La Via della Seta

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Da tempo desideravo arricchire il mosaico dei miei viaggi nel mondo, con la visita di Khiva, Bukhara e Samarcanda, situate lungo la Via della Seta, il mitico percorso che ha appresentato per oltre duemila anni il filo conduttore dei rapporti tra civiltà straordinarie e diverse. Il suo cuore, tra deserti, montagne e città storiche, si trova in Uzbekistan, una nazione dalla storia millenaria, dove popolazioni di origine diversa si sono per secoli incontrate e scontrate nel grandioso scenario del Kyzilkum, un deserto attraversato da mercanti, eserciti, nomadi e predoni.

Questa terra dell’Asia centrale aveva conosciuto nei secoli importanti migrazioni di popoli, parallelamente all’ascesa e caduta di potenti dinastie e imperi.

Khiva, Bukhara e Samarcanda sono state punti d’incontro e scontro tra Oriente e Occidente, tra il mondo nomade delle steppe e le civiltà colte dei grandi imperi. Persiani, greci, arabi, turchi, mongoli, uzbeki e russi hanno lasciato tracce indelebili, diventate oggi un ricco patrimonio storico e architettonico che affascina sempre di più molti visitatori.
Il territorio dell’Uzbekistan, in gran parte desertico, con una superficie di 447 chilometri quadrati, ha un profilo morfologico contrastato: pianeggiante a ovest, con i rilievi montuosi che s’innalzano nella parte sud-est. A occidente, tra il Mar Caspio e il lago d’Aral si estende l’altopiano desertico di Ustyurt, mentre nella zona nord orientale si trova la vasta steppa desertica del Kyzylkum.

L’antica Khiva
In un fresco primo mattino di metà ottobre del 2019 arrivai in volo all’aeroporto di Urgench, una località ai margini del Kyzylkum. Facevo parte di un gruppo turistico di una quarantina di persone, la maggior parte proveniente dal Veneto e dalla mia regione. Sul bus che ci attendeva nell’area di sosta fuori dall’aeroporto, facemmo la conoscenza di Doston, la guida del nostro itinerario uzbeko, un bel ragazzo moro dalla statura longilinea, che dimostrò subito di avere un’ottima padronanza della nostra lingua. Dopo aver percorso i trenta chilometri che ci separavano da Khiva, poco distante dal confine col Turkmenistan, arrivammo al Bek Khiva, l’hotel che ci ospitò subito per un breve riposo di un paio d’ore, preceduto dalla prima colazione ricca di bevande di ogni tipo e di prelibatezze dolci e salate fatte in casa.

Prima di partire per la visita a piedi della cittadina più antica della Via della Seta, Doston consegnò a ciascun partecipante un apparecchio auricolare per meglio ascoltare le sue spiegazioni durante le visite a piedi e un pacchetto di banconote som, la valuta locale, corrispondente al cambio di quaranta euro. Uscimmo dall’hotel verso le dieci e mezza, incamminandoci sotto un cielo turchino alla scoperta di Khiva, racchiusa da una doppia cinta di mura ricostruita col fango del deserto misto a paglia.
Le origini della città fortificata risalgono al Quinto secolo avanti Cristo. Secondo il mito, il suo nome deriverebbe dal nome del pozzo che il fondatore Sem, figlio di Noè, scavò in quell’area.
Conquistata dagli arabi nel 712, la popolazione di Khiva si convertì alla religione musulmana. Poi nel 1221 iniziò il periodo del grande impero mongolo. Grazie alla sua posizione strategica sulla Via della Seta, Khiva era diventata la principale città della zona e dal 1873 la Russia degli zar impose il proprio protettorato. In seguito, dopo alcuni anni di Repubblica autonoma, il suo territorio entrò a far parte dell’Uzbekistan e, fino alla caduta del muro di Berlino, dell’Unione Sovietica. Il resto è storia dei nostri giorni.

Khiva è formata da due città distinte: la città vecchia, racchiusa dalla fortezza, e la città esterna. Al seguito di Doston, che per farsi riconoscere alzava verso l’alto la bandierina bianco-verde-celeste dell’Uzbekistan, entrammo da una delle quattro porte d’accesso per camminare sulla strada di terra battuta tra le prime basse abitazioni color sabbia, dove una donna anziana col velo sui capelli ci salutò dall’uscio di casa con un gesto della mano.
Ebbi subito l’impressione di aver superato la soglia del tempo!

Proseguendo il percorso sulla pulitissima strada lastricata, raggiungemmo il centro storico dei magnifici monumenti islamici ricchi di mosaici colorati. Arrivammo davanti alla madrasa di Mukhammad Amin Khan, un istituto di studi superiori, considerato nella storia della cultura islamica una fra le più grandi scuole coraniche. Il suo portale, fiancheggiato da torri e coronato da cinque cupole, era incantevole. Nei pressi si ergeva un minareto incompiuto, tutto rivestito di piastrelle blu smaltate a vetro. Con il diametro di base di 14 metri era destinato a raggiungere dimensioni molto più elevate, ma i lavori si interruppero a soli 26 metri di altezza. Poi proseguimmo fino al mausoleo di Pakhlavan Makhmud, eroe e patrono di Khiva, dove ci fermammo a sentire le illustrazioni di Doston ai bordi del cortile circondato da affascinanti decorazioni di piastrelle e animato da alcune venditrici di lane.

Di fuori, sulla strada rivestita di mattonelle, incontrammo le prime bancarelle piene di pantofole fatte a mano con lana di cammello, veli e scialli di diversi colori, simpatiche bamboline, collane, bracciali, ceramiche colorate e i tipici leggii del corano in legno intagliato. Ma era sopraggiunta l’ora del pranzo, e ci affrettammo nelle compere per raggiungere il ristorante dove prendemmo posto ai tavoli riservati.

Per timore di mangiare alimenti che potevano essere stati a contatto con l’acqua non potabile, rinunciai agli antipasti a base di verdure crude. Mangiai volentieri la minestra e il piatto tipico locale a base di spezzatino di montone con riso cotto, patate al forno e pane fresco dalla forma circolare. Il tutto, visto che il corano presenta il vino come frutto buono, accompagnato da un ottimo bicchiere di vino rosso.

Nel pomeriggio, sotto un sole splendente, proseguimmo il percorso storico con le visite all’interno della madrasa Alla Kuli Khan e del palazzo Tash Khauli dall’aspetto di una fortezza con alte mura merlate, piccole torri, portoni fortificati e pareti rivestite da graziose maioliche. Nel “cortile di pietra” si poteva salire sopra una pedana circolare di mattoni per visitare l’interno della yurta, la tipica tenda che aveva lo scopo di ospitare i dignitari nomadi. Infine una sguardo all’edificio che all’epoca era un caravanserraglio, punto di sosta delle carovane che attraversavano il deserto.

Ma il momento più bello ed emozionante della giornata fu quando al tramonto, muniti di macchine fotografiche, salimmo sopra le mura di fango, colorate dai bagliori del sole che stava scomparendo all’orizzonte. Infine la suggestiva passeggiata serale di ritorno all’hotel, nel buio che avvolgeva la cittadina murata tra le luci affascinanti dei monumenti più belli e delle stelle sopra di noi.
A Khiva l’escursione termica tra il giorno e la notte era notevole: da 26 a 7 gradi. Ebbi modo di constatare questa differenza quando verso le sei del mattino mi svegliai tutto infreddolito, nonostante il piumino. Prima di addormentarmi avevo dimenticato di chiudere la finestra della camera...

Il secondo giorno, il ritrovo era fissato alle dieci. Partimmo subito dopo sotto il sole battente, costeggiando a piedi le mura della fortezza all’esterno per completare la visita guidata della città vecchia.

Doston si fermò per alcune illustrazioni nel cortile della prima madrasa a due piani di Khiva, costruita nei primi anni del Diciottesimo secolo, dove si trovava la tomba di Kutlug Murad Khan. Siccome era morto fuori della città, non potendo per motivi religiosi passare attraverso le porte, per seppellirlo furono costretti ad aprire un varco nella fortezza.
Poi raggiungemmo l’antico mausoleo di Pakhlavan Makmud, diventato famoso come poeta, filosofo e lottatore. Dopo aver depositato le scarpe all’esterno, entrai nella moschea a fotografare il meraviglioso mosaico che rivestiva la cupola e le pareti, illuminate da un grande lampadario in cristallo dalla forma circolare.

Arrivati al centro della città vecchia, entrammo all’interno della moschea Juma. Costruita alla fine del Diciottesimo secolo, nel soffitto erano state realizzate delle piccole aperture per la luce e la ventilazione. Le porte e le numerosissime colonne di legno intagliato che sostenevano il soffitto mi apparvero di particolare interesse. Tra i visitatori, oltre al nostro gruppo, c’era una giovane coppia uzbeka con le rispettive madri, che m’invitarono a fare una foto assieme a loro.
Di fuori, il minareto di Islam Khodja, decorato a strisce orizzontali con mosaici di piastrelle bianche e blu alternate a mattoni color ocra, coi suoi 56 metri di altezza si stagliava contro il cielo turchino. Prima di andare a pranzo entrammo nella vicina madrasa, dove passammo in rassegna vetrine di reperti storici, costumi, legno lavorato a mano, vasi e piatti di ceramica.

Nel pomeriggio libero diventò quasi obbligatorio fermarsi a fare visita alle bancarelle del mercato per acquistare a buon prezzo qualche regalino da portare a casa. Poi, sulla via del ritorno verso l’hotel, mi attirò la vista di una scuola elementare durante l’uscita degli scolari. Quando mi avvicinai per fotografarla ebbi modo di constatare che, come da noi, per portare a casa i bambini c’era un servizio di pulmini. E, come da noi, c’era anche qualche nonno a prendere i propri nipoti. Desiderosi di conoscere la mia provenienza, due si avvicinarono sorridendomi parlando la loro lingua incomprensibile. Risposi soltanto con la parola “Italia” e uno rispose “Papa Roma”. Poi mi salutarono entrambi con una vigorosa stretta di mano, mentre donavo ai bambini delle caramelle.

L’oasi di Bukhara
Alle 18 partimmo in bus verso l’aeroporto di Urgench. Strada facendo ci fermammo a cena in un ristorante, prima di prendere il volo interno per raggiungere Bukhara, la seconda tappa del nostro viaggio. Dopo un’ora di volo sopra il buio pesto del deserto e il tragitto in bus, giungemmo al Zagaron Plaza Hotel, giusto in tempo per fare una doccia prima di andare a dormire. Doston ci aveva comunicato che, per la posizione della città ai margini del deserto, anche lì l’acqua del rubinetto non era potabile. Ma non fu un problema, perché trovai in camera due bottiglie sigillate d’acqua minerale.

Sorta nel Primo secolo avanti Cristo sulle rive del fiume Zeravshan, Bukhara è situata in mezzo ad un’oasi verdeggiante, dove giardini, pascoli e campi di cotone si contrappongono alle sabbie del Kyzylkum. Sin dai tempi antichi a Bukhara convergevano le vie carovaniere e i commerci con Russia, Cina, Persia ed India. Traffici che si spingevano fin sulle rive del Mediterraneo e portavano in questo mitico luogo mercanti veneziani come Marco Polo. Traffici di merci preziose: seta, pellicce, tappeti, argento cesellato e monili d’oro.

Nel suo passato più profondo l’oasi di Bukhara era parte di Sodgiana, una vasta regione dell’Asia centrale conquistata da Alessandro Magno, il cui sviluppo nell’epoca feudale vide la formazione di centri abitati molto simili, formati dalla cittadella, dalla zona residenziale e dalla necropoli. Tra il Settimo e l’Ottavo secolo, la regione passò sotto il dominio degli arabi e, nel Decimo secolo, sotto il controllo dei turchi. Nel Tredicesimo secolo ebbe inizio il dominio mongolo, prima sotto Genghis Khan e poi con Tamerlano. Nel Sedicesimo secolo le dominazioni passarono ai nuovi conquistatori appartenenti a tribù nomadi uzbeke, che instaurarono a Bukhara la capitale dell’Uzbekistan. Ha così inizio l’epoca favolosa e crudele dei Khanati che vide la divisione del paese in tre regni uzbeki con un susseguirsi di lotte e guerre feudali, fino all’arrivo della Russia degli zar.

Dopo la colazione del mercoledì, partimmo col nostro bus verso la periferia della parte più antica della città, dove si trovava il parco Samani che, col verde dei suoi alberi maestosi, ombreggiavano prati e aiuole di rosai. Scendemmo nei pressi del suo ingresso, da dove si vedevano alcune giostre con al centro una grande ruota panoramica che si elevava nel cielo terso e un trenino con le ruote di gomma che sostava sul piazzale.
Seguendo Doston arrivammo davanti all’antico mausoleo della dinastia Samanide che, verso la fine dell’Ottavo e inizi del Nono secolo governò Bukara per una quindicina d’anni. La sua forma cubica, rivestita di pietra bianca intagliata e ricoperta da una cupola semisferica, m’incuriosì ed entrai per uno sguardo anche all’interno. Nel parco c’erano anche alcune bancarelle dove ci soffermammo a curiosare per l’acquisto di qualche souvenir.
Poi ci avventurammo fra la confusione della gente, passando in rassegna i padiglioni dei bazar coperti, stracolmi di frutta e verdura, spezie, pane, alimenti vari e carni esposte senza protezione alcuna.

Prima di raggiungere il ristorante per il pranzo all’interno della fortezza, ci fermammo a fotografare l’esterno della maestosa moschea Bolo Hauz, costruita nei primi anni del Diciassettesimo secolo. Il suo ingresso era preceduto da uno spettacolare porticato, sostenuto da venti altissime colonne di legno. Nel portico c’era una bancarella con l’esposizione di colbacchi di astrakan e, nei pressi, un paio di artisti erano intenti in lavori di pittura di quadri e d’incisione di piatti di metallo.

Nel pomeriggio proseguimmo il percorso con la visita alla residenza estiva dell’ultimo emiro Sitorai Mokhi Khosa. All’uscita passammo davanti all’antica moschea Magari Attari, riconoscibile dall’antica facciata del Decimo secolo. Più avanti, ai piedi del monumento divenuto uno dei simboli di Bukhara, una di fronte all’altra si stagliavano la grandiosa moschea Kalyan, costruita a cavallo tra il Quindicesimo e Sedicesimo secolo, il minareto e la madrasa Miri Arab, sede di una scuola islamica. Nel 1970, l’elegante facciata della moschea era stata sottoposta a lavori di restauro con mosaici e mattonelle smaltati.

Concludemmo la rassegna dei monumenti islamici del complesso medievale della cittadella, con la visita delle madrase di Ulug Bek e di Abdul Aziz Khan, separate solo da una strada. In realtà le due scuole coraniche, edificate in tempi diversi, erano separate da ben due secoli di storia. Su un pannello della porta della sua madrasa, il saggio Ulug Bek aveva fatto scrivere: “Il dovere di ogni musulmano e di ogni musulmana è di aspirare al sapere”.

A Bukara sopravviveva anche una comunità ebraica con la sua antica sinagoga del Sedicesimo secolo. Giunta lì molto prima dell’espansione musulmana, stava rischiando di scomparire.
Affascinati dall’architettura relativamente sobria ma imponente dei monumenti, attraversammo una lunga galleria, piena di negozi e bancarelle per raggiungere il cortile dove stava per iniziare lo spettacolo folcloristico uzbeko riservato ai turisti. Accompagnate da musica dal vivo, le ballerine si esibivano sopra un grande tappeto disteso al centro del cortile. Indossavano raffinati costumi dai ricami dorati e il tipico copricapo del posto, decorato con piume di uccello colorate. Come tutte le danze tipiche dell’Asia, quelle uzbeke si distinguono dai gesti delle mani e dalla varietà delle espressioni facciali della danzatrice. Esse provengono dal grande repertorio folcloristico e culturale del paese e sono legate agli antichi riti, alla religione e alla vita di tutti i giorni. Servono ad esprimere momenti di gioia e di dolore, di guerra e di morte, di lavoro nei campi e di tessitura della seta.

Finito lo spettacolo, Doston ci portò nel laboratorio di un grande negozio per assistere a un’interessante dimostrazione di tessitura artigianale della seta. Quando uscimmo dal negozio, il sole era già scomparso all’orizzonte, e stava infuocando il cielo di un arancio chiaro che andava gradatamente scomparendo sopra le mura merlate della cittadella.

La mitica Samarcanda
Alle sette e trenta di giovedì partimmo in bus, bagagli al seguito, in direzione di Samarcanda. Il primo tratto di strada, in mezzo alla steppa desertica soleggiata, si presentò monotono e invitante a fare un sonnellino, nonostante i sobbalzi provocati dal precario manto stradale. Verso le dieci, il pullman si fermò nella prima area di servizio per una sosta ristoro al banchetto preparato dall’aiutante autista: biscotti, pasticcini secchi, tè, caffé e acqua minerale. Con una banconota di mille som, dieci centesimi di euro, si poteva usufruire anche dei servizi igienici.

Dopo la ripresa della corsa, si vedevano campi coltivati e alberi da frutta, gelsi, pioppi e qualche pino mugo. Poi bancarelle di frutta, pomodori, cataste di angurie, meloni e campi di cotone. Mentre basse abitazioni dai tetti di latta ondulata o di eternit senza amianto, si susseguivano lungo la strada, Doston ci spiegò al microfono che una nuova casa a schiera dello Stato, con un mutuo costava circa 40 mila euro. Ma che c’era anche la possibilità di spendere la metà comprando una casa dell’era sovietica. Dopo alcuni chilometri incontrammo anche un centro commerciale con il parcheggio pieno di automobili di piccola cilindrata, a prevalenza di colore bianco.

Verso mezzogiorno, sulla strada della valle ai piedi della catena montuosa Zeravshan finirono i sobbalzi, e il bus proseguì veloce alla volta di Shakhrisabz, la città natale di Tamerlano, uno dei più celebri conquistatori e strateghi della storia che si considerava discendente della stirpe di Gengis Khan e aspirava a riedificare il grande impero mongolo.
Centro agricolo con cotonifici, conservifici e aziende agricole, Shakhrisabz era conosciuta anche per la tradizione dei ricami a mano.
Scendemmo dal bus sul grande lastricato di pietra che precedeva i resti del “palazzo bianco” Ak Saraj , una delle più grandi costruzioni volute da Tamerlano. Il sito storico si trovava in un vasto giardino a prato inglese, ricco di piante e fiori, dove svettava la moderna statua di Amir Temur, prediletta dagli sposi uzbeki per fare le foto di rito. Nei paraggi incontrai una comitiva di giovani donne che accompagnavano gli sposi, e sorridevano felici mentre si facevano immortalare dal mio cellulare.

Nei pressi c’era da vedere una moschea del Quattordicesimo secolo “Cupola blu” di Kok Gumbaz e il mausoleo dello sceicco Shamseddin Kulyal, del secolo precedente, precettore spirituale di Tamerlano e del padre.
Ci trovavamo a 80 chilometri da Samarcanda e, dopo gli acquisti alle bancarelle, risalimmo sul nostro pullman che riprese la corsa. La strada scorreva in mezzo a estese coltivazioni di cotone, l’ “oro bianco” che si semina in primavera e si raccoglie in autunno.
Doston fece fermare il pullman ai lati della strada per farci vedere il fiore dell’oro bianco da vicino. Ci accontentammo di alcuni scatti panoramici e di un paio di fiori di cotone, staccati come souvenir, per poi risalire in fretta sul mezzo che riprese la sua corsa.

A est si intravedevano i primi rilievi desertici e ondulati della catena montuosa Zeravshan, arrossati dal sole che stava tramontando. Case a schiera dal colore rosato, con finestre senza imposte e tetti di lamiera rossa che sfilavano sullo stesso lato, facevano pensare di essere arrivati alla periferia della città. Ma solo quando si cominciarono a vedere i rilievi sormontati da cime rocciose, Doston mi fece venire la pelle d’oca, facendoci sentire la mitica canzone di Vecchioni: “Corri cavallo, corri ti prego fino a Samarcanda io ti guiderò.
Non ti fermare, vola ti prego corri come il vento che mi salverò. Oh oh cavallo, oh oh...”.

Samarcanda

Al tramonto, giungemmo nella mitica Samarcanda, Patrimonio dell’umanità. Una città di 370 mila abitanti, che coi suoi 2700 anni di storia conserva lo splendore del passato in un’atmosfera da “Mille e una notte”.
Importante crocevia della Via della seta, qui i regni nascevano, si sviluppavano e scomparivano in fretta perché la loro ricchezza attirava i conquistatori. Dopo le incursioni degli arabi, le orde di Gengis Khan la rasero al suolo. Ma Samarcanda è strettamente legata al nome di Tamerlano che, all’epoca, creò un enorme impero e la proclamò sua capitale, rendendola prospera e splendida di magnifici monumenti.
Quando entrammo nella meravigliosa reception del Registan Plaza, con centinaia di luci che brillavano dalle moderne balaustre e ascensori trasparenti che andavano su e giù, era già calata la sera, e ci recammo a cena nell’elegante e silenzioso buffet internazionale.

Il venerdì l’intera giornata era dedicata alla visita della città e dintorni. C’incamminammo nel primo mattino, al seguito di Doston, lungo il larghissimo viale alberato che portava al mausoleo di Gur E Amir, dove sono custodite le spoglie del grande conquistatore. Poi ci soffermammo davanti alla moschea di Tamerlano, chiamata anche Bibi Hanim.

Completata agli inizi del Quattordicesimo secolo, per volere del sovrano, la moschea doveva essere di una bellezza mai vista, e chiamò i migliori architetti e artisti da tutto l’Oriente. Ma quella che fu una delle più grandi moschee del mondo islamico cominciò a deteriorarsi, crollando quasi del tutto col grande terremoto del 1897. Della moschea, oltre alle rovine dei massicci sostegni del portale d’ingresso, sono rimaste le tre costruzioni a cupola e il minareto, restaurati di recente.
Poi arrivammo sulla piazza più bella del mondo: piazza Registan, che significa “luogo sabbioso”, uno dei siti più importanti e suggestivi della cultura architettonica islamica. La piazza era incorniciata da tre maestose antiche madrase con maioliche dalle mille sfumature di azzurro. La madrasa di Ulubek, sul lato occidentale, fu fatta costruire da Tamerlano all’inizio del Quattordicesimo secolo. Al centro, si elevava Tilla Kari, caratterizzata da una moschea con elaborate decorazioni in oro e un cortile con giardino. Infine, sul lato orientale spiccava il magnifico portale d’ingresso Sher Dor abbellito da figure di felini. Sul lato del grande viale alberato, uno spazioso terrazzo era stato costruito per ospitare la gente durante lo spettacolo serale di luci e suoni.

Sul lastricato di pietra che rivestiva la piazza transitavano comitive di studenti con le insegnanti. Ragazzi e ragazze che gioivano felici a farsi fotografare con noi occidentali.
Prima della pausa pranzo in ristorante, ci inoltrammo tra le bancarelle del chiassoso mercato coperto Syob, una festa di colori: frutta fresca, frutta secca e centinaia di spezie, dolci e articoli vari. Poi il nostro bus ci portò in una località periferica per assistere a una dimostrazione di produzione della carta col metodo antico e per vedere il sito storico di Afrasiab, l’antica città distrutta dai mongoli, con la visita del museo.

Infine, coi caldi colori del tramonto, ci dirigemmo verso la necropoli di Shakizinda, situata ai confini della città. Salendo i 36 gradini delle antiche scale esprimendo un desiderio, arrivammo in una galleria aperta, ai lati della quale si susseguivano cappelle funerarie e mausolei dei più stretti parenti di Tamerlano e degli uomini più importanti del paese: cupole azzurre, portali in pietra decorati con maioliche dai delicati colori.
Ma lo spettacolo più emozionante di quella giornata arrivò alle nove di sera, quando sotto il cielo stellato, nella gremita terrazza di piazza Registan iniziò lo spettacolo di luci e suoni.
Mi sembrava di essere allo stadio tra i cori della gente. Una festa di colori che esaltavano le tinte delle maioliche e le forme di cupole e archi, accompagnata dalle note di una coinvolgente musica orientale.

Verso la capitale
Alle sette e mezza del sabato mattina lasciammo il Registan Plaza per iniziare l’ultima tappa del nostro percorso storico. Alla fine di un largo viale ombreggiato da platani secolari, il nostro pullman girò sulla grande rotonda con in mezzo la statua in bronzo del grande Tamerlano seduto sul trono. Ci stavamo dirigendo verso Tashkent, la capitale dell’Uzbekistan. Mentre Doston parlava al microfono, prima di arrivare alla periferia di Samarcanda, notai un paio di donne che indossavano vistosi giubbetti arancione e, scopa in mano, pulivano la strada. Più avanti iniziarono a sfilare sul vetro alcune case a schiera di due piani, seguite da un cantiere di costruzioni in mattone e da una lunga fila di case basse tutte collegate da muraglie con portone. Poi i primi terreni adibiti a coltivazioni di ortaggi e frutteti, con in mezzo un lungo e basso edificio bianco dall’insegna verde “Agro Market”. Dopo alcuni chilometri di campi di cotone pronto per la raccolta, incontrammo anche bancarelle di prodotti ortofrutticoli e file d’auto in sosta ai bordi della strada, con sullo sfondo un prato recintato e mucche al pascolo. Prima di una stazione di servizio di gas metano, cicogne appollaiate nei nidi sulle estremità dei pali di cemento della linea elettrica. Fermi a un passaggio a livello, vedemmo transitare il treno bianco-azzurro-verde ad alta velocità dal muso slanciato, che collegava la capitale a Samarcanda e Bukhara coprendo i 592 chilometri in meno di 4 ore.

La nostra guida, che era in procinto di sposarsi, decise finalmente di parlarci anche delle usanze uzbeke in occasione del matrimonio. Soprattutto nei villaggi si seguivano ancora antichi e pittoreschi rituali. L’imam inizia la cerimonia con canti e letture del corano e la coppia è ufficialmente sposata dopo aver sottoscritto i documenti. Poi, quando la sposa entra nella casa dello sposo, ha inizio tutto un percorso particolare di cerimonie fino al banchetto con gli invitati. Ma non è finita qui, perché per trascorrere la prima notte assieme, dovranno passare le undici di sera.
Sui lati della strada non si vedevano più casette basse allineate, ma concessionarie automobilistiche, viadotti e, sullo sfondo, qualche ciminiera. Poi i primi palazzi a nove piani dell’era sovietica, della stessa forma e dello stesso colore. Più avanti, file di condomini a cinque piani sovrastati da insegne pubblicitarie e i primi negozi.
Tashkent, coi suoi due milioni e mezzo di abitanti, è per lo più una città moderna. Il suo centro è percorso da strade alberate a sei corsie, con vie pedonali fiancheggiate da ordinati parchi e giardini, ville residenziali, alberghi e ristoranti.
Senza code, né suoni di clacson, raggiungemmo col nostro bus la parte settentrionale della città per la visita del complesso commemorativo Khast Inam e la moschea Tillya Sheikh. Vicino al mausoleo del poeta e filosofo Kafal Shashi c’era una nuova moschea, fiancheggiata dai minareti e preceduta da un immenso lastricato. Poi uno sguardo alla libreria della madrasa Mui Muborak dove si trovava il corano più antico al mondo.
Dopo la sosta per il pranzo in un ristorante del centro, Doston ci guidò a piedi fino all’ingresso del bazar sovietico Chorsu, con la sua cupola turchese e le bancarelle disposte in ordinate file radiali. Salii al piano superiore per scattare un paio di foto, ed ebbi modo di constatare con stupore che le carni fresche erano tutte esposte in banchi frigoriferi dalla protezione trasparente.

Dopo il terremoto del 1966 a Tashkent non c’era più una vera città vecchia. Anche se l’articolo di una rivista italiana citava che nei dintorni del brulicante bazar della capitale esistevano ancora testimonianze della città vecchia, con alcuni vetusti quartieri musulmani solcati da strette strade di terra battuta e basse casette smaltate a fango circondate di alberi da frutto.

Alla cena di arrivederci, animata da musiche e balli di danzatrici, fu molto apprezzato il piatto in ceramica che il responsabile del ristorante aveva donato a tutti i componenti del nostro gruppo. Ma quella circostanza fu anche l’occasione per consegnare un meritato regalo di nozze a Doston, la nostra bravissima giovane guida, che si era data da fare per farci trascorrere al meglio quelle bellissime e interessanti giornate uzbeke.
Dopo aver trascorso la notte in una camera panoramica al decimo piano del Ramada di Tashkent, il mattino seguente partimmo in bus verso le otto, bagagli al seguito.
Scendemmo dal bus nei pressi di un ingresso della metropolitana per una breve visita.

Inaugurata nel 1977, nell’era sovietica, la seconda linea fu aggiunta nel 1980 e la terza nel 2001, con un percorso complessivo di 39 chilometri. Era domenica e c’erano poche persone in giro. Prendemmo la larga scalinata che ci portò sul lungo corridoio della prima linea, sfavillante di sontuosi lampadari bianchi, di lucidi marmi come una sala da ballo e decorazioni alle pareti, autentico capolavoro Decò. Poi scendemmo alla fermata successiva per raggiungere a piedi piazza Amir Timur, dominata dal monumento di Tamerlano a cavallo e, in lontananza, dai diciassette piani dell’Hotel Uzbekistan che sembrava un alveare. Sull’altro lato spuntava l’antenna della torre della televisione che, coi suoi 375 metri, era la più alta costruzione di tutta l’Asia centrale. Da quella piazza a ferro di cavallo, abbellita dai zampilli di moderne fontane e giardini in fiore, dipartivano le principali vie della città dov’erano dislocati alcuni importanti musei.

La partenza del nostro volo di linea per Milano era fissato alle 15 e, per raggiungere l’aeroporto della capitale in tempo utile, dovevamo pranzare con anticipo nel ristorante prenotato. Dopo le foto di rito sulla piazza principale della città, c’incamminammo in mezzo ai chioschi in chiusura domenicale di un viale silenzioso, dove il sole filtrava a chiazze in mezzo alle fronde gialle degli alberi. Durante quella rilassante passeggiata, con la mia mente feci un breve resoconto di questo magnifico viaggio sulla Via della Seta dell’Asia centrale: “In pochi giorni, non avevo mai visto coi miei occhi tantissime bellezze della storia così affascinanti. Seppure marginalmente, avevo avuto modo di conoscere un popolo accogliente, semplice, sorridente e pieno di umanità”.

INFORMAZIONI

Sergio Virginio
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(Foto dell’autore)