“L’amico del popolo”, 9 marzo 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

ANNA (Italia, 1975), regia di Alberto Grifi, Massimo Sarchielli. Sceneggiatura: Massimo Sarchielli, Roland Knauss, Alberto Grifi. Fotografia: Alberto Grifi, Raoul Calabrò, Mario Gianni. Montaggio: Alberto Grifi. Con: Alberto Grifi, Anna, Annabella Miscuglio, Ivano Urban, Jane Fonda, Louis Waldon, Massimo Sarchielli, Pilar Castel, Raoul Calabrò, Roland Knauss, Stefano Cattarossi, Vincenzo Mazza.

“Girato nel 1972 con uno dei primi videoregistratori portatili utilizzati in Italia, il film fu proiettato per la prima volta al Filmstudio di Roma nel 1975 e riscosse un grande successo da parte del pubblico e della critica. Pur essendo un film indipendente, “Anna” ebbe buona eco sui mezzi di comunicazione di massa.
Il film fu portato alla Biennale di Venezia dove ebbe un impatto fortissimo sui critici e dove fu molto esaltato Grifi e Sarchielli, però, ebbero forti contrasti tra loro; il successo del film a Venezia contribuì ad acuire le tensioni, dal momento in cui Grifi fu ritenuto il principale artefice dell'opera e il contributo di Sarchielli venne messo in ombra. Successivamente la pellicola fu presentata anche al Festival di Berlino ed infine al Festival di Cannes 1976 nella sezione L'air du temp.”

“1972. Massimo Sarchielli e Roland Knauss incontrano Anna, una minorenne che si aggira dalle parti di piazza Navona. Sarchielli e Grifi decidono di filmarla, ma i primi tentativi sono privi di reale autenticità. Fino a quando...

Anna chissà dov’è ora, che non è più una minorenne sbandata e incinta che se ne va in giro per piazza Navona, ha i pidocchi e viene presa in casa da Massimo Sarchielli e Roland Knauss, per quella che Alberto Grifi definisce come una scelta metà sceneggiatura metà opera filantropica. Anna è svanita, e non la frequentava più nessuno a partire da Grifi, svanito anch’esso nel silenzio ottundente di una cultura egemonica che ne ha sfruttato la malattia per qualche momento di gala - come l’imbarazzante serata all’Auditorium Parco della Musica quando venne proiettato In viaggio con Patrizia in una versione rabberciata, l’esatto opposto di un “director’s cut”. Non c’è più Anna, ed è rimasto Anna, il film “sperimentale” più famoso del cinema italiano, il caso per eccellenza di un sottobosco che viveva e respirava nonostante il soffocante peso della Cultura, quella con la c maiuscola che agitava la bacchetta nei ministeri e nei salotti di una Roma bene mai svanita, invece. Purtroppo. Tornare a riparlare e a rivedere Anna è un processo obbligato, una tappa indispensabile per dare senso a una rivoluzione, del cinema e dell’immagine, che fu possibile e forse lo è ancora oggi. Una rivoluzione, non una semplice evoluzione, atto gradito alla stessa industria. Anche per questo viene naturale applaudire la scelta de I Mille Occhi, il festival triestino diretto e pensato da Sergio M. Grmek Germani, che in un settembre mai così piovoso e uggioso ha presentato al pubblico giuliano Anna in una copia 16mm; destino forse un po’ bizzarro per un film reso possibile come tale solo dall’esistenza dei primissimi videoregistratori. La copia magnetica che combatte la sua personale guerra contro l’industria, dimostra come il flusso di immagine sia possibile, come la vita possa ancora essere parte del cinema senza stop, ciak, ripetizioni e battute da rivedere e correggere.
Tornare a rivedere Anna, quale che sia la forma che assume di fronte agli occhi (mille anche le versioni, come le rushes infinite che in molti, dalla Cineteca Nazionale al Torino Film Festival, hanno “mandato”), è un gesto di risveglio, spesso inconsapevole. Preoccupante oggetto difficile da maneggiare, sia per il bianco e nero che per la durata - divertente notare come si tratti degli stessi croma e minutaggio di The Woman Who Left di Lav Diaz, che tante controversie ha ingenerato nella stampa e negli addetti ai lavori a Venezia solo un paio di settimane fa -, il film di Grifi e Sarchielli è stato in fretta e furia trasformato in capolavoro da quella stessa intellighenzia che non alzò un sopracciglio quando Grifi fu arrestato, negli anni Sessanta, e nulla fece durante i suoi ultimi anni di vita, prossimi all’indigenza. Ma se Anna è un capolavoro, e ovviamente lo è, non è perché esula dalla norma, o perché ha il coraggio di mostrare una minorenne alle prese con una vita più grande di lei. No. Anna è un capolavoro perché ha il coraggio di detronizzare l’immagine dallo scranno intellettuale che la vorrebbe come elemento definito del quadro. Anna è un film in fieri, in continua negazione di se stesso. Un film che si riappropria di sé nel suo farsi, che riesce a darsi un senso solo quando capisce di doversi distruggere per ripartire.

Quella “metà sceneggiatura metà opera filantropica” altro non era che il senso di colpa malcelato di una borghesia che poteva permettersi il lusso di non considerarsi tale. Una borghesia che si agitava al di sotto dei già citati salotti bene, ma in realtà ambiva a prendere parte al medesimo desco. Una borghesia che è stata tratto peculiare di parte consistente della controcultura italiana, non a caso terminata anche quando si è spento lo spirito belligerante, lasciando posto a una più comoda tranquillità. Quando Vincenzo entra in scena non sposta solo il senso del film, da ritratto di una minorenne in fuga a ritratto di un’umanità in lotta. Quando Vincenzo entra in scena cambia gli equilibri di Anna, rimette in gioco la relazione tra le classi. Anna corre il rischio di essere oggetto in scena, con l’occhio entomologico della videocamera posato addosso; Vincenzo la libera da questo giogo, rivendicando un ruolo non solo a una categoria oscura e sempre in secondo piano (è l’elettricista del film, come informa una didascalia alla sua prima apparizione), ma alla classe reietta. La borghesia ciarliera che ha arricchito ma anche infestato il film nella prima parte, tra discussioni ai bar o in casa di qualcuno, viene ammutolita da un operaio. Un gesto magari retorico - e chissà quanto realmente improvvisato; dettaglio di secondaria importanza, a meno di scambiare ciò che è documento della realtà per cronaca della stessa - diventa la messa in scena di una teoria politica troppo spesso rimasta incollata alla bocca degli Autori.
Il videotape, come la moviola di La verifica incerta, è l’arma per bombardare una prassi che è dello sguardo e prima ancora di chi quello sguardo lo crea, lo codifica, lo blandisce. Il cinema come rivoluzione è sogno, se si eccettuano poche reali eversioni quasi sempre ricondotte in un letto meno burrascoso (su tutti ovviamente Sergej M. Ejzenstein, padre doloroso di un inno all’insubordinazione che venne mozzato dalla scure staliniana), ma un sogno di quando in quando possibile. In una casa romana, con una sedicenne abituata a passare di collegio in collegio e che finirà anche in manicomio, questa rivoluzione avvenne. Buttare all’aria una sceneggiatura didattica non è solo il modo di rifare cinema, ma il tentativo di scardinarlo, di uccidere quell’occhio impietosito che è il rigurgito mostruoso di un’educazione cristiana suo malgrado. La pietà deve essere sostituita dalla simpatia, dalla capacità di soffrire insieme, di essere insieme. Per far ciò è indispensabile che l’impianto piramidale della produzione venga smantellato, e che gli “schiavi” siano resi alla stregua dei poeti. Distruggere il Capitale (le sue fondamenta essenziali, di cui fa parte ovviamente l’idea di auteur al di sopra delle masse) a colpi di videoregistrazioni, con un sonoro ondivago, riprese spesso sfocate non per ghiribizzo artistico ma per necessità o meglio, per casualità.
Se Anna a distanza di quarantuno anni dalle sue prime proiezioni colpisce ancora in profondità non è perché la società italiana è rimasta la stessa, anzi. La verità è che quelle immagini proiettano ancora sulle pareti un sogno di rivoluzione che è l’istinto alla vita, che è la necessità di vivere fuori e dentro la scena. Non di recitare, ma di essere. Non di costruire, ma di testimoniare. Non di insegnare, ma di imparare. È didattica, Anna, ma lo è soprattutto per Grifi e per Sarchielli. Molto prima degli spettatori sono loro a imparare cosa significa fare politica, e quanto sia difficile e a tratti scomodo. Quando Anna telefonerà loro un paio di anni dopo da un manicomio pregandoli di salvarla, riusciranno solo a registrare la telefonata. La vita è cosa ben più difficile dell’arte, e assai più sgradevole. L’arte, se non soffre con la realtà, può trasmettere vita, ma non sarà mai vita.

Spaventoso atto di accusa contro un sistema (quello del cinema e dell’arte) così ramificato da essere cullato e coccolato tanto dal Capitale quanto da chi a parole lo combatteva, Anna travalicò i confini in cui solitamente era reclusa la “sperimentazione” e approdò là dove il cinema come potere si evidenziava con maggior forza, la Mostra di Venezia diretta all’epoca da Giacomo Gambetti. Il film arriverà poi anche a Berlino e Cannes, in un passaggio ai festival principali d’Europa abbastanza inusuale, ma questa è un’altra storia. Al Lido giunge per vedere il film buona parte di chi vi ha preso parte, e tra questi c’è anche Stefano Cattarossi, protagonista di un monologo ubriaco; è alticcio anche quella sera, Stefano, al punto che la polizia lo tiene fuori dalla sala perché “disturba la visione”. Sullo schermo arriva la sequenza che lo vede in scena, e il pubblico ride e applaude. Ma Stefano è fuori dalla sala, bloccato dalle forze dell’ordine. Una volta di più la placidità borghese ha la meglio sulla vita; lo spettatore non partecipa ad Anna, lo sovrasta con il proprio sguardo. Lo spettatore è già oltre Anna, Vincenzo, Stefano e tutti gli altri. L’ha già catalogati, e applaude il fatto che qualcuno li abbia rinchiusi in un film. L’indignazione è l’anticamera della fine di qualsiasi lotta. Gesto rivoluzionario e opera d’arte nel senso più ampio e complessivo del termine, Anna non può però che perdere contro il sistema. Verrà inserito tra i capolavori, ovviamente, ricordato con compiacimento dai critici, anche quelli più a loro agio nel sistema, e tirato fuori all’occorrenza per dimostrare quanto lo sguardo si sia fatto aperto, libero, universale.
Anna fu un’utopia, come gran parte del cinema di Alberto Grifi, che arrivò anche a girare per la Rai film rimasti inevitabilmente invisibili (Michele alla ricerca della felicità e Dinni e la Normalina, ovvero la videopolizia psichiatrica contro i sedicenti nuclei di follìa militante), e la sua potenza ancora oggi così deflagrante deve essere rinchiusa nei musei. Il film lo metterebbero nei manicomi, se fossero ancora aperti e se accogliessero video. Ma non si può. Si è potuto però far sì che di Anna, la sedicenne non il film, si perdessero le tracce, e che Grifi morisse malato e solo, abbandonato al suo destino. Si è potuto far sì che il film venisse studiato e applaudito, come anche Lia, che in qualche modo è il suo gemello, o Transfert per camera verso Virulentia, con l’altro “appestato sociale” Aldo Braibanti; ma mentre questo accadeva quel mondo di cui Grifi faceva parte veniva distrutto pezzo per pezzo, massacrato dalla polizia in piazza, annientato con l’eroina tagliata male e venduta a poco, espulso dal contesto politico, ridotto a memorabilia. Il sistema ha vinto. Ma Anna, questo impossibile e straordinario film anti-film, resiste a suo modo. Non lo si recluda più nei festival, non lo si spacci “solo” per arte. Restituirlo alla vita, che è il suo luogo d’elezione, deve essere l’imperativo di tutti coloro che ancora credono al sogno di un cinema che non si limiti a riprendere la rivoluzione, ma la faccia”.

(Raffaele Meale in quinlan.it)

“Per dare conto dell'esposizione al virus Anna bisognerebbe forse tornare molto indietro, nel 1870, a Zola e Dostoevskij, nelle viscere dell'Ammazzatoio, dove la miseria e la violenza costitutiva dell'ordine dei pochi finiscono per vincere ogni slancio verso la vita, o allo struggimento e al senso di attualità che si prova leggendo per la prima volta La Mite, oppure al presente senza temporalità di Aristakisjan, a quello svegliarsi nel mezzo della vita che è “un salto mortale”. Ma lo splendore di Anna è proprio che come un virus, scopre la pochezza del discorso di fronte alla flagranza di quanto sta accadendo (avevo il blocco degli appunti, ma ho dimenticato di aprirlo. Gli occhi e le orecchie e i sensi erano tutto. Cosa avrei potuto mai scegliere di annotare?). Come nel grido degli attori-performatori di L'impossibilità di recitare Elettra oggi - “fuori dall'inquadratura!” - ciò che accade e muta fuoricampo diventa una questione di vita o di morte, e se non bastasse la sua natura di opera di controcultura di potenza e dimensioni tali da rappresentare le contraddizioni di un'epoca, a rendere Anna più unico, una realtà ancora più nuda arriva a scardinare le stesse convinzioni degli autori. Tutti coloro che lavoravano al film, uniti in un “colossale psicodramma” come ha detto Enzo Ungari, si sono accorti ben presto che anche la semplice presenza di Anna, sedicenne, incinta, fuggita da una quantità di riformatori e celle di sicurezza, stravolgeva tutte le carte in tavola, che nell'immediato il contatto con la sua realtà (quella mostrata, ma anche quella non detta) impediva qualunque sofisticazione artistica; ma non è ancora sufficiente, grida il film. Quella che poteva essere una presa di posizione - filmare la verità, rifiutandosi di riconoscere il potere di qualsiasi autorità, perfino la propria - diventa autodenuncia: le verità filtrano per vie imprevedibili, ci si riconosce una distanza e un'impotenza che ruggisce e scalcia e non si autoassolve mai.
I pidocchi della ragazza che contagiano tutto il set come la sua “fame d'amore, non di pietà”, l'ingresso dell'elettricista Vincenzo, che si investe della portata di quell'amore facendosi anche molto male, poi il suo angoscioso monologo alla fine, traboccano da uno scheletro di film che non ha più senso, fuggono da un tempo troppo stretto, mutano radicalmente l'esperienza mentre viene vissuta e fanno del film anche un devastante viaggio nell'ombra che si allunga dietro a ogni esperienza radicale. In Anna si mostrano non solo la menzogna e l'arroganza dei poteri, il fallimento totale e la perversione di tutte le istituzioni, la benevolenza velata di disprezzo della brava gente seduta ai tavolini del bar; ma si svelano altrettanto, e senza pietà, il fallimento del tentativo di riprodurre nel racconto quell'incontro a Piazza Navona con la ragazzina, le storie di chi ha diviso con lei la strada, a volte la droga o un letto di fortuna ma quasi mai la disperazione, il caos di una generazione che non riesce a smettere di parlare di rivoluzione ma resta schiacciata ai margini; lo smacco di fronte alla mostruosa incombenza del macchinario che si autoperpetra, la definitiva imprendibilità di Anna. E in una manifesta coraggiosa impotenza, se non bastasse tutto il resto, queste quattro ore, in questa visione "dopo fuori orario" in cui quasi si potevano toccare con mano le emozioni di alcuni spettatori molto giovani, sono una tempesta poetica, una fornace, qualcosa che incendia la superficie della pelle prima ancora che l'intelligenza e che difficilmente si può dimenticare.

“Ci sono milioni di Anne nel mondo. Le incontriamo ad ogni passo e nessuno le vede. [...] Alla biennale di Venezia [del '75 ndr] mentre proiettavano Anna, Stefano veniva tenuto fuori dal cinema dalla polizia perché era ubriaco e urlava le stesse cose che dice, da ubriaco, nel film. Nel cinema il pubblico applaudiva la sua immagine mentre lo faceva cacciar fuori dalla sala perché in carne e ossa disturbava. Quegli spettatori impegnati (il cui impegno è quello di essere spettatori) che vanno al cinema per vedere i matti al manicomio (per dimenticare di essere alienati sociali) o carcerati in galera (per dimenticare di essere prigionieri nelle città), non sono molto diversi dai questurini che guardano un film come uno schedario da far coincidere con gli identikit, con il solo interesse di incriminare qualcuno. Applaudendo Anna al cinema e lasciando al manicomio Anna nella realtà, ecco che quegli spettatori finiscono per tramutarsi in questurini”. Da Anna se ne va, Enzo Ungari (Intervista ad Alberto Grifi)”.

(Margherita Palazzo in www.sentieriselvaggi.it)

Il vuoto che alloggia all'interno dell'animo di Anna è un buco nero in grado di risucchiare di fronte alla macchina da presa registi ed elettricisti - l'eterno Vincenzone -. "La sceneggiatura fu abbandonata dopo dieci giorni di lavorazione". Anna sfida il cinema e la sua capacità di filmare la realtà. "La realtà prende il sopravvento su tutto".
"Dopo la fine della lavorazione, Anna abbandonò sia il bambino che Vincenzo e finì in manicomio".

  • Il film: ANNA (1975), Alberto Grifi, Massimo Sarchielli

 

Una poesia al giorno

Canto d’amore per le parole, di Nazik al Mala’ika

Perché abbiamo paura delle parole
quando sono state mani dal palmo rosa,
delicate quando ci accarezzano gentilmente le gote,
e calici di vino rincuorante
sorseggiato, un’estate, da labbra assetate?

Perché abbiamo paura delle parole
quando tra di loro vi sono parole simili a campane invisibili,
la cui eco preannuncia nelle nostre vite agitate
la venuta di un’epoca di alba incantata,
intrisa d’amore e di vita?

Ci siamo assuefatti al silenzio.
Ci siamo paralizzati, temendo che il segreto possa dividere le nostre labbra.
Abbiamo pensato che nelle parole giaceva un folletto invisibile,
rannicchiato, nascosto dalle lettere dalle orecchie del tempo.
Abbiamo incatenato le lettere assetate,
vietando loro di diffondere la notte per noi
come un cuscino, gocciolante di musica, sogni,
e caldi calici.

Perché abbiamo paura delle parole?
Tra di loro ne esistono di incredibile dolcezza
le cui lettere hanno estratto il tepore della speranza da due labbra,
e altre che, esultando di gioia
si sono fatte strada tra la felicità momentanea di due occhi
inebriati.
Parole, poesia, teneramente
hanno accarezzato le nostre gote, suoni
che, assopiti nella loro eco, colorano una frusciante,
segreta passione, un desiderio segreto.

Perché abbiamo paura delle parole?
Se una volta le loro spine ci hanno ferito,
hanno anche avvolto le loro braccia attorno al nostro collo
e diffuso il loro dolce profumo sui nostri desideri.
Se le loro lettere ci hanno trafitto
e il loro viso si è voltato stizzito
ci hanno anche lasciato un liuto in mano
e domani ci inonderanno di vita.
Su, versaci due calici di parole.

Domani ci costruiremo un nido di sogno di parole,
in alto, con l’edera che discende dalle sue lettere.
Nutriremo i suoi germogli con la poesia
e innaffieremo i suoi fiori con le parole.
Costruiremo un terrazzo per la timida rosa
con colonne fatte di parole,
e una stanza fresca inondata di ombra,
protetta da parole.

Abbiamo dedicato la nostra vita come una preghiera
chi pregheremo... se non le parole?

La più intimistica e inquieta “Io”:

La notte mi chiede chi sono
sono il segreto della profonda nera insonnia
sono il suo silenzio ribelle
ho mascherato l’anima di questo silenzio
ho avvolto il cuore di dubbi
immota qui
porgo l’orecchio
e i secoli mi chiedono
chi sono

E il vento chiede chi sono
sono la sua anima inquieta rinnegata dal tempo
come lui sono in nessun luogo
continuiamo a camminare e non c’è fine
continuiamo a passare e non c’è posa
giunti al baratro
lo crediamo il termine della pena
e quello è invece l’infinito

Il destino chiede chi sono
potente come lui piego le epoche
e ridòno loro la vita
creo il passato più remoto
dall’incanto di una vibrante speranza
e lo sotterro ancora
per forgiarmi un nuovo ieri
di un domani gelido

Il sé chiede chi sono
come lui vago, gli occhi fissi nel buio
nulla che mi doni la pace
resto ancora e chiedo, e la risposta
resta nascosta dietro il miraggio
ancora lo credo vicino
al mio raggiungerlo tramonta
dissolto, dispare

Nazik al Mala’ika (Baghdad, 23 agosto 1922 - Il Cairo, 20 giugno 2007), è stata una poetessa irachena. È considerata una delle prime poetesse che introdussero l'uso del verso libero nella rigida struttura poetica araba.

“Sebbene altri poeti prima di lei avessero già tentato il verso libero, è con Nazik al-Mala'ika che il metro della poesia araba viene rivoluzionato secondo un programma ben preciso. Nel 1962 è lei stessa che scrive: "Il movimento della poesia libera ha avuto origine nel 1947, in Iraq. E dall'Iraq, anzi dal cuore di Baghdad, questo movimento ha strisciato estendendosi fino a sommergere l'intero mondo arabo e poi, a causa dell'estremizzazione di quanti vi hanno aderito, ha rischiato di trascinare via con sé tutte le altre forme della nostra poesia araba. E la prima poesia in versi liberi ad essere pubblicata, è stata la mia poesia intitolata Il colera".
Il colera è una poesia ispirata ad un fatto di cronaca: un'epidemia di colera che attraversò l'Egitto e l'Iraq nel 1947. Un intento coraggioso quindi, tenuto anche conto del suo sesso.
Nel 1949 al-Mala'ika pubblica Schegge e cenere, preceduta da una lunga prefazione sulla teoria della metrica della nuova poesia. L'accettazione nel mondo accademico non fu semplice, ma la poetessa non si lasciò intimidire. La poesia di al-Mala'ika non è comunque priva di metro, anzi fa preciso riferimento a sedici metri della tradizione classica araba, è quindi più corretto parlare di verso libero e non di verso sciolto.

L'attenzione della poetessa al metro è strettamente coniugata al suo amore per la scrittura, per la parola in sé come elemento magico:
Domani ci costruiremo un nido di sogno di parole, | in alto, con l'edera che discende dalle sue lettere. | Nutriremo i suoi germogli con la poesia | e innaffieremo i suoi fiori con le parole.

Altra tematica importante è quella della condizione femminile nel mondo arabo. La poetessa scrisse anche alcuni saggi, come Donne fra due estremi: passività e scelta etica, del 1954. In una delle sue più note poesie, "Orazione funebre per una donna insignificante", così si esprime:
La notizia si è dissolta nei vicoli | senza che il suo eco si diffondesse | e si è rifugiata nell'oblio di alcune fosse | la luna ha pianto questa tragedia”.

 

Un fatto al giorno

9 marzo 1842: è trionfo al Teatro alla Scala di Milano per la prima rappresentazione de Il Nabucco di Giuseppe Verdi (Le Roncole, 10 ottobre 1813 - Milano, 27 gennaio 1901). Quest'opera è considerata la più risorgimentale del grande compositore, poiché confronta la condizione dei lombardo-veneti, sottoposti al domino austrico, con quella degli ebrei sotto il dominio babilonese. Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 9 marzo 1842. Interpreti: Giuseppina Strepponi (Abigaille), Bellinzaghi (Fenena), Miraglia (Ismaele), Giorgio Ronconi (Nabuccodonosor), Prosper Dèrivis (Zaccaria).

“Terza opera di Verdi, si chiamava inizialmente Nabuccodonosor; il titolo fu abbreviato per un'esecuzione tenuta a Corfù nel 1844. È un'opera d'importanza vitale per il musicista; infatti, amareggiato dai lutti personali e dal grave insuccesso di Un giorno di regno, Verdi aveva deciso di non scrivere più per le scene quando l'impresario Merelli gli sottopose il libretto del Nabuccodonosor. Verdi lo scorse appena, e leggendo Va, pensiero pensò alla situazione dell'Italia occupata e alla possibilità di realizzare un'opera velatamente patriottica. Non c'è dubbio che il successo dell'opera fu dovuto anche a motivi strettamente politici: in quattro mesi, ebbe ben 57 rappresentazioni. Per Verdi fu anche l'occasione del primo incontro con Giuseppina Strepponi, che doveva, di lì a qualche anno, abbandonare il canto. L'avrebbe poi ritrovata, insegnante di lirica, a Parigi; e diciassette anni dopo il Nabucco, l'avrebbe sposata. Il rapporto con il Merelli stava diventando impossibile: non solo l'impresario lo sfruttava, imponendogli di lavorare giorno e notte e - come poi Ricordi avrebbe potuto documentare - truffandolo nei compensi, ma si stava diffondendo la voce che si trattasse di una spia austriaca”.

Documenti: www.poliuisp.it

Immagini: Giuseppe Verdi. L'Italia al tempo del "Nabucco"

Opera di Verdi: "Nabucco". Direttore d'orchestra: Thomas Schippers, 1960 

Nabucco: Cornell MacNeil
Abigaille: Leonie Rysanek
Ismaele: Eugenio Fernandi
Zaccaria: Cesare Siepi
Fenena: Rosalind Elias
Anna: Carlotta Ordassy
Il Gran Sacerdote: Bonaldo Giaiotti
Abdallo: Paul Franke

Orchestra e Coro del Metropolitan Opera House. New York, 3 dicembre 1960

 

Una frase al giorno

“Stalin pensava che la prima guerra mondiale aveva strappato una nazione alla schiavitù capitalista, la seconda aveva creato il sistema socialista e la terza avrebbe annientato una volta per tutte il capitalismo”.

(Vjačeslav Michajlovič Molotov, Kukarka, 9 marzo 1890 - Mosca, 8 novembre 1986. È stato un politico, diplomatico e rivoluzionario sovietico).

“Nato come Vjačeslav Michajlovič Skrjabin e datosi in seguito il nome da battaglia di Molotov, fu l'unico tra i principali rivoluzionari bolscevichi a sopravvivere alle Grandi purghe staliniane degli anni Trenta. Attivo nella diplomazia sovietica a cavallo delle due guerre come ministro degli esteri dell'URSS, rimane famoso per l'accordo con la Germania nazista noto come Patto Molotov-Ribbentrop (dal nome del suo co-firmatario, il ministro tedesco Joachim von Ribbentrop) e, in seguito, per il ruolo svolto nei negoziati di Jalta con Regno Unito e Stati Uniti d'America e nella successiva formazione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite”.
(Wikipedia)

Immagini:

 

Un brano musicale al giorno

Jelly d'Arányi (violino), Ethel Hobday (piano) interpretano “Two Morceaux” Op. 6 - No. 2 Scherzando, di Martin Pierre Marsick, febbraio 1925.

«Martin Pierre Joseph Marsick (Jupille-sur-Meuse, 9 marzo 1847 - Parigi, 21 ottobre 1924), fu un violinista belga, compositore e insegnante. Il suo violino fu realizzato da Antonio Stradivari nel 1705 e da allora divenne noto come Ex Marsick Stradivarius. E’ stato lo strumento di David Oistrakh dal 1966 al 1974. Dal 1892 fino al 1900, fu professore al Conservatorio di Parigi. Nel 1900, abbandonò sua moglie Berthe Marsick e i suoi allievi e fuggì all'estero con una donna sposata. Sebbene la donna in seguito si riunì a suo marito e Marsick tornò a Parigi nel 1903, la sua carriera professionale non si riprese mai dallo scandalo e morì in povertà.»

(Wikipedia)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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