Islanda, il respiro della Terra

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Dal 27 agosto al 7 settembre 2012 - Alla deriva, sul limitare del Circolo Polare Artico, c’è un’isola splendida che custodisce alcune tra le più spettacolari meraviglie naturali del mondo. Qui le più grandi cascate d’Europa si gettano con tale forza da far tremare la terra sotto i piedi, altopiani desolati formano il più vasto deserto europeo e la maestosa calotta glaciale del Vatnajokull è la più estesa dopo quella dei poli.

Inoltre, ci sono vulcani quiescenti, ghiacciai in lento ma costante movimento, neri campi di lava, geyser sbuffanti, pozze di fango ribollenti, rilassanti piscine termali. Un grande concentrato di natura allo stato puro, dove il quotidiano contatto con i quattro elementi fondamentali, l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco che si amalgamano e nel contempo si fronteggiano in una continua lotta, ci restituirà quel senso di appartenenza allo stato naturale che non abbiamo mai provato prima d’ora.

L’Islanda infatti attira per la sua sincerità, per la mancanza di vie di mezzo, di compromessi tra l’uomo e la natura, dove tutto ha un senso e niente è banale.

Andando più nel profondo ci sentiamo di dire che l’Islanda è ciò che tutti noi abbiamo saputo incredibilmente e stupidamente dimenticare: l’assoluto e la sua anima. Qui la natura non è mediata, non ci sono scappatoie, scorciatoie, filtri. Tutto è come appare. Nel bene e nel male. Nella bellezza e nell’imponenza delle distese dei ghiacciai come nelle esplosioni vulcaniche, minacce continue e costanti alla vita, di tutti.

Già l’atterraggio sul nero suolo di lava, ruvido e incatramato, non lascia spazio a dubbi. Arriviamo in un posto unico al mondo, ma che c’era, milioni di anni fa anche qui da noi, e che lì invece è ora, adesso. Una sorta di viaggio all’indietro nel tempo, che ci restituirà, nei lunghi e pienissimi giorni di permanenza, la consapevolezza del punto di partenza, dell’origine.

Nel nostro itinerario ad anello abbiamo percorso sostanzialmente tutta la Statale n. 1, la strada principale che per quasi tutta l’isola segue la linea di costa, quella insomma che si rivelerà essere l’unica certezza asfaltata in un mare di piste, di sterrati, di sentieri, di strade secondarie. La n. 1, inseparabile come la moneta di zio Paperone, la imbocchiamo il giorno dopo essere atterrati a Keflavik, l’aeroporto internazionale che dista 45 km da Reykiavik. Noi non vediamo l’ora di trovarci fuori dalla città, lontani dal mondo, immersi nel verde e nel silenzio. E così sarà, già dopo pochi minuti dal ritiro della nostra Suzuki all’autonoleggio. Finisce quasi subito il distretto della capitale, con i suoi circa 150.000 abitanti che non sono altro che l’esatta metà di tutti gli islandesi, disseminati, è proprio il caso di dirlo, su una superficie grande più o meno come un terzo dell’Italia, ma con ben altra densità demografica.

Il nostro itinerario prevede il periplo dell’isola in senso antiorario, quindi prima viaggeremo nel sud, che, a differenza di quanto si possa immaginare, è la zona più umida e fredda, soggetta a fortissimi venti e a mareggiate, a nevicate e a tutto ciò che l’inverno artico sa e può offrire. Il nord invece, costantemente battuto dalla corrente del Golfo, nonostante sia vicinissimo al circolo polare artico, è più secco e le temperature, anche d’inverno, difficilmente sono inferiori a quelle di New York, di Zurigo o di Fusine. Seguendo il percorso antiorario il primo giorno di viaggio lo abbiamo dedicato a quello che viene chiamato il Circolo d’Oro, un anello fattibilissimo in giornata, che racchiude tre tra le più grandi attrazioni naturalistiche e storiche d’Islanda: il Parco di Pingvellir, Geysir e la cascata Gulfoss.

Nikulasargja rift, Parco di PingvellirIl Parco di Pingvellir ci appare come un piccolo paradiso terrestre, incastonato tra le acque quiete dell’omonimo lago, i verdi promontori che frastagliano le sue rive, l’infinito tappeto di erba e muschio che attraversiamo e qualche piccola betulla nana, piegata dal vento, uno dei pochi esempi di albero ancora presente sul suolo islandese, sopravvissuta alle ondate distruttrici dei terremoti e delle colate laviche prima, della deforestazione dell’uomo poi. La vera attrazione del parco è però un’enorme spaccatura nel suolo che corrisponde al prolungamento terrestre di quella che viene chiamata la dorsale di Reykjanes: è proprio in questa spaccatura, dove io e Francesca, incuranti dei divieti e della pericolosità (più immaginaria che reale), ci ritroviamo a fare scorpacciate di mirtilli e pennichelle su massi lavici ricoperti di muschio morbidissimo; proprio qui si è compiuto milioni di anni fa il distacco tra l’Eurasia e l’America. Sostanzialmente, a sinistra siamo sul continente nord-americano, a destra su quello euroasiatico. Ci camminiamo nel mezzo, come frastornati apolidi che, tra il sole fortissimo e il cielo di un blu speciale, non si rendono ancora bene conto di dove sono.

Mai vedremo America ed Europa così vicine. Eppure, pensiamo, lo sono state non solo milioni di anni fa, ma anche durante le scorribande vichinghe, che partivano dall’Islanda e arrivavano sulle coste canadesi e americane, in pochi giorni di navigazione. Allora il legame fra questi due continenti che prima si sono congiunti e poi si sono divisi era molto più forte di quanto possiamo pensare.

A dimostrazione del fatto che questo posto è speciale ci soffermiamo per un po’ davanti all’Alping, una zona ben delimitata tra questa fenditura e i prati che le stanno attorno, che fu sede, per molti secoli, del primo Parlamento islandese, riunitosi la prima volta nell’930 d.C.: in realtà, dalle tabelle che ce ne spiegano la storia, inizialmente era una sorta di riunione di varie tribù,istituita per dirimere varie questioni, dalla divisione e assegnazione delle terre, alle vendite di bestiame, alle questioni di vicinanza o di matrimonio.

Sta di fatto che a tutt’oggi questo è il luogo simbolo dell’indipendenza del popolo islandese dalla Corona di Danimarca: una Repubblica proclamata qui, e non in qualche pomposo palazzo della capitale, in un freddo giugno del 1944. Un ponticello di legno, una bandiera, una chiesetta: tutto quello di cui ha bisogno questo semplice popolo per identificarsi in qualcosa di così importante.

Geyser StokkurDa Pingvellir, in poco più di un’oretta di macchina, raggiungiamo Geysir. Siamo nella zona dei geyser, lungo una delle due fenditure che attraversano l’Islanda e creano sorprendenti manifestazioni naturali, di cui questa ne è un esempio più che lampante. Su queste due fenditure troveremo a sud i geyser, a nord buchi e fessure della crosta terrestre da cui escono, con alterne vicende, fiotti, vapori, schizzi, bolle e fumi: una terra che respira, che starnutisce, che tossisce, che diverte ma allo stesso tempo impaurisce. Qui, di fronte a Stokkur, ci troviamo come degli spettatori in attesa dell’inizio di una rappresentazione: la promessa sarà mantenuta, la certezza che l’attesa ripaga dà una felicità incomparabile. Infatti questo grande geysir esplode circa ogni sei minuti. Ci troviamo tutti in cerchio davanti ad un semplice buco, come in un girotondo in cui uomini donne e bambini si trovano riuniti, tutti curiosi, divertiti, esaltati. Dallo stato di quiete un borbottio sordo crea e gonfia un gigantesco bubbone sulla superficie della terra, che come una semisfera si arrotonda, diventa palla di cristallo, una sorta di medusa artica, matura dentro di sé una creatura che pare antropomorfa facendola schizzare in aria per una decina di metri, a volte di più, a volte di meno. Poi tutto ritorna alla normalità, l’acqua sputata dalla terra viene riassorbita e noi, inebetiti e fanciulli, chiediamo sorridenti solo di rimanere lì ancora una volta, a rivedere quella sorta di messaggio dal centro della terra che ci viene consegnato in maniera così spettacolare.

Se però la forza di Stokkur è in ciò che sta sotto la terra, che non si vede, se non alla fine, la potenza di Gullfoss, la cascata più spettacolare d’Europa, è invece in ciò che subito appare. Un doppio salto di 32 metri crea una fenditura larga 70 metri e lunga circa 2500. L’imponenza di Gullfoss, l’ultima tappa dell’anello odierno, ci lascia allibiti, l’odore dell’acqua ci raggiunge fino al punto in cui abbiamo parcheggiato la macchina, il frastuono diventa sempre più forte mano a mano che ci avviciniamo. Sostiamo un attimo sul belvedere: da qui lo sguardo spazia sul corso del fiume Hvità che partorisce la cascata , facendoci indovinare tra gli spruzzi e gli schizzi il taglio della crosta terrestre in cui si incunea questo mare che, precipitando molto più sotto, letteralmente atterra tra due anse altissime, calmandosi poco più giù. Scendiamo una ripida scalinata che ci porta ad un terrazzo in cui al posto delle solite ringhiere ci sono invece ondate d’acqua, vapore e rumore. L’acqua ci attira, ci arriva incontro, ci scarta e ci supera, calandosi in una sorta di enorme catino prima di precipitare. A vederci da lontano, di fronte a questa immensità, sembriamo proprio dei piccoli burattini, con le nostre giacche a vento colorate, impotenti di fronte a tanta sproporzione.

Cascata GulfossPer raggiungere i nostri personalissimi musei a cielo aperto, le nostre gallerie d’arte naturale, le nostre cattedrali nel deserto come fossimo a visitare una città, percorriamo chilometri e chilometri di nulla, nel sud, tra le cittadine di Vik e Hofn. Ci fanno compagnia distese di lava, campi coltivati a foraggio per le numerose pecore e cavalli che affondano le zampe nella torba e che animano gli altrimenti immobili orizzonti, cascate meno significative ma non meno belle, lingue di ghiacciaio che ci fanno capolino dappertutto, come bambini che giocano a nascondino, ma che vogliono comunque essere visti.

Sulla numero 1 si incontra davvero di tutto, tranne le macchine. Lasciamo passare su ipotetiche strisce pedonali una famiglia di renne dopo aver appena superato impavidi ciclisti che squassati dal vento arrancano sui saliscendi vulcanici, coperti da colorate tele cerate e con carichi inverosimili.

Disturbiamo nel nostro girovagare intere colonie di cigni, che più che proteggersi dal vento (dal quale, almeno al sud, è impossibile proteggersi) sembrano riposarsi per l’ultima volta prima dell’ennesima migrazione. Costeggiamo un mare minaccioso, un oceano incattivito e scuro, scuro come le nere spiagge su cui spaventosamente si infrange.

Attraversiamo così, giorno dopo giorno, il più grande e vario museo open air di pittura naturalistica e paesaggistica al mondo. Nell’arco di chilometri vediamo marine, squarci collinari, ancora cascate, montagne dalle cime ispide e aguzze o morbide e ammantate di verde, ma anche vette innevate, molte delle quali fumanti, e subito dopo barche e isole all’orizzonte. Spesso rallentiamo, ci fermiamo, ci godiamo quest’armonia stupefacente dove ogni colore è al posto giusto, dove le linee, in modo imprevedibile, si intersecano creando effetti prospettici degni dei migliori pittori del Rinascimento.

SandurPercorriamo affascinati enormi distese sabbiose in cui la strada, l’unica, è il limes che separa le migliaia di chilometri cubi di colate laviche e di eruzioni sulla sinistra, e le migliaia di chilometri quadrati di detriti sabbiosi e melmosi, acquitrinosi e mobili, a destra e che creano un unicum con il mare, che sembra vicino ma in realtà non lo è quasi mai. E’ questo il sandur, un fenomeno tipico del sud dell’isola per cui la lava, esplosa, sparata a centinaia di metri di distanza, caduta e infine spiaggiata dà vita a un tipico deserto costiero, formato contemporaneamente anche da materiali erosi trasportati a valle da ghiacciai svegli e in movimento. Un deserto chiaroscuro e piattissimo, uno spettacolo di proporzioni gigantesche.

Una meraviglia ai nostri occhi è anche quella che ci si svela nel Parco dello Skaftafell. Qui, tra muschi argentei ed eriche coloratissime, tra eruzioni laviche e betulle nane, tra sentieri che si perdono nel nulla e un cielo brillante arriviamo, parcheggiamo la nostra auto e decidiamo di incamminarci su uno dei numerosi percorsi che ci porteranno fino quasi a toccare una lingua di ghiacciaio affacciata su un laghetto.

Camminiamo sotto un sole caldo e un vento freddo, attraversando una distesa lavica che non è solo deserto, non è solo morte, non è solo nero, ma nasconde al suo interno delle preziose forme di vita, colorate e minuscole piantine che stoicamente e orgogliosamente crescono e resistono come volontari di una legione straniera in una terra desertica e inospitale. La loro presenza qui ha un significato potente, ci fa subito pensare agli abitanti di questa terra, con le loro casette colorate che sembrano da lontano di legno ma in realtà sono di lamiera, pronte per essere smantellate e trasferite in altro luogo alla prima minaccia di eruzione. Avamposti più simbolici che necessari, in una terra in cui tutto è precario e se non è qui, adesso, sarà al nord o all’ovest, domani.

Arriviamo abbastanza vicini al ghiaccio, che in realtà avremmo voluto toccare, per capire che le distanze non sono però ciò che sembrano, per afferrare una sacrosanta verità: non tutto si può fare, esplorare, conoscere. Avvertiamo lo strano effetto ottico della lingua del ghiacciaio che invece di venirci incontro si ritira, più lontana, quasi imbarazzata per il possibile contatto fisico. Ci accontentiamo di arrivare fino al bordo dell’acqua e di raccogliere uno fra i mille frammenti che animano di luce riflessa, impreziosendolo, questo acquitrino, che diventa una gioielleria all’aperto di rara bellezza.

Il vero spettacolo però, quello che ti toglie il fiato, ti fa trattenere il respiro, ti travolge per la sua improvvisa e inaspettata maestosità lo troviamo al nostro terzo giorno di viaggio, quando, dopo la traversata dell’ennesimo sandur, ci imbattiamo, è proprio il caso di dirlo, nella laguna glaciale di Jokursarlon. Questo senza ombra di dubbio è il posto più magico che abbiamo visto in Islanda. Qui ci siamo veramente sentiti al Nord e lontani da qualsiasi punto di riferimento riconoscibile e per noi decifrabile. Questa laguna, collegata tramite una striscia d’acqua con il mare aperto, non è nient’altro che un bacino creatosi quando il ghiacciaio che ci sta di fronte ha sciolto parte dei suoi ghiacci in una conca di 17 chilometri quadrati che ha circa 600 metri di profondità. Come tutte le lagune è vicinissima al mare, da cui la separa l’ormai inseparabile n. 1, costantemente messa in pericolo dalle sue modificazioni e sommovimenti.

Aurora boreale nella laguna di JokulsarlonIl vento porta le onde del mare in tempesta alla laguna, che si innalza e minaccia di straripare. Lo stesso ghiacciaio, muovendosi e arrivando a contatto con l’acqua, si spezza e si spacca. Si staccano così dalla sua lingua queste immense masse di ghiaccio. Dimentichiamo subito le lagune a cui siamo abituati: questa è scura, fredda, senza vegetazione, abitata da iceberg. Ci arriviamo di sera, un’aria gelida ci spezza le gambe ma non la sentiamo. Tutto, nonostante il rumore del vento, sembra ovattato. La temperatura è polare, il ghiaccio dalle poliformi architetture si colora d’azzurro e si annerisce di lava. Le fasce nere al braccio gli iceberg le hanno perché la lava è entrata negli interstizi, le strisce color turchese perché la luce li colpisce con una certa angolazione e il bianco folgorante ne riporta invece l’originaria natura. L’acqua, a volte immobile, a volte mossa dal vento, passa dalle sfumature del grigio chiaro fino al nero, mentre gli iceberg che vi stazionano sopra come navi in rada in realtà si muovono lentamente, ondeggiano, cercano lo sbocco sul mare, la loro libertà ma anche la loro fine. Se andrà bene ci metteranno circa 5 anni per uscire in mare aperto… Non sappiamo se abbiamo visitato un favoloso scherzo della natura, un elegante gioco prospettico o un particolarissimo ologramma. Sta di fatto che le sorprese non sono finite. Risaliamo in macchina pronti per ripartire e veniamo letteralmente folgorati dalla vista dell’oceano che, sembra con la forza della disperazione, riporta faticosamente a riva tutta gli iceberg che, fuoriusciti dalla laguna, hanno appena guadagnato il mare aperto. Scendiamo verso la spiaggia, nera, luccicante per le migliaia di Swarowski che sono stati brutalmente riportati a riva e rimodellati. Aria, acqua e terra: ci sentiamo euforici, gelidi, increduli rispetto a tutte queste stranezze, noi abituati a vedere riportati a riva qualche ramo d’albero e qualche bottiglia di plastica, non ci capacitiamo di questo fenomeno. Il vento, se possibile, è ancora più forte; le onde sono impetuose, impietose, a lungo andare avranno la meglio e frantumeranno tutto. Ma intanto noi ci esaltiamo nello stare a guardare questo strano fenomeno, l’acqua liquida che lotta contro l’acqua solida. E su tutto un tramonto artico, grigio e giallo, che ci commuove l’anima, che a suo modo, in tutto questo gelo, ci riscalda.

La mattina dopo partiamo, costeggiando il mare, per quella zona dell’Islanda che va sotto il nome di “Fiordi dell’est”. Credo che in questa lunga giornata, fino all’arrivo nella città di Eggilsstaddir, inespressivo capoluogo dell’Islanda orientale, avremo incrociato un numero di macchine che si contano sulle dita di due mani.

VatnajokullNel contempo abbiamo incontrato la neve, dopo aver scelto come compagno di viaggio il mare a destra e il Vatnajokull a sinistra: è il ghiacciaio più grande al mondo, dopo il polo nord e il polo sud, è grande come l’Umbria e copre circa un quinto della superficie dell’isola. Questo ghiacciaio e l’unico, vero, grande abitante di questa terra. Le sue lingue scendono dall’alto verso il mare come enormi zampe di un rapace, che afferrano saldamente le pianure costiere. Il tratto di strada dalle ultime estensioni dei fiordi verso l’interno lo facciamo percorrendo un altipiano avvolto dalla nebbia e dalla pioggia diretti verso Seydisfiordur, l’unico porto in cui attraccano i traghetti che dalla Danimarca, via Far Oer, arrivano sull’isola.

Il tragitto non è agevole, il tempo è pessimo. E infatti, dal niente, ci ritroviamo su l’ennesimo altipiano in cui è appena iniziato a nevicare. La vista è interrotta: non siamo abituati, dopo giorni in cui l’infinito è stato il nostro panorama costante. Ci appare un lago come in un miraggio e ci fermiamo, nel silenzio della desolazione, della neve. Lasciamo la macchina e ci incamminiamo, seppur per poco, in questo nulla fatto di muschio gelato, di fiocchi appoggiati delicatamente sul terreno ghiacciato come ornamenti su di una torta, su rigagnoli che specchiano i colori tenui da cui siamo circondati. E pensiamo che fortunatamente il tempo è brutto, altrimenti questo momento così intimo e silenzioso non l’avremmo mai vissuto.

Il tempo continua ad essere brutto anche il giorno dopo, in cui un cielo di umore pessimo e una decisa nevicata ci sorprendono mentre attraversiamo le alte terre che da est ci portano verso nord, verso l’etereo lago Myvatn, gli pseudocrateri dal fascino ultraterreno e gli spettrali castelli di lava dei dintorni. La strada, ghiacciata, ci guida dritti dritti alle porte dell’inferno, perché i prossimi due giorni potremo proprio definirli “i giorni del fuoco”.

Dal bianco candore della nevicata appena cessata siamo catapultati in tutt’altri colori: sono le ocre, i marroni, le terre di Siena e i rossi mattone che ci danno una sorta di benvenuto a Hverir in cui, nel bel mezzo di un paesaggio lunare, fanno la loro comparsa pozze di fango ribollenti, soffioni simili a pentole a pressione, depositi sulfurei, fumarole turbolente. Il tutto accompagnato da poco simpatici miasmi di zolfo che, complice il forte vento che cambia sempre direzione, prima o poi ti colpiscono con il loro odore e il loro improvviso calore, in qualsiasi posizione tu sia, avvolgendoti come in un allucinante aerosol semi-curativo.

Qui il fuoco c’è, ma non si vede. C’è stato, e si vede benissimo. Lo si vede ancora meglio a pochi chilometri da qui, a Krafla, una regione vulcanica attivissima (noteremo in più di un’occasione in Islanda seri e precisissimi geologi che con le loro strumentazioni a tracolla giornalmente effettuano misurazioni sulla terra, sui vapori, sulle pozze, tranquillizzando così, con la loro sola presenza, i turisti incerti sull’idea di proseguire).

La cosa stupefacente di questo posto è che il vulcano sul quale stiamo camminando non è il classico vulcano dalla forma conica, ma consiste in una spaccatura longitudinale del terreno sotto la quale sorge un enorme giacimento magmatico. Leggiamo che il terreno nella zona si sta piano piano alzando, ma nessun pericolo pare imminente e quindi, con una buona dose di curiosità, partiamo alla scoperta di ciò che abbiamo sotto i piedi, facendo assolutamente attenzione a non lasciare i camminamenti e le passerelle che ci segnano il percorso.

Raggiungiamo così in poco più di dieci minuti una serie di solfatare che risalgono più o meno, nella loro versione definitiva, al 18° secolo: l’originario cratere iniziò la sua attività prima con una fontana di lava, eruttando materiale fuso per due anni di seguito, poi, una ventina di anni dopo, un’altra eruzione di minore intensità fece sì che il paesaggio si trasformasse in una distesa di fango incrostato, che è quella che ancor oggi si vede. Ci accorgiamo da noi che la crosta terrestre qui è particolarmente sottile: il suolo, a toccarlo con le mani, è caldo, fuma. In realtà tutto intorno a noi fuma, fuma la terra, fumano le pozze di fango e zolfo, fumano le pietre. Ci ritroviamo da soli in mezzo a questa strana caldera, tutto attorno è grigio e nero, non c’è anima viva. Proprio una di queste eruzioni, nella seconda metà del Settecento, durata ben due anni, diede fiato a una nube che oscurò a lungo i cieli dell’Europa del Nord, compromettendo interi raccolti e causando così il deciso malcontento delle classi contadine, soprattutto francesi, all’alba della Rivoluzione.

Ci chiediamo in tutto questo silenzio, interrotto solo dal respiro affannoso e tisico di una terra che è come se volesse dirci qualcosa, se la natura che abbiamo visto al sud, così ricca e stupefacente, non sia diventata avara e nemica. E ripensiamo a Giacomo Leopardi, che in una delle sue prose forse più riuscite fa proprio dialogare la Natura con un povero islandese, che dovunque vada, ovunque si sposti, si sente pesantemente oppresso senza colpa dagli eventi.

Geyser La fama di luogo ostile e inospitale arriva da lontano… Ma è la stessa Islanda o ce ne sono diverse, a seconda delle regioni, degli umori, dei pensieri, del clima? Nemmeno a farlo apposta dopo pochi minuti ci ritroviamo sul bordo di un cratere, del tutto diverso e a noi più familiare, che racchiude una scintillante pozza d’acqua: il suo colore turchese, il bianco cristallino della neve, il blu cobalto del cielo ci restituiscono la pace interiore e i pensieri, di qualsiasi genere essi siano, sfumano tra le vette innevate sulla linea dell’orizzonte.

La pace del corpo invece la troviamo immersi in una piscina geotermale di colore azzurro latteo, incastonata in un frastagliatissimo campo di lava nera, e alimentata da una sorgente d’acqua a 40°. L’ambiente attorno, con i suoi fumi e le sue nuvole di vapore, è surreale, quasi onirico. Ci ricorda vagamente 8 e ½ di Fellini: come nella scena iniziale del film, anche qui le persone in ammollo fanno la coda verso una fonte di eterna giovinezza, rappresentata da un recipiente che contiene fango di silice bianco-azzurrino, che viene spalmato sul viso e sul corpo. Questa sorta di bagnomaria, nell’acqua riscaldata ricchissima di sali minerali e di alghe blu-verdi, ci tonifica e ci esfolia. E dopo due ore la nostra pelle ne esce levigata e le tensioni muscolari sono sciolte.

Il giorno dopo, rinvigoriti e riposati, passiamo la giornata, intensissima, tra le naturali bellezze del Lago Myvatn. Si potrebbe parlare per ore dell’origine di questo lago dalla bellezza aspra e ultraterrena: basta dire che si trova sulla linea della dorsale medio-atlantica per far capire quanto sia importante geologicamente questa regione. Le cose da fare, da vedere, da visitare sono moltissime e spendere qui due giorni è il minimo. Tra le varie “attrazioni” due ci colpiscono più di altre, durante le varie passeggiate di perlustrazione: gli pseudocrateri e i così detti klasar. I primi non sono altro che spettacolari buche formate dalla lava fusa fluita nel lago, che ha innescato una serie di esplosioni gassose. Quando l’acqua, intrappolata sotto la superficie, ha raggiunto la temperatura di ebollizione ha fatto esplodere la crosta terrestre, formando così piccoli coni di scorie. All’interno del lago invece, dove io e Francesca ci attardiamo in una meravigliosa passeggiata tra isolette, acqua limpida e cristallina, grotte e vegetazione fitta, si notano solitari e bubbonici pilastri di lava, i klasar appunto, piccole e medie formazioni laviche che a contatto con il ghiaccio, si sono solidificate e si presentano ai nostri occhi come strane tumefazioni, quasi incomprensibili in una terra così sana.

Lasciamo così questo lago, con la sua vegetazione e il suo clima mite, con le sue acque e i suoi acquerelli, per fiondarci verso nord, verso Husavik, piccolo porticciolo sulle sponde dello Stretto di Danimarca, che ci separa dalla non lontanissima Groenlandia.

La lunga pista sterrata che ci guida, linea retta in un campo lavico di un’ottantina di chilometri, ci fa capire quanto devastante può essere un’esplosione vulcanica. Qui non c’è niente, da secoli. Tutto è morto. L’unica cosa che si muove, sulla linea dell’orizzonte, è l’Oceano. Le montagne imbiancate dalla nevicata del giorno prima fanno da cornice al punto più vicino al circolo polare artico che andremo a visitare. La linea di costa è frastagliata, le scogliere sono imponenti e altissime, il vento come sempre non ci dà tregua. Ma scendiamo comunque dalla macchina e percorriamo un sentiero appena accennato, nell’erba soffice, che ci porterà diretti verso il nulla: finisce a picco sul mare. Che sia questo il nostro personalissimo finis terrae? Che sia proprio qui che le nostre tensioni emotive devono lasciare spazio all’odore di salsedine e alla pace interiore? Che sia qui che capiamo veramente, in modo così delicato, che la fine in realtà porta sempre ad un nuovo inizio, qui ben rappresentato da quella distesa di mare aperto che ci troviamo di fronte e che in realtà non ha fine? Ci sentiamo piccoli di fronte ad una così imponente vastità, e decidiamo, soddisfatti come se la vera meta del viaggio fosse stata così inaspettatamente raggiunta, di proseguire.

Cascata DettifossRaggiungeremo Dettifoss, una cascata spettrale. Per arrivarci percorriamo un tratto di strada segnata a sinistra da una lunghissima striscia di sabbia scura, che degrada lentamente verso il mare. Il liquido argenteo che osserviamo baluginare da lontano per qualche misero raggio di sole in realtà è la spiaggia detritica di un delta, immenso. Le colorate alghe che lo ravvivano sono qui a dimostrazione che l’equilibrio cromatico deve sempre essere rispettato. Una piccola sosta prima di risalire l’impervio percorso sterrato che, per una via secondaria, ci porterà alla cascata forse più paurosa che mai vedremo nella nostra vita. Il cielo è grigio, latteo. Lasciamo la macchina e costeggiamo per qualche decina di metri un canyon lunghissimo e profondo, dal quale emergono isole di sabbia nera e traslucida che ci ricordano balene spiaggiate in secca, e che ci anticipa la potenza e la forza dell’acqua che lo ha prepotentemente scavato.

La vista è agghiacciante: le folate di aria e acqua amalgamate e fredde ci danno il benvenuto su un terrapieno di lava bagnata e nera che sembra ardesia lucidata. Abbiamo l’impressione di essere Dante e Virgilio nel terzo canto della Divina Commedia, alle porte dell’Inferno, sulle rive dell’Acheronte: il tragitto per avvicinarci allo strapiombo in cui Dettifoss si tuffa con tutta la sua portata è infangato e scivoloso. Il boato aumenta: prima è un rombo lontano, poi il fragore sale d’intensità mentre avvolti nelle giacche a vento, nella pioggia e nel freddo ci avviciniamo ai circa 200 metri cubi d’acqua al secondo che vengono scaricati per 44 metri di altezza e che ci inondano con tutta la loro potenza e il loro assordante frastuono. Anche qui siamo soli, non c’è anima viva. La sensazione è di paura, e di stupore insieme. Ne siamo attirati e respinti. Inizia a piovere con più intensità e perciò corriamo verso la macchina. Come spesso avviene in Islanda il panorama cambia subito dopo, la natura sconvolgente lascia il passo alla calma e alla serenità. Accompagnati per mano da un tramonto artico, costeggiamo pascoli a picco sul mare in cui cavalli di razza pura islandese, di media corporatura e di intrepido carattere, scorazzano liberi, ma sempre in compagnia. Anche per loro la solitudine è un peso quassù. Puntiamo così su Husavik: domani ci aspetta il whalewatching, l’avvistamento delle balene!

Non rimarremo delusi: nonostante il mare mosso, le onde alte, gli schizzi d’acqua in ogni dove, il nostro peschereccio salpa fiero e risoluto alla volta del centro della baia di Skjalfandi, dove puntualmente ogni anno, da giugno ad agosto, sostano e riposano numerose specie di balene, dalle balenottere azzurre alle più grandi megattere, dalle balene minke alle orche, dalle balenottere boreali ai capodogli.

Arrivano qui da chissà dove perché questa baia, a forma di conca, si trova sulla faglia longitudinale che taglia in due l’isola: per questa particolare caratteristica topografica e per il fatto che due fiumi glaciali scaricano in estate parecchie sostanze nutritive, la zona è ricchissima di plancton. I motori, giunti a destinazione dopo un’oretta, si spengono: le decine di persone che come noi sono lì per inchinarsi al cospetto di uno degli animali più grandi al mondo rimangono in silenzio, con il fiato sospeso. Il dondolio della barca ci culla e stempera un po’ questa attesa che non è certezza, è solo speranza. E dopo svariati minuti in cui tutti diventano piccole vedette, in cui tutti scrutano l’orizzonte in attesa dello spruzzo rivelatore, improvvisamente appare un corpo enorme e nero, lucido e boccheggiante che dalle profondità dell’Oceano, per un qualche secondo, o poco più, si crogiola al sole, rimanendo per questi pochi attimi sul confine tra l’aria e l’acqua. Come bambini in un naturalissimo zoo incontreremo e ci inchineremo, nelle ore di navigazione, davanti a ben tre cetacei diversi.

Raggiunto così il punto più a nord del nostro viaggio, la strada diventerà ora quella del ritorno. Ma a differenza di tutte le strade che ci fanno rientrare da dove siamo partiti, questa non sarà assolutamente né triste, né malinconica. Anzi, negli ultimi due giorni incontreremo cascate, villaggi, bucoliche vallate e il luogo, magico, della fine del nostro viaggio.

Cascata DettifossLa strada per Akureyri, la seconda città dell’Islanda, viene ad un certo punto imperiosamente interrotta da Godafoss, la cascata degli Dei: questo luogo ha un significato importante nella storia islandese. L’Alping, il Parlamento, nell’anno 1000 decretò che l’unica fede praticata sull’isola sarebbe stata quella cristiana e proprio in questo punto vennero gettati in acqua tutti i simulacri delle divinità precedenti.

Anche qui il rumore del vento copre le parole ed è la costante colonna sonora di questo paese, votato al silenzio umano. Come sempre l’orizzonte cambia subito, e ci ritroviamo a percorrere in solitaria immense vallate interne, solcate da laghetti, fiumi e torrenti, intrecci d’acqua che si fanno trama e che sono strade a loro volta. Ci conducono verso un minuscolo villaggio, avvolto nell’odore di salmastro, in cui le case, questa volta di legno e di torba, ci riportano indietro nel tempo, quando qui si viveva tutti chiusi in una stanza che, durante i sei lunghi mesi invernali, diventava, a seconda delle esigenze, camera da letto, cucina, laboratorio artigianale e a volte scuola. L’unica protezione era il calore umano, e la torba alle pareti e sul tetto proteggeva dal freddo e dal vento.

Per chi faceva il pescatore, invece, non c’era riparo: il minuscolo porticciolo ricavato in una piccola cala, con il suo faro ben radicato su un promontorio, era costantemente aperto alle intemperie dell’oceano. Anche per i contadini la vita non dev’essere stata facile e i segni dell’abbandono, di fattorie e di mezzi, lo stanno a dimostrare. Tuttavia questa parentesi di civiltà appena superata sarà uno degli sporadici episodi che ci ricordano che l’isola è comunque abitata.

L’ultimo giorno ritorniamo verso il mare, nella splendida penisola di Snafellsjoukull. I panorami sono a perdita d’occhio, stupefacenti. Crediamo sia l’aggettivo più adatto per questo paese. Sembra sempre di essere sotto l’effetto di una droga che contemporaneamente calma e rende euforici, lucidi e tranquilli. Osserviamo dalla macchina la luce del sole che scende obliqua, dappertutto, con le colline che sono già in ombra e il mare che invece è luminescente: forse non ci capiterà mai più di essere qui, di sentire una pienezza tale come se la vita assumesse una forma meravigliosa. Assaporiamo così la consapevolezza che la perfezione del creato dura pochissimo nel presente, e moltissimo nella memoria. E ci fissiamo in testa questo posto, che non dimenticheremo mai. Come non dimenticheremo l’imponenza del vulcano Snafellsjoukull, che si staglia all’orizzonte, sulla punta di una penisola affacciato sul mare, dove Jules Verne ambientò il celebre romanzo “Viaggio al centro della Terra”.

Anche noi abbiamo fatto un viaggio incredibile, non solo al centro della terra ma anche al centro di noi stessi: siamo stati soli, ma la solitudine è stata una piacevole compagna. Ha dilatato la dimensione del tempo e dello spazio e ci ha permesso di meditare.

Raggiungendo infine un posto magico, un piccolo cimitero sperduto su un altura, pensiamo ad un'altra terra di meditazione, ai mantra e al caos di suoni e odori dell’India, antitesi perfetta di questo luogo. Qui, a differenza che là, sentiamo davvero il silenzio dell’umanità. Qui, dove siamo ora, tra il verde dell’erba, il granito delle lapidi, il perdersi in uno stato di natura che non possiamo controllare, sentiamo il silenzio del mondo. Ci incamminiamo sul muretto di cinta, quasi fosse un sentiero.

Ripuliti, torniamo a casa.

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