L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
L'IMPERO DEL SOLE (Italia, 1955), regia di Enrico Gras, Mario Craveri, Giorgio Moser. Fotografia: Franco Bernetti, Mario Craveri, Ubaldo Marelli, Giovanni Raffaldi. Montaggio: Mario Serandrei. Musiche: Angelo Francesco Lavagnino.
L'impero del sole, apparso nei cinema nel febbraio 1956, è un film strutturato come un documentario, descrive diverse parti del Perù e si sofferma su usi e costumi delle popolazioni che le abitano, discendenti di quelle che popolavano l'impero degli Incas.
Il documentario illustra vaste zone del Perù in cui i discendenti degli antichi abitatori dell'impero degli Incas conducono la loro vita errabonda, tra le rovine delle città, dei templi; delle fortezze; delle antiche necropoli. Su alcuni isolotti del lago Titicaca vivono gli Urus, una delle più antiche razze dell'America. Il lago, coperto di un fitto canneto, ha l'aspetto di un'immensa prateria. Per gli Urus, che sono provetti pescatori, la maggior festa dell'anno è quella di San Pietro. Al piccolo mondo degli Urus si contrappongono regioni dagli sconfinati orizzonti, lungo la catena delle Ande, alle quali salgono le carovane degli indios. Qui, in un piccolo villaggio, si festeggia ogni anno il carnevale; ma in mezzo alla più spensierata allegria gli indios non dimenticano i loro morti e spesso banchettano presso le tombe. Nel suo eterno vagare l'indio si spinge nelle terre più lontane in cerca di lavoro. Dagli altipiani elevati fino a cinquemila metri il trenino scende nella foresta tropicale; poi le comunicazioni sono affidate ai fiumi dell'Amazzonia. Presso la tribù degli Yagua, sperduta nella foresta, il matrimonio assume un particolare carattere di solennità. Le isole di guano, popolate da oltre quaranta milioni di uccelli, costituiscono una delle famose ricchezze naturali del Perù. Nell'antica arena gli indios si affollano per assistere alla simbolica lotta tra il condor, emblema del Perù, ed il toro, che nella fantasia popolare rappresenta la dominazione spagnola. Il rapace, legato sul dorso del toro, avrà infine la vittoria. Liberato con gran solennità, il condor si leverà verso le più alte cime, recando con sé i voti e le speranze dei figli dell'Impero del Sole.
(Renato Gualino)
“Una spedizione archeologica italiana scava nei luoghi dove anticamente vissero i Maya. L'antico "Impero del sole" ha lasciato le sue tracce, notevolissime, ma la spedizione non trascura i contatti con la gente di oggi. Dopo il successo di "Continente perduto" i documentaristi Gras e Craveri esplorano il Perù in un film dall'ottima fotografia e dalla musica suggestiva”.
(FilmTv.it)
A proposito del musicista, Angelo Francesco Lavagnino (Genova 1909 - Gavi 1987): “Pur avendo musicato per Orson Welles, nel 1950, l'Othello (uso anticonvenzionale di un piccolo organico, nonché di un timbro apparentemente poco shakespeariano come quello dei mandolini), si affermò nel filone dei "film di viaggio" una novità per l'Italia degli anni '50, ossia dei film d'esplorazione, per i quali dimostrò originale sensibilità ed intuizione, non elaborando i temi folclorici, né adattando manieristicamente gli strumenti appartenenti alle varie culture musicali, ma recuperando in loco le sonorità e usando tutte le possibilità della tecnologia moderna per "costruire un suono". Il primo titolo "esemplare" di questo periodo della carriera di Lavagnino è Magia verde (1954, di G. Napolitano), dove i paesaggi, le usanze, le cerimonie, le stagioni, le avventure di un viaggio intercontinentale sono sostenute da un'abbondante partitura basata su materiale folclorico originale, registrato dallo stesso compositore nei luoghi delle riprese, ma assorbito e trasformato in un ricco sinfonismo descrittivo. Le stesse caratteristiche si ritrovano in Continente perduto (1955, di Moser, Gras e Craveri, vincitore del "Nastro d'Argento" nel 1955 per la colonna sonora), Tam-Tam Mayumbe (1955, di Napolitano), L'impero del sole (1956, ancora di Gras e Craveri), L'ultimo paradiso (1957, di F. Quilici), La muraglia cinese (1958, di C. Lizzani), Calypso (1959, di F. Rossi e C. Colonna). Siamo, col procedere, alla ripetizione della formula, che si mantiene inalterata anche in film non propriamente esotici, come La grande olimpiade (1961, di R. Marcellini) e Concilio Ecumenico Vaticano II (1962, di A. Petrucci), d'altronde ricchi di musiche sfarzose, misticheggianti, liricizzanti, celebrative. Lavagnino ha lavorato moltissimo su ordinazione, imbastendo commenti anche a film dozzinali, soprattutto affidandosi alla sua tecnica collaudata”.
(Festival Internazionale A. F. Lavagnino - Musica e Cinema)
- Angelo Francesco Lavagnino, Danse du serpent
- Angelo Francesco Lavagnino, Chanson de Lima
- From the Incas to the Uru, Canzone Di Lima
Una poesia al giorno
Amori Notturni, di Giovan Battista Marino, da Poesie varie. Giovan Battista Marino (Napoli, 14 ottobre 1569 - Napoli, 25 marzo 1625) è stato un poeta e scrittore italiano, suddito del Regno di Napoli.
Quando, stanco dal corso, a Teti in seno
per trovar posa e pace,
Febo si corca e ’l dì ne fura e cela,
e nel tranquillo mar, nel ciel sereno
ogni euro, ogni aura tace,
dorme il marino armento e l’onda gela;
allor ch’emula al giorno,
Notte, spiegando intorno
il suo manto gemmato, il mondo vela,
e tant’occhi apre il ciel, quanti ne serra,
vaghi di sonni e di riposo, in terra;
allor Lilla gentil, l’anima mia,
da la gelosa madre
e dal ritroso genitor s’invola:
indi, per chiusa e solitaria via,
di vaghe orme leggiadre
stampa l’arena, e, taciturna e sola
(se non quanto va seco
Amor per l’aer cieco),
mentre pesce non guizza, augel non vola,
rinchiusa in un beato antro m’attende,
antro che da le «fate» il nome prende.
Io, cui lunge da lei grave è la vita,
tosto che ’l ciel s’imbruna,
conosciuto colà drizzo le piante.
Quasi notturno Sol, la via m’addita,
nuda e senz’ombra alcuna,
Cinzia, qual pria s’offerse al caro amante,
e già ferir la miro
da l’argentato giro
di ceruleo splendor l’onda tremante;
e, fatte a mio favor più che mai belle,
spettatrici d’amor veggio le stelle.
Giunto al mio ben, chi potria dir gli spessi,
i lunghi, i molli baci?
i sospir tronchi? i languidi lamenti?
Chi può contar degli amorosi amplessi
le catene tenaci?
gli accesi sguardi? gl’interrotti accenti?
gli atti dolci e furtivi?
gli atti dolci e lascivi?
Tanti sono i diletti, e sì possenti,
che dal cor di per se stessa si divide
l’anima, e innanzi tempo amor m’uccide.
Lentando allor, ma non sciogliendo il laccio,
con la prima dolcezza
temprato alquanto il fervido desio,
languidamente l’un a l’altro in braccio
ce ne stiam vaneggiando, ed ella ed io.
Mentr’io pian pian col manco
a lei stringo il bel fianco,
e con l’altro altra parte ascosa spio,
ella d’ambe le sue, peso non grave,
fa quasi al collo mio giogo soave.
Io narro a lei, favoleggiando intanto,
quando primier mi prese,
e l’ora e ’l punto e la maniera e ’l loco:
poi dico: - E da quel dì ch’amor cotanto
degli occhi tuoi m’accese,
sprezzai (sì dolce n’arsi) ogni altro foco.
Questi il mio ’ncendio fûro,
e per questi ti giuro
che d’ogni altra bellezza mi cal poco.
Crocale il ti può dir; Crocale, figlia
d’Alceo, bench’ella bruna e tu vermiglia.
Questa ognor mi lusinga e prega e chiama,
ma tutto indarno... - Allora
mi risponde colei ch’io stringo e suggo:
- Caro Fileno, e tu non sai se m’ama
e mi segue e m’adora
Tirinto il biondo, se io l’abborro e fuggo?
Quanti doni mi porge,
misero! e non s’accorge
ch’io per te sola... - e vuol seguir: - ... mi struggo; -
ma, mosso dal piacer che ’l cor mi tocca,
le chiudo allor la sua con la mia bocca.
Qui risorto il desio, qual d’arco strale,
ver’ l’ultimo diletto,
sen corre a sciolto fren, carco d’ardore.
Tra noi scherzando e dibattendo l’ale,
l’ignudo pargoletto
fa traboccar d’estrema gioia il core.
Su l’arena a cadere
n’andiam: con qual piacere,
questo mi tacerò, dicalo Amore;
anzi faccial per prova altrui sentire,
ché forse anch’egli Amor nol sapria dire.
Stanco, non sazio, alfine alzo a’ begli occhi
gli occhi tremanti, e poi
da le sue labra il fior de l’alma coglio;
e, mentre il molle sen avien ch’io tocchi,
e vo tra’ pomi suoi
scherzando e mille baci or dono or toglio,
tal, che lasso pareva,
pronto si desta e leva,
ond’io pur di morir dolce m’invoglio;
ma là dove più ingordo altri si sforza,
per soverchio desir manca la forza.
Così mi giaccio, inutil pondo, appresso
a la mia ninfa amata,
che mi deride stupido ed insano.
Per ch’io m’adiro e dico: - O di me stesso
parte vile insensata,
chi più già mai t’aviverà, se ’nvano
sì vezzosa ed amica
più volte s’affatica
di farti risentir la bella mano?
Certo di sasso sei, ma come, ahi lasso!
come sì molle sei, se sei di sasso? -
Ed ecco uscir fuor de le rive estreme
de l’indica pendice
rapido il Sol, da la sua nunzia scorto.
Ella, ch’esser veduta ha scorno e teme,
sospirando mi dice:
- Addio, ben rivedrenne, e fia di corto:
a che tanto affannarte? -
Poi mi bacia e si parte.
Io resto e dico: - Invan per me se’ sorto,
invido Sol, ché questa notte oscura
era a me più che ’l dì lucida e pura! -
Canzon, notturna sei,
notturni i furti miei:
non uscir, prego, al sol, fuggi la luce:
oblio più tosto eterno, ombra profonda
le mie vergogne e i tuoi difetti asconda.
- Immagini: www.raiscuola.rai.it
Un fatto al giorno
9 ottobre 1966: massacro di Binh Tai durante la guerra del Vietnam. Una storia sconosciuta in Italia. Il Bình Tai Massacre è stato un massacro perpetrato dalle forze sudcoreane, il 9 ottobre 1966, di 168 cittadini nel villaggio di Binh Tai nel sud del Vietnam.
- Immagini: Atto barbarico delle milizie coreane durante la guerra del Vietnam
- Forze sudcoreane. Rapimenti di guerra in Vietnam: www.youtube.com
Una frase al giorno
“L'istruzione non è soltanto luce, come dice il proverbio popolare, ma anche libertà. Niente libera l'uomo come il sapere, e la libertà è necessaria come non mai nel campo dell'arte, della poesia: non per niente, anche nel linguaggio ufficiale, si parla di arti "liberali".
(Ivan Sergeevič Turgenev, 1818-1883, scrittore e drammaturgo russo)
Un brano al giorno
Camille Saint-Saëns, Concerto n. 1 in la minore per violoncello e orchestra, op. 33. Leonard Rose, violoncello. Philadelphia Orchestra. Eugene Ormandy direttore. 1967.
Organico: violoncello solista, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi Composizione: novembre 1872. Prima esecuzione: Parigi, Salle de Concert du Conservatoire Nationale de Musique, 19 gennaio 1873.
“Dal punto di vista delle strutture, il Concerto in la minore è caratterizzato sostanzialmente da un unico, grande movimento sinfonico all'interno del quale, però, convivono tre singole sezioni (separate dall'autore da doppia barra di battuta), però combinate tra di loro ordinatamente in tre veri e propri movimenti che rispettano sostanzialmente i canoni della normale forma da concerto. È un'articolazione della forma che riflette quella del Concerto per violoncello di Schumann e del Concerto per violino di Mendelssohn, un modo di procedere informale rispetto ai modelli. Si succedono, così, un primo tempo in forma-sonata, un secondo costituito da un minuetto con trio, un terzo in forma Lied tripartita. Ogni sezione risulta dunque autonoma, ma contemporaneamente - e sta qui la testimonianza della grande arte equilibratrice della forma di Saint-Saëns - permeabile rispetto alle altre e a esse collegata: ad esempio, l'Allegro non troppo iniziale si apre con una prima sezione in forma-sonata, con un'Esposizione, uno Sviluppo e una parziale Ripresa (del secondo tema). La seconda sezione, Allegretto con moto, presenta «regolarmente» i propri nuclei tematici, ma si conclude con l'inaspettata ripresa anche del Tempo I (ovvero l'Allegro non troppo d'apertura); la terza, Un peu moins vite, è un'altra linea di moderata discontinuità rispetto a ciò che precede - con elementi tematici nuovi rispetto a quelli già espressi - ma ancora una volta conclude sorprendentemente il suo arco con il ritorno del primo tempo, tanto che Saint-Saëns sottolinea «Più allegro comme le prèmier mouvement», enfatizzando così il ritorno dell'impetuoso tema che aveva aperto e, di fatto, contrassegnato l'intero concerto. Alla fine l'effetto d'insieme è mirabile: l'opera spicca per il suo classicismo formale e per il suo senso dell'equilibrio perfetto; con i suoi scorrimenti strutturali, con i suoi rimandi, funziona infatti da efficace architettura aperta e permette al compositore di usare tutti i tratti della propria penna d'artista senza perdere in sostanza: è carica di temi vigorosi e di zone d'ombra, di motivi perentori così come di arie d'opera di toccante levità; spicca per la scelta felice della modulazione, per l'uso del tecnicismo non fine a se stesso, per la calibrata alternanza tra solista e gruppo orchestrale, senza che mai l'uno sopravanzi sull'altro. Ogni attore è protagonista di se stesso e getta una luce di assoluto primo piano sulla vicenda narrata senza remore, né pregiudizi. Percepiamo una sostanziale spontaneità nel gesto sonoro e uno stile immediato di rara freschezza.
Se guardiamo al primo movimento, Allegro non troppo, notiamo ad esempio come il violoncello compaia subito insieme all'orchestra nell'enunciazione della linea tematica, irrompendo letteralmente sulla scena con un gesto di plateale, smaccata teatralità: bruschi salti, accenti, tremoli orchestrali, ansanti appoggiature (composte da un inciso caratterizzante il tema e pure della massima importanza per tutta l'opera), volate verso l'alto, improvvisi crolli verticali. Tutto concorre a disegnare una scena carica di pathos e di sentito drammatismo, dove il solista spicca per la sua plastica immediatezza e l'orchestra non sfigura, poiché a sua volta si appropria delle idee del solista e le espone in un unico tessuto connettivo, fatto di dialoghi partecipati e coinvolgenti; e quando il solista riprende il filo del discorso, lo fa per riannodare le fila dell'Esposizione in una ripresa tematica che ora cambia funzione e si trasforma in una deliziosa frase di collegamento. È il segnale per la presentazione del secondo tema, cui però Saint-Saëns pare proprio non voler far prender forma: lo sentiamo infatti solo per pochi istanti, un'oasi lirica appena accennata dal violoncello e poi volutamente lasciata sospesa, come irrisolta. La tinta di fondo è infatti quella dell'inquieto vivere e Saint-Saëns preferisce lasciarsi trascinare dal vortice del primo tema, che torna brevemente ma efficacemente con l'Epilogo, dando poi a sua volta la spinta per il primo, vero episodio tecnico del solista, un turbinoso Animato che infine letteralmente si infrange sull'elegante coda orchestrale di chiusa. Sono dunque bastate poche battute musicali a Saint-Saëns per tratteggiare il suo sgargiante quadro sonoro, uno scenario carico di colori e di impressioni vivide e ficcanti. Tanto che risulta assolutamente una logica conseguenza la costruzione di uno Sviluppo (Tempo I) dove ancora una volta emerge centrale la figura motivica del primo tema, che qui però colpisce per la restituzione sonora che Saint-Saëns ce ne dà: questa volta l'ondulato primo tema è inserito in un grande quadro d'assieme carico di nuove idee e sfumature che s'intersecano l'una nell'altra, mentre l'orchestra appare come un eletto laboratorio della fantasia dove si forgiano sempre nuove impressioni, in uno stile che richiama le grandi parafrasi e fantasie dell'Ottocento strumentale, nello stile rapsodico di Liszt e di Brahms. Il primo tema si è trasfigurato ora in un motivo tzigano, sottoposto com'è a segmentazioni, varianti, spostamenti ritmici che ne mutano i contorni e le impressioni, mentre il tono di fondo è divienuto improvvisamente più solenne, epico. E anche il secondo tema appare trasmutato: questa volta Saint-Saëns non lo lascia «incompiuto», presentandocelo completo in tutto il suo bell'arco. Lo conclude infine nella solinga, pacata frase di violoncello e orchestra in funzione di cerniera melodica: così si stende un commosso silenzio sul quadro appena disegnato...”
(articolo completo in www.flaminioonline.it)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org