Filtrati dalla tenda, mossa da un alito di vento, i raggi del sole inondano il soggiorno. Seduto nella mia poltrona preferita, seguo con lo sguardo quei giochi di luce. Dopo un po', una dolce sonnolenza mi prende, per portarmi indietro nel tempo, ad un assolato pomeriggio di maggio degli anni Sessanta.
La strada del paesello era deserta, le auto in circolazione una vera rarità. Con i libri legati da un elastico sotto il braccio, ero uscito di casa, al termine di un frugale pasto che mia madre aveva messo in tavola. Andavo a casa di Beppe, un amico e compagno di scuola, con cui stavo preparando gli esami di quinto ginnasio.
Aveva il sole alle spalle, la vidi venirmi incontro in un alone di luce. Era vestita in maniera semplice così come vestivano le ragazze di allora. Un vestitino chiaro al ginocchio le scopriva le belle gambe, che terminavano in caviglie affusolate coperte da calzini bianchi corti. Tratteneva con una mano una giacca bianca di cotone, che portava sulle spalle. Lunghi capelli neri e ricci incorniciavano un viso di porcellana, che in un attimo si fece di fiamma. Due grandi occhi neri dallo sguardo profondo. La sua bocca piccola e carnosa era atteggiata al sorriso. Giunta ad incrociare il mio sguardo, lei abbassò gli occhi. Per un attimo sentii che mi mancava il respiro e dopo qualche passo mi fermai interdetto, quando mi girai per vedere dove fosse diretta, era letteralmente scomparsa. Ritornai sui miei passi invano. E’ stata una visione, pensai. Dopo quell’incontro, per giorni ritornai nella stessa strada, alla stessa ora, con la segreta speranza di rivederla. Che fosse stata davvero una visione?
Sul punto di convincermi che quell’incontro lo avessi sognato, che lei esistesse solo nella mia mente di adolescente, un bel giorno la rividi nello stesso posto. Teneva per mano una bimba dai capelli biondi e lisci che le scendevano sulle spalle. Mi feci coraggio e, affiancatomi a lei, a bassa voce, le dissi quanto il mio cuore avesse battuto forte a quel primo incontro. Lei arrossì e tenendo gli occhi bassi, rimase muta alle mie profferte amorose. Continuò a camminare, poi accelerò il passo, la bambina per starle dietro cominciò a correre. Mi fermai, deluso: mi sembrava inopportuno rincorrerla per continuare un discorso che non era neppure cominciato. Lei, fatti ancora pochi passi, svoltò in una stradina e scomparve dalla mia vista: non ero riuscito a farmi dire nemmeno quale fosse il suo nome.
All’amico Beppe non raccontai l’accaduto. A sera, ritornato a casa, quel turbamento non mi aveva ancora abbandonato. Pensavo a quanto il mio comportamento fosse stato a dir poco inadeguato. Nei giorni successivi la incontrai ancora, ma mi mancò il coraggio di avvicinarla, non riuscivo più a vincere la mia timidezza. Finita l’estate, scomparve di nuovo, come svanita nel nulla.
Col tempo, preso dagli studi, sempre più raramente ripensai a quegli incontri. Periodicamente però ritornava nei miei sogni, bella e irraggiungibile. Alla “festa della maturità” che segnava, come oggi, il termine degli studi liceali, però, la rividi, e la riconobbi dai suoi lunghi capelli ricci e per i suoi occhi color ebano. Era in compagnia di Giacomo, con cui avevo fatto le scuole elementari, per poi perderci di vista come spesso accade. Mi avvicinai per salutarlo.
“Mia sorella Elena!” Mi disse.
“Piacere, Giorgio!” Risposi.
Tesi la mia mano verso di lei. Al contatto della sua mano calda e morbida, sentii la salivazione azzerata. Una vampata di calore mi salì sul viso, credetti di essere sul punto di perdere i sensi. Adesso era una donna, di una bellezza accecante: indossava un abito rosa che le fasciava il corpo, mettendo in risalto le sue forme armoniose. Suo fratello si allontanò, per andare incontro ad una ragazzina che in quel momento faceva il suo ingresso nella sala, e ci lasciò soli.
“Ci si rivede” le dissi.
“Già! Quanto tempo è passato?”
“Qualche anno. Ti ricordi ancora di me?”
“Dopo la morte di mia madre, ho passato gli ultimi tre anni in collegio, ma quegli incontri non li ho dimenticati. La speranza di rivederti ha riempito le mie lunghe giornate in collegio”
“Non ho mai perso la speranza di ritrovarti, ti ho cercata per mesi” le dissi.
Ballammo tutta la sera, ci stringemmo forte sulle note di canzoni che un complessino cercava di suonare, ma con scarso successo. Poi ci appartammo e lei mi raccontò della sua famiglia, di suo padre che si era risposato, del suo rapporto conflittuale con la matrigna. Era stata lei ad imporle quei tre anni di collegio. Le raccontai dei miei turbamenti al ricordo di quegli incontri. Delle mie timidezze, delle mie delusioni, dei miei entusiasmi, dei mie studi, dei miei sogni, del mio futuro che avrei voluto costruire con lei.
“Adesso che ti ho ritrovato, non permetterò a nessuno di separarci” conclusi.
“Nessuno mai potrà farlo” promise.
La nostra storia andò avanti. La sua dolcezza riempiva le mie giornate, facendomi vivere, come in estasi, anni d’amore. Lo stare insieme ci dava una felicità senza fine. Erano passati più di dieci anni da quel primo incontro ed io, ormai affermato professionista, la portai all’altare in un caldo pomeriggio di luglio, coronando il nostro sogno d’amore. Avevamo tutto, nulla sembrava potesse interrompere il nostro idillio. Il nostro progetto di vita si realizzava. Non fu così.
Dopo circa un anno da quel giorno, al settimo mese di una tranquilla gravidanza, in agguato, a deludere le nostre aspettative, si presentò IL MALE.
Un improvviso malore, la corsa in ospedale, la felicità per la nascita di Gioia. Poi la sentenza: leucemia fulminante. Me la portò via in poche settimane.
Due lacrime mute mi rigano il viso. Un grido dalla stanza accanto, seguito dal pianto della mia nipotina Elena, mi riportano alla realtà. Accorro, lei è già rassicurata da sua madre, vedendomi mi corre in braccio, le mie lacrime si mischiano con le sue. I suoi occhi, neri come l’ebano, adesso sorridono felici.
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Carmelo Zurlo
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