L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
DON KIKHOT (Le avventure di Don Chisciotte, Unione Sovietica, 1957), regia di Grigori Kozintsev. Sceneggiatura: Yevgeni Shvarts dal Don Chisciotte di Cervantes. Fotografia: Andrei Moskvin. Apollinari Dudko. Montaggio: Ye. Makhankova. Musiche: Kara Karayev. Con: Nikolai Cherkasov, Yuri Tolubeyev, Serafima Birman, Lyudmila Kasyanova, Svetlana Grigoryeva, Vladimir Maksimov, Viktor Kolpakov.
“Il miglior Don Chisciotte che conosciamo. Il regista, fedele al romanzo letto secondo una visione storica a fondo marxista, ha saputo ritrovare in Crimea la drammatica aridità degli altopiani spagnoli e nella mistificazione alquanto sinistra in cui Sancho vien nominato governatore l’atmosfera cupa dei migliori Velasquez”.
(Georges Sadoul, da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968)
“Vita e morte del celebre eroe di Cervantes. Tecnicamente di ottimo livello e sorprendentemente ineccepibile in quanto a fedeltà storica e paesaggistica, il Don Chisciotte di Kosintzev testimonia una autentica civiltà espressiva”.
(Mino Argentieri)
“Ancora l’opposizione tra una nobile fantasia e una realtà ingrata, ma inserita nel quadro dei rapoorti sociali, informa il meraviglioso Don Kichot russo (1957) di Grigorij Kozincev. L’interprete - l’ejzenštejniano Nikolaj Cerkasov - dipinge don Chisciotte secondo una concezione dignificata che lo allontana più che mai dal ridicolo; e Sancho qui è un popolano intelligente, non illuso da don Chisciotte ma suo sodale perché affascinato dal suo linguaggio poetico e dalle sue prospettive avventurose. Se Pabst aveva declinato il rapporto Aldonza/Dulcinea in termini sarcastici, Kozincev inventa un delizioso equivoco romantico: per tutto il film la gentile contadina Aldonza ignora di essere quella Dulcinea che don Chisciotte adora, e anzi invidia questa donna perché è tanto amata. Don Kichot è costellato di dettagli freschi (come il bambino nudo dall’enorme cappello che attraversa di corsa la strada del villaggio con un cagnolino al guinzaglio) e la bellezza della messa in scena procede da un gusto pittorico, non estrinseco ma costitutivo, tipicamente russo. Vedi le scene visualmente ricchissime della locanda (dove chiaramente il regista tiene presente anche Goya).
Al pari delle opere shakespeariane di Kozincev, il film traduce il testo cervantino secondo una lettura marxista. Come già accennato, la vicenda è riletta alla luce dei rapporti di classe e il dialogo è calibrato sul concetto marxiano di ideologia (all’aria dubbiosa di Sancho circa il giuramento del cattivo padrone di pagare il suo apprendista imbrogliato e frustato, don Chisciotte replica che l’uomo non oserà mettere a repentaglio la sua anima immortale / stacco a un primo piano del padrone che agita la frusta). Alla base del film, evidenziato anche in allucinazioni visive o auditive, sta il discorso sull’ingiustizia: la missione di don Chisciotte è di difendere gli afflitti; quando Dulcinea/Aldonza gli appare in punto di morte, lo implora “Non abbandonateci”. Un aspetto vivace di questo approccio è la descrizione distesa e umorosa del governatorato di Sancho, allegro manifesto populista del buon senso contadino, con Sancho che dopo i suoi giudizi viene portato in trionfo dai popolani (del resto, già Cervantes ci dice che anche dopo la fine della beffa del governatorato gli abitanti dell’ “isola” mantennero in vigore i saggi “statuti del gran governatore Sancho Panza”).
In un film impostato sui rapporti di classe, è particolarmente attenta la rappresentazione del Duca (il grande beffatore dell’hidalgo nel romanzo) e della sua corte. La tavolozza ricca di ocra e di marroni dello svolgimento precedente qui si impoverisce: colori neri, bianchi e cinerini, abiti neri, scenografia nuda del palazzo, cupi dipinti monocromatici alle pareti. Circa l’allucinante scena dell’uscita dei cortigiani in corteo con gelida solennità da morti viventi, vien da pensare che è impossibile che il polacco Roman Polanski non abbia visto questo film e non ne avverta una reminiscenza in Per favore non mordermi sul collo. E in tutta questa sezione v’è, interna alla messa in scena corposa del realismo russo, una sorta di recupero del fantastico, sia a livello scenografico sia nell’inquietante beffa, fatta a don Chisciotte, della morta che si muove. E in un mondo determinato dai rapporti di classe si rivela inefficace il volontarismo eroico di don Chisciotte sotto la forma della cavalleria errante. Don Chisciotte muore, pentito e rinsavito, cioè sconfitto, dopo la risoluzione dell’episodio del garzone sfruttato (che credeva di difendere, laddove invece ha solo peggiorato la sua condizione). Ma la dialettica fra reale e fantastico si esalta nell’inquadratura finale. Dopo che abbiamo assistito alla morte di don Chisciotte, uno stacco ci porta a un solenne campo lungo della pianura spagnola in un’inquadratura vuota - segue una panoramica a scoprire a destra - ed ecco don Chisciotte con la sua lunga lancia e Sancho sull’asino (il campo lungo serve non soltanto a riprodurre l’elemento iconografico principe ma a evitare un contraccolpo legato alla leggibilità del viso, che riporterebbe contraddittoriamente l’immagine sul piano narrativo): don Chisciotte e Sancho cavalcano ancora, trasformati in figure immortali. Ma non lasceremo il film di Kozincev senza menzionare un dettaglio molto interessante, e coraggioso, del suo discorso politico. Ci riferiamo alla classica scena di don Chisciotte che libera i forzati, i quali per tutto ringraziamento lo lapidano. In questa sequenza lo chiamano spia, e Sancho protesta “Ma se vi ha liberati!”, e loro: “Questo è successo prima - poi si è venduto”. Non è chi non veda che il comico paradosso della battuta si riferisce satiricamente alle purghe staliniane (quando gli artefici stessi della rivoluzione erano stati costretti a confessare di essere traditori e spie). Così il film di Kozincev (1957!) si inserisce nella battaglia politico-culturale sovietica popolarizzando - “in linguaggio esopico”, come si diceva in URSS - il discorso della destalinizzazione.”
(Giorgio Placereani)
Grigorij Mihajlovič Kozintsev, scrive la Treccani: “regista e sceneggiatore ucraino, nato a Kiev il 22 marzo 1905 e morto a Leningrado l’11 maggio 1973. Kozintsev rappresenta, nell’ambito del cinema sovietico, una delle figure più coerenti nel saper coniugare ricerca teorica e attività artistica, dalle esperienze avanguardistiche della FEKS (Fabbrica dell’attore eccentrico) alle sperimentazioni teorico-pratiche sul rapporto tra cinema e teatro”. L’errore è che Kiev nel 1905 è russa e Leningrado sovietica, per cui il nostro non può essere considerato ucraino. Infatti la stessa enciclopedia spiega poi: “Dopo un apprendistato come assistente decoratore nel teatro di Kiev si trasferì, del 1920, a Pietrogrado per lavorare nell’ambito teatrale. Qui conobbe Leonid Zaharovič Trauberg con il quale fondò nel 1921 la FEKS, laboratorio d’avanguardia teorico e pratico di teatro e cinema, teso a ricercare una forma cinematografica autonoma e capace di reinventare gli elementi caratteristici delle altre arti, da quelle colte a quelle popolari”. Basterebbe questo a dir dell’importanza storica di Kozintsev, a cui si uniscono i tredici film diretti con Trauberg, dal 1924, anno in cui uscì “Pohoždenija Oktjabriny” (Le avventure di Ottobrina) - al 1945 anno di “Prostye ljudi” (Gente semplice). Poi, “Abbandonati gli eccessi visivi e figurativi dei primi anni della FEKS, lavorò ancora su materiali letterari e teatrali preesistenti, per esempio in Don Kihot (1957; Le avventure di Don Quixote), in cui il romanzo di Cervantes diventa ancora una volta l’occasione per sperimentare il contrasto tra l’ambientazione realistica (gli esterni girati in Crimea) e la stilizzazione degli elementi del film: dalla recitazione astratta di Nikolaj Čerkasov (che riprende in parte i personaggi da lui interpretati nei film di Sergej Mihailovič Èjzenštejn), all’artificialità del colore. Il testo letterario non è un patrimonio del passato per Kozintsev, ma materiale disponibile e attuale, capace di mantenere intatta la propria forza attraverso il passaggio alla forma cinematografica”. Il film è basato sull’adattamento teatrale di Evgenij Švarts dal romanzo di Miguel de Cervantes. Fu presentato per la prima volta nel 1957 al Cannes Film Festival. È un film strano e ironico, forse il film più bello e impressionante tratto dal “Don Quixote” di Miguel de Cervantes. Come scrisse il New York Times: “Più che una bella visualizzazione delle avventure illustri e delle scappatelle del tragicomico cavaliere errante e del suo scudiero, Sancho Panza, nel XVII secolo in Spagna, questa interpretazione, inevitabilmente abbreviata, del classico di satira sulla cavalleria, è un’esposizione commovente e calda di un carattere umano”. Continuando: “Nikolaj Čerkasov, l’attore russo che ha interpretato ruoli eroici come Aleksandr Nevskij e Ivan il Terribile, interpreta l’allampanato Don Quixote, e lo fa con una semplice dignità che colma di nobiltà interiore l’assurdità superficiale di questo uomo struggente”. Di sicuro l’interpretazione di Čerkasov è uno dei punti saldi di un film giustamente diventato leggendario.
“Don Chisciotte”, Miguel de Cervantes
A tutti gli illusi, a quelli che parlano al vento.
Ai pazzi per amore, ai visionari,
a coloro che darebbero la vita per realizzare un sogno.
Ai reietti, ai respinti, agli esclusi. Ai folli veri o presunti.
Agli uomini di cuore,
a coloro che si ostinano a credere nel sentimento puro.
A tutti quelli che ancora si commuovono.
Un omaggio ai grandi slanci, alle idee e ai sogni.
A chi non si arrende mai, a chi viene deriso e giudicato.
Ai poeti del quotidiano.
Ai “vincibili” dunque, e anche
agli sconfitti che sono pronti a risorgere e a combattere di nuovo.
Agli eroi dimenticati e ai vagabondi.
A chi dopo aver combattuto e perso per i propri ideali,
ancora si sente invincibile.
A chi non ha paura di dire quello che pensa.
A chi ha fatto il giro del mondo e a chi un giorno lo farà.
A chi non vuol distinguere tra realtà e finzione.
A tutti i cavalieri erranti.
In qualche modo, forse è giusto e ci sta bene...
a tutti i teatranti.
Una poesia al giorno
I Stanza, da “La ballata del carcere”, di Oscar Wilde (in Memoriam C.T.W. Già soldato delle guardie reali a cavallo. Obiit nel reale carcere di Reading, Berkshire il 7 luglio 1896).
I Stanza
Egli non indossava più la sua tunica dal colore scarlatto, poiché il sangue ed il vino sono rossi ed il sangue ed il vino erano sparsi sulle sue mani, quando lo trovarono assieme con la morta, quella povera donna ch’egli amava e che aveva uccisa nel suo letto.
Egli camminava in mezzo agl’imputati, vestito d’un abito grigio logoro; aveva in capo un berretto da sport e gaio e leggero pareva il suo passo; - ma io non vidi mai un uomo fissare così intensamente la luce.
Mai io non vidi un uomo fissare con occhio così ardente quella esigua striscia d’azzurro che i prigionieri chiamano il cielo ed ogni nuvola che fluttuava e passava come vela d’argento.
Con altre anime in pena io camminavo in un altro recinto, domandandomi se quell’uomo avesse commesso un piccolo o un grande delitto, quando sentii qualcuno che mormorava a bassa voce dietro di me: quello sarà impiccato.
Ah! Cristo! Le mura stesse della prigione parvero improvvisamente vacillare e il cielo sulla mia testa divenne come una volta d’acciaio; e, benché io pure fossi un’anima in pena, la mia pena io non la potevo sentire più.
Io seppi solamente quale ostinato pensiero affrettava il suo passo e perché egli guardava la tormentosa luce del giorno con un occhio così intenso: l’uomo aveva ucciso colei che amava: e per ciò egli doveva morire.
Eppure ogni uomo uccide ciò ch’egli ama, e tutti lo sappiamo: gli uni uccidono con uno sguardo di odio, gli altri con delle parole carezzevoli, il vigliacco con un bacio, l’eroe con una spada!
Gli uni uccidono il loro amore, quando sono ancor giovani; gli altri, quando sono già vecchi; certuni lo strangolano con le mani del Desiderio, certi altri con le mani dell’Oro; i migliori si servono d’un coltello, affinché i cadaveri più presto si gelino.
Si ama eccessivamente o troppo poco; l’amore si vende o si compra; talvolta si compie il delitto con infinite lagrime, talaltra senza un sospiro, perché ognuno di noi uccide ciò ch’egli ama - eppure non è costretto a morirne.
Non è costretto a morire d’una morte infamante in un giorno di tetra iattura, non ha intorno al collo il nodo scorsoio, né la maschera sulla sua faccia; non sente, attraverso il palco, i suoi piedi precipitare nel vuoto.
Non è costretto a vivere assieme a degli uomini taciturni che lo sorvegliano di giorno e di notte; che lo spiano quando vorrebbe piangere o quando tenta di pregare; che lo spiano per la paura ch’egli stesso defraudi la prigione della sua preda.
Non è costretto a destarsi sul far dell’alba per scorgere delle spaventose figure raccolte nella sua cella; il Cappellano che trema, paludato di bianco, lo Sceriffo severo, in attitudine di compunzione e il Governatore tutto nero e cerimonioso - con una gialla faccia da Giudizio Universale.
Non è costretto a levarsi con una fretta che fa pietà, per indossare i suoi abiti di condannato, mentre il medico dalla bocca volgare lo cova cogli occhi e prende nota di ogni gesto grottesco e di ogni contrazione nervosa, maneggiando un orologio i cui deboli tic-tac somigliano ai colpi sordi di un orribile martello.
Non è costretto a conoscere la sete bruciante che strazia la gola, prima che il carnefice con i suoi guanti di ruvido cuoio entri per la porta ferrata e vi leghi con tre cinture, in modo che la vostra gola non abbia più sete.
Non è costretto ad inginocchiarsi per ascoltare il salmo dell’Ufficio dei Morti; e, mentre il terrore della sua anima gli accerta che non è morto, non incontra la sua bara, entrando nell’orrida baracca.
Né è costretto a gettare un estremo sguardo al cielo attraverso un piccolo pertugio di vetro; e non prega con delle labbra argillose che la sua agonia termini presto; e non sente sulla sua guancia che rabbrividisce il bacio di Caifa.
Un fatto al giorno
10 maggio 1837: panico economico a New York. Il Panico del 1837 fu una depressione economica, una delle più gravi crisi finanziarie nella storia degli Stati Uniti. Il panico nacque da una febbre speculativa. La bolla scoppiò il 10 maggio 1837 a New York, quando tutte le banche bloccarono tutti i pagamenti in monete (d'oro e d'argento). Al panico seguirono cinque anni di depressione, con il fallimento delle banche e livelli record di disoccupazione. “Il panico bancario del 1837 venne seguito da condizioni economiche eccessivamente disturbate e da una lunga contrazione fino al 1843, e fu interrotto solo da una breve ripresa dal 1838 al 1839. Questa Grande Depressione è particolarmente interessante ai nostri scopi. È l'unica depressione di cui si ha notizia, comparabile per gravità ed estensione con la Grande Depressione degli anni 1930, e le sue concomitanze monetarie replicarono abbondantemente quelle di questa crisi successiva. In entrambe, una parte sostanziosa delle banche negli Stati Uniti cessò di esistere per chiusura o fusione - circa un quarto nella prima e oltre un terzo nell'ultima contrazione - e la quantità di denaro decrebbe di circa un terzo. Non esiste altra contrazione economica che si avvicini a questo triste record. In entrambi i casi, una politica governativa erratica o stolta nei confronti della moneta, giocò un ruolo importante”.
(Milton Friedman)
Il panico nacque da una febbre speculativa e la bolla scoppiò il 10 maggio 1837 a New York, quando tutte le banche bloccarono i pagamenti in monete d'oro e d'argento. Al panico seguirono cinque anni di depressione, con il fallimento delle banche e livelli record di disoccupazione. Le cause essenzialmente furono le politiche economiche del presidente Andrew Jackson, tra cui la "Circolare sulla moneta" e il ritiro dei fondi governativi dalla “Second Bank of the United States”.
(Andrew Jackson)
Martin van Buren, l'erede scelto da Jackson, che divenne presidente nel marzo del 1837, cinque settimane prima che il panico ingolfasse l'economia, venne incolpato dell'accaduto.
Il suo rifiuto di coinvolgere il governo nell'economia venne visto da alcuni come un contributo ai danni e alla durata del panico.
L'inflazione della cartamoneta venne causata dall'emissione da parte delle banche di banconote che non potevano riscattare in monete d'oro o d'argento (note come "hard money", moneta sonante); queste banconote persero valore nel tempo, così che ne occorrevano di più per acquistare le stesse cose che erano state comprate a meno in precedenza.
Erano in circolazione molti pezzi di carta, i cui proprietari erano ansiosi di riconvertire al più presto in denaro "reale" ovvero monete.
Il boom dei primi anni '30 venne guidato dalla costruzione di canali e di schemi che diedero il via alla prima rete ferroviaria statunitense. Il governo federale incoraggiò la febbre speculativa vendendo milioni di acri di terreni demaniali in stati dell'ovest come Michigan e Missouri, principalmente a speculatori con denaro contante a loro disposizione, che rivendettero e comprarono nella speranza di accaparrarsi appezzamenti di terra ben posizionati che sarebbero aumentati di valore; valore reale e valore sulla carta, una volta che caselli, canali e le promesse ferrovie avessero portato i coloni in cerca di terra, avrebbero fatto alzare i prezzi.
Essi avviarono economie locali con gli insediamenti, gli allevamenti e comprando rifornimenti per le nuove cittadine, solitamente posizionate vicino a quelle linee ferroviarie e quei canali, e talvolta creando più domanda per certi beni di quante fossero le scorte disponibili.
Una domanda maggiore dell'offerta causa inoltre prezzi inflazionati. La cartamoneta emessa da banche di dubbia reputazione, stava surriscaldando l'economia nazionale.
Il tesoro degli Stati Uniti stava accumulando un surplus di bilancio, che i membri del Congresso votarono per distribuire nella primavera del 1837, passando i fondi ai loro distretti di origine, dove questa manna piovuta dal cielo venne rapidamente investita in canali, caselli e compagnie ferroviarie.
Jackson e il suo Segretario del Tesoro, Levi Woodbury, emanarono la Circolare sulla moneta, ordinando che dal 15 agosto 1836 il Tesoro statunitense cessasse di accettare banconote e accettasse solo monete in oro o argento come pagamenti per le terre demaniali.
Molte banche di stato e piccole banche locali non avevano monete per ripagare le banconote. Invece dell'attesa inondazione di oro e argento nelle casse del tesoro nazionale, le vendite di terreni crollarono a un quarto del livello dell'anno precedente, le compagnie iniziarono a pagare i loro lavoratori con certificati, iniziarono a circolare i pagherò e i pagamenti in moneta diminuirono.
La domanda di moneta ad ovest si trasferì rapidamente a New York.
Soltanto nelle prime tre settimane di aprile a New York fallirono 250 case d'affari. Alla fine, il 10 maggio 1837 il denaro di carta non poteva più essere riscattato in oro o argento.
Lo storico dell'economia Peter Rousseau indicò come cause del panico del 1837 una serie di trasferimenti interbancari di saldi governativi e un incremento di domanda di monete ad ovest, indotto dalla politica, che prosciugò le più grandi banche di New York delle loro riserve in moneta e rese il disastro inevitabile. Un cuscinetto bancario centrale di qualche tipo avrebbe potuto evitare alcuni fallimenti locali. Anche se van Buren non causò il Panico del 1837, venne giudicato duramente e non riuscì ad essere rieletto: era ideologicamente impegnato nel mantenere il governo al di fuori della regolamentazione bancaria e questa fu una risoluzione che estese gli effetti del panico fino al 1843.
Una frase al giorno
Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta: "Ti odierò, se posso; se no, t'amerò contro voglia".
(Francesco Petrarca)
Un brano al giorno
"Sono passati i giorni" (1974) di Tito Schipa Jr.
“Questa è una delle più belle composizioni della canzone d’autore italiana. Non so se tutti ne hanno conoscenza (e/o coscienza). Si tratta di “Sono passati i giorni” (1974) una canzone di Tito Schipa Jr, uno dei più grandi artisti italiani, autore tra l’altro nel 1970 della prima opera rock italiana: Orfeo 9. Più che una canzone è una meta-canzone cioè una canzone che parla di una canzone, della sua importanza, della sua genesi, del suo oblio e di cosa rappresenta questo oblio che il tempo ci porta mentre ci cambia. Il protagonista ritrova su una carta ormai ingiallita il testo di una vecchia canzone dimenticata. La prima parte della canzone è il testo mai concluso della canzone: quattro amici partono per un week-end in un periodo della giovinezza in cui si pensa di essere padroni del mondo e di poterlo cambiare. Devono raggiungere una casa dove vive qualcuno che li aspetta. Ma chi era? (si domanda oggi il protagonista). Arrivano alla casa che è già notte, il protagonista apre la porta ed entra. E qui finiscono i suoi ricordi e anche la prima parte della canzone. Sono passati i giorni (e gli anni) e il protagonista nel rileggere questa canzone mai finita vi intravede la sua grafia di allora, cambiata come la sicurezza che aveva in quel tempo. Non ricorda più cosa ci fosse in quella casa né chi li aspettasse, sa solo che sono passati i giorni, i giorni in cui riusciva a trasformare una gita, un tramonto, una nottata in poesia, i giorni in cui era convinto di potere, in soli pochi versi, dare un nome ad ogni pensiero. Ma la canzone non è solo questa particolare struttura narrativa; è anche musica in crescendo, scrittura suggestiva, suoni onomatopeici (il ron ron del motore, il ta-klunk dell’audio cassetta che entra nell’autoradio) versi immaginifici e a tratti cinematografici (la rete a strascico delle stelle che imprigionano gli eucalipti della valle, il crepuscolo di sfondo, la rima tra “est” e “resto”). E poi la voce di Tito e la sua interpretazione. Consiglio a chi non lo conoscesse ancora di ascoltare le sue opere e di andarle a sentire dal vivo, visto che continua a fare concerti e proiezioni del suo Orfeo 9”.
(Gian Luigi Ago)
SONO PASSATI I GIORNI (Tito Schipa Jr.)
A lasciarci dietro la città
per un week-end di libertà
non eravamo solo noi
Ma il ron-ron ipnotico che fa
il mio motore quando va
Forse il sogno d’esser soli al mondo
col crepuscolo per sfondo ci portò
Marco accese un’altra sigaretta
poi il ta-klunk di una cassetta
e quel flauto incominciò
Anna disse in fondo chi lo sa
guardate quelle case là
Forse siamo noi forse son loro
a spostarsi non è chiaro
e s’incantò
Il tuffo del sole affogò le parole
laggiù giù con sé
Il viso di Sandra
si colorò d’ambra
noi in silenzio si guardò
Poi la prima stella che spuntò
verso la sera ci attirò
Ci attirò nella sera
La stradina che deviava ad est
oltre l’asfalto il fumo e il resto
ci raccolse e evaporò
Viaggiavamo sulla giusta via
quella che ognuno pensa è mia
Poi una rete a strascico di stelle
gli eucalipti della valle imprigionò
Resta la mia mano sul volante
il cuore batte poco più distante
è tutto quel che so di me e di quel che ho
La casina bianca si raggiunge
che è già notte da un bel po’
Canta un grillo la liberazione
ma una luce sul balcone dice no
La casa viveva
qualcuno attendeva
qualcuno ma chi?
Pensieri già spenti rinascono attenti
ritorna l’ombra di un perché
Spengo il mio motore
ed anche l’eco di un timore
ora si è spento
Apro la porta ed entro
Sono passati i giorni, sono passati i giorni,
Sono passati i giorni, sono passati i giorni.
Questa è una canzone mai finita
cominciata e poi perduta chissà quanto tempo fa
Restituita da una carta ormai ingiallita
e la grafia è la mia ma ad un’altra età
Forse al tempo in cui la mia poesia
non tradiva una mania d’eternità
Il Tempo che è un prestigiatore d’arte
ha continuato il gioco con le sue tre carte
Prima Adesso e Poi
Ha cristallizzato la sua scia
sui vetri e sulle porte a casa mia
non è così da voi?
E’ così da me da me che scrivo
sempre meno bravo a dire quel che ho
A dire d’un male che amaro risale dal fondo di me
Rileggendo quella strana mia canzone
ormai lontana che non mi ricordavo più
Che ci fosse in quella casa io non ricordo
ma una cosa so
sono passati i giorni
Son passati i giorni in cui una gita
un tramonto e una nottata in poesia mi torni
Ma in quei trenta versi io ve lo giuro
non so come ero sicuro
Che avrei dato un nome a ogni pensiero
e davvero non ci avrei pensato più
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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web www.brusaporco.org