“L’amico del popolo”, 9 ottobre 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

L'IMPERO DEL SOLE (Italia, 1955), regia di Enrico Gras, Mario Craveri, Giorgio Moser. Fotografia: Franco Bernetti, Mario Craveri, Ubaldo Marelli, Giovanni Raffaldi. Montaggio: Mario Serandrei. Musiche: Angelo Francesco Lavagnino.

L'impero del sole, apparso nei cinema nel febbraio 1956, è un film strutturato come un documentario, descrive diverse parti del Perù e si sofferma su usi e costumi delle popolazioni che le abitano, discendenti di quelle che popolavano l'impero degli Incas.

Il documentario illustra vaste zone del Perù in cui i discendenti degli antichi abitatori dell'impero degli Incas conducono la loro vita errabonda, tra le rovine delle città, dei templi; delle fortezze; delle antiche necropoli. Su alcuni isolotti del lago Titicaca vivono gli Urus, una delle più antiche razze dell'America. Il lago, coperto di un fitto canneto, ha l'aspetto di un'immensa prateria. Per gli Urus, che sono provetti pescatori, la maggior festa dell'anno è quella di San Pietro. Al piccolo mondo degli Urus si contrappongono regioni dagli sconfinati orizzonti, lungo la catena delle Ande, alle quali salgono le carovane degli indios. Qui, in un piccolo villaggio, si festeggia ogni anno il carnevale; ma in mezzo alla più spensierata allegria gli indios non dimenticano i loro morti e spesso banchettano presso le tombe. Nel suo eterno vagare l'indio si spinge nelle terre più lontane in cerca di lavoro. Dagli altipiani elevati fino a cinquemila metri il trenino scende nella foresta tropicale; poi le comunicazioni sono affidate ai fiumi dell'Amazzonia. Presso la tribù degli Yagua, sperduta nella foresta, il matrimonio assume un particolare carattere di solennità. Le isole di guano, popolate da oltre quaranta milioni di uccelli, costituiscono una delle famose ricchezze naturali del Perù. Nell'antica arena gli indios si affollano per assistere alla simbolica lotta tra il condor, emblema del Perù, ed il toro, che nella fantasia popolare rappresenta la dominazione spagnola. Il rapace, legato sul dorso del toro, avrà infine la vittoria. Liberato con gran solennità, il condor si leverà verso le più alte cime, recando con sé i voti e le speranze dei figli dell'Impero del Sole.

(Renato Gualino)

“Una spedizione archeologica italiana scava nei luoghi dove anticamente vissero i Maya. L'antico "Impero del sole" ha lasciato le sue tracce, notevolissime, ma la spedizione non trascura i contatti con la gente di oggi. Dopo il successo di "Continente perduto" i documentaristi Gras e Craveri esplorano il Perù in un film dall'ottima fotografia e dalla musica suggestiva”.

(FilmTv.it)

A proposito del musicista, Angelo Francesco Lavagnino (Genova 1909 - Gavi 1987): “Pur avendo musicato per Orson Welles, nel 1950, l'Othello (uso anticonvenzionale di un piccolo organico, nonché di un timbro apparentemente poco shakespeariano come quello dei mandolini), si affermò nel filone dei "film di viaggio" una novità per l'Italia degli anni '50, ossia dei film d'esplorazione, per i quali dimostrò originale sensibilità ed intuizione, non elaborando i temi folclorici, né adattando manieristicamente gli strumenti appartenenti alle varie culture musicali, ma recuperando in loco le sonorità e usando tutte le possibilità della tecnologia moderna per "costruire un suono". Il primo titolo "esemplare" di questo periodo della carriera di Lavagnino è Magia verde (1954, di G. Napolitano), dove i paesaggi, le usanze, le cerimonie, le stagioni, le avventure di un viaggio intercontinentale sono sostenute da un'abbondante partitura basata su materiale folclorico originale, registrato dallo stesso compositore nei luoghi delle riprese, ma assorbito e trasformato in un ricco sinfonismo descrittivo. Le stesse caratteristiche si ritrovano in Continente perduto (1955, di Moser, Gras e Craveri, vincitore del "Nastro d'Argento" nel 1955 per la colonna sonora), Tam-Tam Mayumbe (1955, di Napolitano), L'impero del sole (1956, ancora di Gras e Craveri), L'ultimo paradiso (1957, di F. Quilici), La muraglia cinese (1958, di C. Lizzani), Calypso (1959, di F. Rossi e C. Colonna). Siamo, col procedere, alla ripetizione della formula, che si mantiene inalterata anche in film non propriamente esotici, come La grande olimpiade (1961, di R. Marcellini) e Concilio Ecumenico Vaticano II (1962, di A. Petrucci), d'altronde ricchi di musiche sfarzose, misticheggianti, liricizzanti, celebrative. Lavagnino ha lavorato moltissimo su ordinazione, imbastendo commenti anche a film dozzinali, soprattutto affidandosi alla sua tecnica collaudata”.

(Festival Internazionale A. F. Lavagnino - Musica e Cinema)

L'IMPERO DEL SOLE (Italia, 1955), regia di Enrico Gras, Mario Craveri, Giorgio Moser

 

Una poesia al giorno

Amori Notturni, di Giovan Battista Marino, da Poesie varie. Giovan Battista Marino (Napoli, 14 ottobre 1569 - Napoli, 25 marzo 1625) è stato un poeta e scrittore italiano, suddito del Regno di Napoli.

Quando, stanco dal corso, a Teti in seno
per trovar posa e pace,
Febo si corca e ’l dì ne fura e cela,
e nel tranquillo mar, nel ciel sereno
ogni euro, ogni aura tace,
dorme il marino armento e l’onda gela;
allor ch’emula al giorno,
Notte, spiegando intorno
il suo manto gemmato, il mondo vela,
e tant’occhi apre il ciel, quanti ne serra,
vaghi di sonni e di riposo, in terra;

allor Lilla gentil, l’anima mia,
da la gelosa madre
e dal ritroso genitor s’invola:
indi, per chiusa e solitaria via,
di vaghe orme leggiadre
stampa l’arena, e, taciturna e sola
(se non quanto va seco
Amor per l’aer cieco),
mentre pesce non guizza, augel non vola,
rinchiusa in un beato antro m’attende,
antro che da le «fate» il nome prende.

Io, cui lunge da lei grave è la vita,
tosto che ’l ciel s’imbruna,
conosciuto colà drizzo le piante.
Quasi notturno Sol, la via m’addita,
nuda e senz’ombra alcuna,
Cinzia, qual pria s’offerse al caro amante,
e già ferir la miro
da l’argentato giro
di ceruleo splendor l’onda tremante;
e, fatte a mio favor più che mai belle,
spettatrici d’amor veggio le stelle.

Giunto al mio ben, chi potria dir gli spessi,
i lunghi, i molli baci?
i sospir tronchi? i languidi lamenti?
Chi può contar degli amorosi amplessi
le catene tenaci?
gli accesi sguardi? gl’interrotti accenti?
gli atti dolci e furtivi?
gli atti dolci e lascivi?
Tanti sono i diletti, e sì possenti,
che dal cor di per se stessa si divide
l’anima, e innanzi tempo amor m’uccide.

Lentando allor, ma non sciogliendo il laccio,
con la prima dolcezza
temprato alquanto il fervido desio,
languidamente l’un a l’altro in braccio
ce ne stiam vaneggiando, ed ella ed io.
Mentr’io pian pian col manco
a lei stringo il bel fianco,
e con l’altro altra parte ascosa spio,
ella d’ambe le sue, peso non grave,
fa quasi al collo mio giogo soave.

Io narro a lei, favoleggiando intanto,
quando primier mi prese,
e l’ora e ’l punto e la maniera e ’l loco:
poi dico: - E da quel dì ch’amor cotanto
degli occhi tuoi m’accese,
sprezzai (sì dolce n’arsi) ogni altro foco.
Questi il mio ’ncendio fûro,
e per questi ti giuro
che d’ogni altra bellezza mi cal poco.
Crocale il ti può dir; Crocale, figlia
d’Alceo, bench’ella bruna e tu vermiglia.

Questa ognor mi lusinga e prega e chiama,
ma tutto indarno... - Allora
mi risponde colei ch’io stringo e suggo:
- Caro Fileno, e tu non sai se m’ama
e mi segue e m’adora
Tirinto il biondo, se io l’abborro e fuggo?
Quanti doni mi porge,
misero! e non s’accorge
ch’io per te sola... - e vuol seguir: - ... mi struggo; -
ma, mosso dal piacer che ’l cor mi tocca,
le chiudo allor la sua con la mia bocca.

Qui risorto il desio, qual d’arco strale,
ver’ l’ultimo diletto,
sen corre a sciolto fren, carco d’ardore.
Tra noi scherzando e dibattendo l’ale,
l’ignudo pargoletto
fa traboccar d’estrema gioia il core.
Su l’arena a cadere
n’andiam: con qual piacere,
questo mi tacerò, dicalo Amore;
anzi faccial per prova altrui sentire,
ché forse anch’egli Amor nol sapria dire.

Stanco, non sazio, alfine alzo a’ begli occhi
gli occhi tremanti, e poi
da le sue labra il fior de l’alma coglio;
e, mentre il molle sen avien ch’io tocchi,
e vo tra’ pomi suoi
scherzando e mille baci or dono or toglio,
tal, che lasso pareva,
pronto si desta e leva,
ond’io pur di morir dolce m’invoglio;
ma là dove più ingordo altri si sforza,
per soverchio desir manca la forza.

Così mi giaccio, inutil pondo, appresso
a la mia ninfa amata,
che mi deride stupido ed insano.
Per ch’io m’adiro e dico: - O di me stesso
parte vile insensata,
chi più già mai t’aviverà, se ’nvano
sì vezzosa ed amica
più volte s’affatica
di farti risentir la bella mano?
Certo di sasso sei, ma come, ahi lasso!
come sì molle sei, se sei di sasso? -

Ed ecco uscir fuor de le rive estreme
de l’indica pendice
rapido il Sol, da la sua nunzia scorto.
Ella, ch’esser veduta ha scorno e teme,
sospirando mi dice:
- Addio, ben rivedrenne, e fia di corto:
a che tanto affannarte? -
Poi mi bacia e si parte.
Io resto e dico: - Invan per me se’ sorto,
invido Sol, ché questa notte oscura
era a me più che ’l dì lucida e pura! -

Canzon, notturna sei,
notturni i furti miei:
non uscir, prego, al sol, fuggi la luce:
oblio più tosto eterno, ombra profonda
le mie vergogne e i tuoi difetti asconda.

Giovan Battista Marino

 

Un fatto al giorno

9 ottobre 1966: massacro di Binh Tai durante la guerra del Vietnam. Una storia sconosciuta in Italia. Il Bình Tai Massacre è stato un massacro perpetrato dalle forze sudcoreane, il 9 ottobre 1966, di 168 cittadini nel villaggio di Binh Tai nel sud del Vietnam.

 

Una frase al giorno

“L'istruzione non è soltanto luce, come dice il proverbio popolare, ma anche libertà. Niente libera l'uomo come il sapere, e la libertà è necessaria come non mai nel campo dell'arte, della poesia: non per niente, anche nel linguaggio ufficiale, si parla di arti "liberali".

(Ivan Sergeevič Turgenev, 1818-1883, scrittore e drammaturgo russo)

 

Un brano al giorno

Camille Saint-Saëns, Concerto n. 1 in la minore per violoncello e orchestra, op. 33. Leonard Rose, violoncello. Philadelphia Orchestra. Eugene Ormandy direttore. 1967.

Organico: violoncello solista, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi Composizione: novembre 1872. Prima esecuzione: Parigi, Salle de Concert du Conservatoire Nationale de Musique, 19 gennaio 1873.

Camille Saint-Saëns

“Dal punto di vista delle strutture, il Concerto in la minore è caratterizzato sostanzialmente da un unico, grande movimento sinfonico all'interno del quale, però, convivono tre singole sezioni (separate dall'autore da doppia barra di battuta), però combinate tra di loro ordinatamente in tre veri e propri movimenti che rispettano sostanzialmente i canoni della normale forma da concerto. È un'articolazione della forma che riflette quella del Concerto per violoncello di Schumann e del Concerto per violino di Mendelssohn, un modo di procedere informale rispetto ai modelli. Si succedono, così, un primo tempo in forma-sonata, un secondo costituito da un minuetto con trio, un terzo in forma Lied tripartita. Ogni sezione risulta dunque autonoma, ma contemporaneamente - e sta qui la testimonianza della grande arte equilibratrice della forma di Saint-Saëns - permeabile rispetto alle altre e a esse collegata: ad esempio, l'Allegro non troppo iniziale si apre con una prima sezione in forma-sonata, con un'Esposizione, uno Sviluppo e una parziale Ripresa (del secondo tema). La seconda sezione, Allegretto con moto, presenta «regolarmente» i propri nuclei tematici, ma si conclude con l'inaspettata ripresa anche del Tempo I (ovvero l'Allegro non troppo d'apertura); la terza, Un peu moins vite, è un'altra linea di moderata discontinuità rispetto a ciò che precede - con elementi tematici nuovi rispetto a quelli già espressi - ma ancora una volta conclude sorprendentemente il suo arco con il ritorno del primo tempo, tanto che Saint-Saëns sottolinea «Più allegro comme le prèmier mouvement», enfatizzando così il ritorno dell'impetuoso tema che aveva aperto e, di fatto, contrassegnato l'intero concerto. Alla fine l'effetto d'insieme è mirabile: l'opera spicca per il suo classicismo formale e per il suo senso dell'equilibrio perfetto; con i suoi scorrimenti strutturali, con i suoi rimandi, funziona infatti da efficace architettura aperta e permette al compositore di usare tutti i tratti della propria penna d'artista senza perdere in sostanza: è carica di temi vigorosi e di zone d'ombra, di motivi perentori così come di arie d'opera di toccante levità; spicca per la scelta felice della modulazione, per l'uso del tecnicismo non fine a se stesso, per la calibrata alternanza tra solista e gruppo orchestrale, senza che mai l'uno sopravanzi sull'altro. Ogni attore è protagonista di se stesso e getta una luce di assoluto primo piano sulla vicenda narrata senza remore, né pregiudizi. Percepiamo una sostanziale spontaneità nel gesto sonoro e uno stile immediato di rara freschezza.
Se guardiamo al primo movimento, Allegro non troppo, notiamo ad esempio come il violoncello compaia subito insieme all'orchestra nell'enunciazione della linea tematica, irrompendo letteralmente sulla scena con un gesto di plateale, smaccata teatralità: bruschi salti, accenti, tremoli orchestrali, ansanti appoggiature (composte da un inciso caratterizzante il tema e pure della massima importanza per tutta l'opera), volate verso l'alto, improvvisi crolli verticali. Tutto concorre a disegnare una scena carica di pathos e di sentito drammatismo, dove il solista spicca per la sua plastica immediatezza e l'orchestra non sfigura, poiché a sua volta si appropria delle idee del solista e le espone in un unico tessuto connettivo, fatto di dialoghi partecipati e coinvolgenti; e quando il solista riprende il filo del discorso, lo fa per riannodare le fila dell'Esposizione in una ripresa tematica che ora cambia funzione e si trasforma in una deliziosa frase di collegamento. È il segnale per la presentazione del secondo tema, cui però Saint-Saëns pare proprio non voler far prender forma: lo sentiamo infatti solo per pochi istanti, un'oasi lirica appena accennata dal violoncello e poi volutamente lasciata sospesa, come irrisolta. La tinta di fondo è infatti quella dell'inquieto vivere e Saint-Saëns preferisce lasciarsi trascinare dal vortice del primo tema, che torna brevemente ma efficacemente con l'Epilogo, dando poi a sua volta la spinta per il primo, vero episodio tecnico del solista, un turbinoso Animato che infine letteralmente si infrange sull'elegante coda orchestrale di chiusa. Sono dunque bastate poche battute musicali a Saint-Saëns per tratteggiare il suo sgargiante quadro sonoro, uno scenario carico di colori e di impressioni vivide e ficcanti. Tanto che risulta assolutamente una logica conseguenza la costruzione di uno Sviluppo (Tempo I) dove ancora una volta emerge centrale la figura motivica del primo tema, che qui però colpisce per la restituzione sonora che Saint-Saëns ce ne dà: questa volta l'ondulato primo tema è inserito in un grande quadro d'assieme carico di nuove idee e sfumature che s'intersecano l'una nell'altra, mentre l'orchestra appare come un eletto laboratorio della fantasia dove si forgiano sempre nuove impressioni, in uno stile che richiama le grandi parafrasi e fantasie dell'Ottocento strumentale, nello stile rapsodico di Liszt e di Brahms. Il primo tema si è trasfigurato ora in un motivo tzigano, sottoposto com'è a segmentazioni, varianti, spostamenti ritmici che ne mutano i contorni e le impressioni, mentre il tono di fondo è divienuto improvvisamente più solenne, epico. E anche il secondo tema appare trasmutato: questa volta Saint-Saëns non lo lascia «incompiuto», presentandocelo completo in tutto il suo bell'arco. Lo conclude infine nella solinga, pacata frase di violoncello e orchestra in funzione di cerniera melodica: così si stende un commosso silenzio sul quadro appena disegnato...”

(articolo completo in www.flaminioonline.it)

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k