L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
JEANNE DIELMAN, 23, QUAI DU COMMERCE, 1080 BRUXELLES ((Belgio/Francia 1975), regia di Chantal Akerman. Sceneggiatura: Chantal Akerman. Fotografia: Babette Mangolte. Montaggio: Patricia Canino. Con: Delphine Seyrig (Jeanne Dielman), Jean Decorte (Sylvain), Henri Storck (primo cliente), Jacques Doniol-Valcroze (secondo cliente), Yves Bical (terzo cliente).
Nel suo ordinato appartamento di giovane vedova, Jeanne Dielman conduce una vita regolata come un orologio. Si impegna nei lavori domestici, con la precisione automatica e lievemente maniacale che solo anni d'abitudine possono aver indotto. A metà pomeriggio, mette la cena sul fuoco, poi suonano alla porta: è il suo cliente. Insieme vanno in camera da letto e poco dopo ne escono; lui paga e se ne va, Jeanne dà aria alla stanza, si lava, apparecchia la tavola. Il figlio Sylvain torna da scuola, i due consumano il pasto serale senza dirsi una parola. Dopo cena, mentre il ragazzino ripassa le lezioni, lei ascolta la radio e lavora a maglia; poi esce, fa una passeggiata nell'oscurità delle strade, rientra e va a dormire. Il giorno dopo tutto ricomincia: lucidatura delle scarpe, colazione di Sylvain, spesa al mercato, lavori di casa, un pranzo frugale, i preparativi per la cena e la visita d'un altro cliente. Ma questa volta le patate cuociono troppo, la cena sarà ritardata, e l'equilibrio di Jeanne si incrina: dimentica di spegnere le luci, non trova più gli utensili di cucina, non riesce a rispondere alla lettera della sorella. Solo il rito della passeggiata serale sembra restituirle la calma. Il terzo giorno l'inquietudine serpeggia in ogni gesto domestico; la chiusura inaspettata dell'ufficio postale turba ancor di più il ritmo quotidiano di Jeanne. Tutto le comunica un vago disgusto. Poi il nuovo cliente arriva e lei prova piacere: inorridita, gli pianta allora un paio di forbici in gola, quindi si mette a sedere e aspetta.
“Tre giorni della vita di una donna, una vedova che vive con il figlio adolescente e si prostituisce in casa per sbarcare il lunario. Il ritmo e i rituali della quotidianità, immutabili, finché non cambia qualcosa. La donna è Delphine Seyrig, eterea e sofisticata icona dalla bellezza quasi irreale, indimenticabile presenza di film quali L’anno scorso a Marienbad, Baci rubati, Peau d’âne, Il fascino discreto della borghesia.
Perfetta in contro-ruolo come prostituta di mezz’età, si direbbe, ma di fatto assolutamente splendida nei panni di un personaggio che aveva voluto interpretare a tutti i costi: “con lei”, dice Akerman, “Jeanne uscì dallo schermo e prese vita”. Dietro la macchina da presa c’è Chantal Akerman con il suo stile unico e intransigente (campi lunghi indimenticabili, perfettamente inquadrati e calcolati, immagini fisse come bassorilievi... è tutto assolutamente impeccabile) che si avvale di uno dei migliori direttori della fotografia di quegli anni, Babette Mangolte. Insieme costruirono un preciso universo di colori (quei verdi, quegli azzurri, quei marroni!) e ombre profonde che risultano al contempo belle e angoscianti.
“Ho compreso l’importanza del film molti mesi dopo averlo finito. All’inizio ero convinta di raccontare semplicemente tre giorni della vita di una donna, ma poi ho capito che era un film sull’occupazione del tempo, sull’angoscia: fare le cose nel giusto ordine per non pensare al problema fondamentale, l’esistenza”. Così Akerman a proposito di un film che, presentato a Cannes del 1975, divenne subito una delle opere fondamentali del cinema degli anni Settanta. Dire che Jeanne Dielman è un capolavoro seminale è un eufemismo. Proiettato ai festival, nei cineclub e nelle università di tutto il mondo, ha esercitato un influsso ineguagliabile sul modo di fare cinema spostandone il baricentro verso i gesti e il tempo, e soprattutto verso gli interstizi del tempo, quel non-tempo che il cinema non aveva mai mostrato. In un’intervista del 1976, Chantal Akerman citò le parole di sua madre: “Chantal, nella scena con le patate c’è tutto”. Osservazione penetrante: l’intero film e la sua importanza stanno tutti lì, come in un certo senso gran parte dell’opera di Akerman. Essenzialmente, quella scena ha ridefinito una volta per tutte il cinema e la sua sostanza.
Erano ormai disponibili pochissime copie di Jeanne Dielman, spesso in condizioni mediocri. Di qui la necessità di restaurare il film. Il restauro, eseguito a partire dal negativo camera originale e in stretta collaborazione con Akerman, rientra nel più ampio progetto della Cinémathèque Royale che prevede il restauro di tutti i film della regista.”
(Nicola Mazzanti, Il Cinema Ritrovato)
“Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles rimane il punto nodale, la pietra miliare nella carriera di Chantal Akerman, che ha da subito alternato fiction e documentario. Il cinema documentario della Akerman è caratterizzato da una qualità speciale di sguardo. La sua macchina da presa non osserva né sorprende ciò che è 'interessante', secondo il classico approccio documentaristico: semplicemente guarda e mostra, e davanti all'obiettivo vi è ben poco di straordinario. Qualità del suo sguardo è un'insistenza capace di 'far vedere' senza necessità di commenti, inquadrando con non comune padronanza aspetti della realtà in un tempo assoluto. L'immagine frammenta e ricompone il reale rendendolo intellegibile, ovvero, di nuovo e in altro modo, visibile. I lunghi piani-sequenza si succedono secondo una logica puramente plastica. Cinema astratto, si potrebbe dire. Con la differenza che la scelta del punto d'osservazione in cui la regista si pone coincide spesso con la scelta d'un soggetto forte: la vita quotidiana a Mosca dopo la caduta del muro (D'Est, 1993); il sud degli Stati Uniti e il suo clima segregazionista (Sud, 1999); la frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti, luogo di tensione sospeso tra due mondi (De l'autre coté, 2002).
In un certo senso Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles è prima di tutto un documentario, o meglio un documento, su una giornata nella vita di una donna, una semplice casalinga madre di un adolescente. La osserviamo mentre svolge le sue banali e abituali faccende: ciò che in altri film è soltanto suggerito da ellissi, qui si espande in durata, e il tempo si riempie unicamente di gesti quotidiani privi di importanza e di conseguenze. Ma attraverso un ardito capovolgimento, la Akerman situa questo approccio semi-documentaristico nel contesto d'una duplice fiction, anche se la narrazione propriamente detta viene soltanto sfiorata. In realtà questa casalinga pratica la prostituzione: visite clandestine di 'signori', soltanto intraviste, a casa sua - 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles. Per la loro brevità e mancanza di insistenza queste visite sono in profondo contrasto con le attività casalinghe di Jeanne Dielman. Poi, un giorno, questa routine viene turbata ed è sul punto di divenire un'avventura. "Un giorno...": ecco che interviene la narrazione vera, la finzione a uno stato puro e minimale. Così, "un giorno", Jeanne Dielman prova piacere fisico durante uno dei suoi rapporti sessuali. A partire da quel momento si scatena una serie di catastrofi casalinghe. Il suo quotidiano non funziona più.
Il secondo importante elemento di finzione, inaspettato e anticonvenzionale, è la scelta di Delphine Seyrig, all'epoca grande star del teatro e del cinema francese, per il ruolo di Jeanne Dielman. Laddove un altro cineasta, nel rispetto della tradizione neorealista, avrebbe scelto un'interprete anonima o un'attrice non professionista, la Akerman opta per una diva che si trova qui a essere privata di tutti i propri artifici. La scelta di Delphine Seyrig corrisponde a un'esigenza chiara: la precisione quasi matematica, la perfetta coreografia richiesta nell'esecuzione di semplici gesti quotidiani poteva essere ottenuta soltanto da un'attrice dotata di un'eccezionale tecnica gestuale, capace di eseguire i gesti del quotidiano come una partitura musicale. In questo modo il dialogo tra fiction e non-fiction trova una duplice corrispondenza: l'aspetto documentaristico è trasceso da una narrazione semplice ma incisiva, mentre la dimensione irreale legata alla presenza di una star come Delphine Seyrig è non tanto smascherata, quanto ridotta alla sua espressione più nuda, quella di un agire professionale documentato dallo sguardo attento della regista. La costruzione del film impone allo spettatore questo raffinato dialogo tra i due diversi registri senza alcun artificio intellettuale, in perfetta trasparenza. Allo stesso modo il 'messaggio' che, all'uscita del film e poi per molti anni, ha fatto di Chantal Akerman una sorta di ninfa Egeria del cinema femminista possiede una grande evidenza, tanto più sorprendente e forte proprio perché semplice. In seguito il suo cinema, soprattutto sul versante fiction, si arricchirà: il verbo, la parola, ma anche la scrittura contribuiranno a creare un inquietante equilibrio tra ciò che esiste come narrazione e ciò che viene osservato in quanto documento, testimonianza. Cinema che inquadra, dunque, o della durata inquadrata. Sorprendente percorso i cui elementi sono già tutti presenti in questo film, nel quale l'essenza e l'evidenza davvero coincidono”.
(Eric De Kuyper, su Enciclopedia Italiana Cinema)
Una poesia al giorno
Voce di donna, di Antonia Pozzi, 18 settembre 1937
Io nacqui sposa di te soldato.
So che a marce e a guerre
lunghe stagioni ti divelgon da me.
Curva sul focolare aduno bragi,
sopra il tuo letto ho disteso un vessillo -
ma se ti penso all’addiaccio
piove sul mio corpo autunnale
come su un bosco tagliato.
Quando balena il cielo di settembre
e pare un’arma gigantesca sui monti,
salvie rosse mi sbocciano sul cuore:
che tu mi chiami,
che tu mi usi
con la fiducia che dai alle cose,
come acqua che versi sulle mani
o lana che ti avvolgi intorno al petto.
Sono la scarna siepe del tuo orto
che sta muta a fiorire
sotto convogli di zingare stelle.
Un fatto al giorno
L'8 marzo 1920 in Siria viene proclamato il regno di Faysal. Il Regno Arabo di Siria, visse la sua breve stagione tra il 1918 e il 1920, era nato come diretta conseguenza della sconfitta nel 1918 dell'Impero ottomano nella prima guerra mondiale ad opera delle potenze alleate del Regno Unito, della Francia, dell'Italia e degli Stati Uniti d'America, cui si era unita la piccola entità hascemita che con al-Husayn ibn Ali, sceriffo della Mecca, aveva proclamato la Rivolta Araba. Le truppe britanniche, sotto il comando del generale Edmund Henry Allenby entrarono a Damasco nel 1918, precedute di poco dalle truppe arabe di Faysal, figlio dello Sharif. Faysal istituì il primo governo arabo indipendente a Damasco nel mese di ottobre e nominò Ali Rida Pascià al-Rikabi come suo Governatore militare. ... Nel marzo 1920, il Congresso Nazionale Siriano a Damasco, guidato da Hāshim Bey Khālid al-Ātāsī, adottò una risoluzione che respingeva l'accordo Faysal-Clemenceau. Il Congresso dichiarò l'indipendenza della Siria all'interno dei suoi confini naturali (inclusa la Palestina), e proclamò Faysal Re degli Arabi.
Una frase al giorno
“Tutti gli uomini sognano: ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte, nei recessi polverosi delle loro menti, si svegliano di giorno per scoprire la vanità di quelle immagini: ma coloro i quali sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché possono mettere in pratica i loro sogni a occhi aperti, per renderli possibili”.
(T. E. Lawrence, da “I sette pilastri della saggezza”)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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