nel paesaggio, immortalato da una fotografia che narra da sola l'ignoto universo di un paese di cui sappiamo veramente poco”.
"Raramente ormai i cineasti stupiscono. E Abbas Kiarostami è una di queste rare eccezioni. Pur vivendo e lavorando in un paese, l'Iran, che a molti occhi occidentali appare immerso in un lungo medioevo, ci offre un cinema di rara, preziosissima modernità. Non che i temi dei suoi film - il dolore, il lutto, l'amore, la memoria - non siano antichi, anzi eterni. Ma pochi autori d'oggi - anche nell'occidente dove sopravvivono cinematografie centena¬rie o dove prosperano industrie cinematografiche miliardarie - riescono, come questo magnifico regista persiano, a rappresentare e a mettere nel contempo in discussione la rappresentazione, a inventare continuamente nuovi moduli espressivi e a metterli in gioco criticamente quasi nell'atto stesso di proporli."
(Lino Micciché, in occasione del Premio P. P. Pasolini, 1996)
“Si può fare un film di un'ora e mezzo sulla restituzione di un quaderno a un compagno di scuola che per sbaglio un ragazzino del villaggio di Koker ha messo nella propria cartella? (...) A livello realistico, è una parabola sul bisogno di comunicazione, di rapporto con il prossimo, di cambiare un ordine vecchio con un ordine nuovo: “Con ostinazione Ahmad buca il muro di incomprensione profonda che divide il mondo dell'infanzia dal mondo adulto”.
(Emanuela Imparato)
A una lettura di 2° grado, più metaforica, si arriva attraverso la traduzione esatta del titolo (Dov'è la dimora dell'Amico?), verso del poeta iraniano Sohrab Sepehri, citato nei titoli di testa. Ahmad e Nemattzadeh sono compagni di scuola e di banco, non amici. Abitano troppo lontano l'uno dall'altro e non possono giocare insieme, fuori dalla scuola. Ahmad non sa nemmeno dove abita il compagno. Perché quando finalmente lo trova, non entra, torna a casa, fa il suo compito e lo ricopia sul quaderno, ingannando così il maestro? Sa che non può rendere il quaderno tale e quale al suo proprietario? Comprende, a due passi dal fiore della solitudine, che non avrà mai risposta alla domanda: dov'è la dimora dell'Amico? (Che è uno dei nomi del profeta). Quello di Kiarostami che pur si ferma sulla soglia del simbolico è anche un film mistico: il fascino della semplicità.”
(Il Morandini 2007)
Una poesia al giorno
Oggi, di Abbas Kiarostami
Oggi
è il frutto di ieri
domani
la conseguenza di oggi,
il frutto della vita
è la morte
e la morte
è fertile
Un fatto al giorno
8 giugno 632: dopo aver compiuto 60 anni e il suo ultimo "pellegrinaggio di addio" alla Mecca, l'8 giugno il Profeta Maometto improvvisamente si ammala e muore a Medina.
“MAOMETTO (deformazione europea, risalente al Medioevo, dell'arabo Muḥammad) fu fondatore della religione e dello stato musulmano, nato alla Mecca fra il 570 e il 580 d. C., morto a Medina il lunedì 8 giugno 632.
La vita di M. si divide in due parti nettamente distinte per la diversità della posizione da lui assunta: il periodo meccano, che dalla nascita va sino alla sua ègira (v.), o emigrazione a Medina (autunno 622), e il periodo medinese dall'ègira alla morte. Intorno al primo, che comprende la fase puramente religiosa di M., le notizie sicure sono poche e con gravi lacune; gran parte delle informazioni date dai biografi musulmani a suo riguardo sono frutto di leggende o di congetture e interpretazioni arbitrarie di passi del Corano. Migliore documentazione storica ci viene fornita per il secondo periodo, corrispondente alla fase non più soltanto religiosa, ma anche politica, legislativa e militare dell'attività di M.
Rimane e rimarrà sempre un mistero come e quando in lui, a la Mecca, professante sino ad allora il tradizionale culto pagano politeistico dei suoi concittadini, siano sorti la fede monoteistica, l'entusiasmo per essa, il convincimento di ricevere da Dio messaggi per mezzo di un essere sovrannaturale (a Medina da lui identificato con l'angelo Gabriele) trasmettitore fedele delle testuali parole divine, e infine la persuasione che Dio gli faceva obbligo di render noti quei messaggi ai suoi concittadini e di predicare la fede monoteistica in opposizione al paganesimo e con pratiche di culto ben diverse dalle pagane. I suoi primi informatori furono quasi certamente cristiani, appartenenti alla categoria di commercianti non arabi di passaggio per la Mecca, oppure schiavi d'origine abissina o siro-palestinese o mesopotamica; in ogni caso cristiani di fede ardente, ma non molto versati nelle dottrine della loro religione, imbevuti di eresie, in un certo senso giudaizzanti; onde si spiegano certi errori gravissimi di M. in materia biblica e a proposito di elementi dottrinali cristiani e giudaici, benché spesso sia, impossibile decidere con sicurezza se gli errori e le deformazioni vadano imputati ai primi informatori o a M. medesimo.
Nella concezione di Maometto durante il periodo di vita alla Mecca, come fu messo in luce da Chr. Snouck Hurgronje, non si trattava di fondare una religione nuova. La sua idea era che molti popoli stranieri, fra i quali i cristiani e gli ebrei, e anche alcuni popoli d'Arabia completamente estinti, avessero ricevuto da Dio, a varie riprese in tempi diversi, testi sacri per mezzo di "profeti loro connazionali, incaricati di a battere il politeismo e l'idolatria e di predicare la vera religione e la vera morale, come pure di insegnare le pratiche del culto, nelle quali ha parte essenziale la recitazione salmodiata di testi rivelati nella lingua nazionale. In, altre parole, cristianesimo e giudaismo per M. non erano se non le legittime forme nazionali di una stessa dottrina religiosa rivelata direttamente da Dio ai suoi profeti o inviati. Gli Arabi delle stirpi non estinte non avevano mai avuto siffatte rivelazioni e siffatti testi sacri da recitare liturgicamente in arabo; perciò vivevano nelle tenebre del politeismo.
Le idee fondamentali intorno alle quali si aggirava la predicazione di M. alla Mecca erano le seguenti: esistenza di un Dio unico, dal potere illimitato, creatore di quanto esiste fuori di lui; obbligo fatto agli uomini della più completa sottomissione alla divinità; gravissime punizioni inflitte già in questo mondo ai popoli che furono ribelli ai profeti loro connazionali inviati da Dio e perseverarono nell'incredulità; esistenza del paradiso e dell'inferno; futura terribile catastrofe della fine del mondo, susseguita dalla risurrezione dei corpi e dal giudizio universale. Accanto a questi insegnamenti dottrinali, dei quali faceva parte anche la credenza negli angeli, nel diavolo e nei ginn (v.), non mancavano i precetti morali: osservanza della preghiera rituale ogni giorno, elemosine, riprovazione dei ricchi duri di cuore, cura degli orfani, biasimo dell'usura, ecc.
Il tentativo di predicazione alla città di aṭ-Ṭā'if e poi a beduini ebbe completo insuccesso; sembrava prossimo il fallimento dell'opera iniziata con tanto ardore. M. allora rivolse la sua ultima speranza alla città di Yathrib, quella che, divenuta di lì a breve capitale dello stato fondato da M., fu denominata per antonomasia al-Madīnah (Medina), ossia "la città". Yathrib offriva al travagliato e giovane islamismo un terreno assai più propizio che non la patria di M. Preparato spiritualmente l'elemento arabo di quella città anche mediante emissari e senza dubbio offrendosi come elemento pacificatore tra i due gruppi rivali, all'incirca nel giugno 622, M. poté stringere un accordo segreto, sull'altura di al-‛Aqabah presso la Mecca, con delegati arabi di Yathrib, i quali con esso lo riconoscevano loro capo e s'impegnavano a difendere lui, e i musulmani che con lui emigrassero dalla Mecca, con lo stesso zelo con il quale avrebbero difeso loro stessi. Atto che segna un profondo rivolgimento nei propositi di M., poiché prevede una difesa a mano armata e quindi un organismo guerriero prima ignoto all'islamismo, aggiunge la qualità di capo politico al semplice propagandista religioso, che mirava soltanto alla persuasione degli animi, introduce per la prima volta in Arabia l'idea d'un vincolo politico-religioso superiore a quello della tribù, e implica una rottura completa dei rapporti di M. con la tribù sua propria, con i Coreisciti.
L'islamismo era salvo, ma una grande, radicale trasformazione stava per compiersi in esso. Se fosse rimasto alla Mecca, anche col favore cittadino invece che fra ostilità, l'Islām verosimilmente non sarebbe mai stato altro che una religione, anzi una religione puramente araba destinata a non varcare i confini della penisola che gli aveva dato i natali; invece a Medina, sotto l'impero delle circostanze non prevedute da M., si trasformò in un grande sistema abbracciante ogni aspetto della vita individuale e sociale ed assunse quel carattere di universalità la cui conseguenza necessaria era l'aspirazione al dominio spirituale e materiale del mondo. Senza l'ègira, molti secoli di storia dell'Europa meridionale avrebbero assunto un aspetto assai diverso e molti attuali problemi di politica orientale e coloniale, o non si sarebbero presentati o avrebbero altra forma. ...”
(Enciclopedia Treccani)
Da vedere: Muhammad, Le Dernier Prophète
Una frase al giorno
“Il pernod è un'imitazione verdastra dell'assenzio. Se ci aggiungi acqua diventa lattiginoso. Sa di liquirizia e subito ti tira su, ma poi ti deprime in egual misura”
(Ernest Hemingway)
Un brano musicale al giorno
Jubilee Stomp (1928), Duke Ellington and His Orchestra. Composed by Duke Ellington. Performed by Duke Ellington and His Orchestra ù
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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