L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
LES AVENTURES DE TILL L'ESPIÈGLE (Francia - Germania Est, 1956), regia di Gérard Philipe, Joris Ivens. Dialoghi di René Bariavel. Fotografia di Christian Matras. Musica di Georges Auric. Cast: Gérard Philipe: Till Eulenspiegel, Jean Vilar: The Duke of Alva, Fernand Ledoux: Claes, Nicole Berger: Nele, Jean Carmet: Lamme Goedzak. Jean Debucourt: The cardinal. Erwin Geschonneck: Bras d'Acier. Wilhelm Koch-Hooge: William the Silent. Elfriede Florin: Soetkin.
“Il film si ispira al romanzo Till Eleunspiegle di Charles de Costner. Nel diciassettesimo secolo un giovane di un piccolo paese, Till (Philipe), per reagire alla tirannia degli spagnoli che hanno sottomesso le Fiandre, si introduce di nascosto nella corte del nemico. Riuscirà con trucchi e travestimenti a indebolire il potere spagnolo dall'interno, creando situazioni sempre più caotiche e avventurose, fino a cacciare gli invasori dalla regione.
Unico film diretto dal celeberrimo attore francese Gerard Philipe e prima co-produzione est-ovest del dopoguerra, Le diavolerie di Till era un soggetto caro a Ivens che intraprese una co-regia. Malgrado la stima e l'amicizia i due non riuscirono a condividere il set e si divisero nettamente i ruoli. Per ammissione dello stesso Ivens che gestì la produzione, Philipe è da riconoscere come unico autore dell'opera Die Abenteuer des Till Eleunspiegel”.
(in cinemambiente.it)
“È l'unica regia cinematografica di Philipe e il solo film di fiction cui abbia collaborato il grande documentarista Ivens. Nonostante i grandi mezzi messi a disposizione dalla Defa di Berlino Est, è un'opera spuria e mancata, il tentativo fallito di fare un Fanfan la Tulipe progressista e patriottico. Titolo tedesco Till Eulenspiegel».”
(In www.cinemedioevo.net)
“Uno dei rarissimi esempi di film di finzione nella sterminata carriera del documentarista Joris Ivens (qui accompagnato alla regia da Gérard Philipe), Le diavolerie di Till è anche uno dei titoli meno riusciti del cineasta olandese. La pellicola, tratta dall'omonimo romanzo di Charles De Coster, non riesce a catturare pienamente l'attenzione dello spettatore dimostrandosi troppo presto priva del giusto fascino e della grinta necessaria (sia narrativa che stilistica) per far sembrare credibili le vicende, completamente basate su un sentimento di rabbia e di rivalsa. I personaggi che dominano la scena sembrano più che altro mossi da motivazioni futili, e le tinte leggere e briose impresse dalla regia (probabilmente per accontentare una larga fascia di pubblico più affine alle commedie che ai film in costume) risultano fuori luogo e poco credibili. Buona ricostruzione storica, ricca di dettagli.”
(In www.longtake.it)
“Creazione francese e RDT, il Till di Philipe e Ivens, unico film di cui il grande attore francese firma la co-regia e unica opera narrativa (a colori) del grande cineasta documentarista olandese, è il tentativo di produzione di un kolossal di ‘sinistra’ agli albori della guerra fredda, comunque un’epica della Resistenza nello specchio della narrativa storica della guerra popolare delle Fiandre in opposizione dalla dominazione imperialista-cattolica della Spagna. Una grande profusione di mezzi e di idee cinematografiche e attoriali, la vivacità del montaggio, l’onnipresente carisma del mitico grande attore, la precisione dei dialoghi, la esibizione di fantasia coloristica dominata ovviamente da un rosso non sanguigno ma felicemente eroico, la sapienza registica del più rigoroso occhio da macchina da presa della storia, tutto ciò non bastò ad un’opera tanto impegnata e pervasa di poetiche politiche estremamente accese e del pari autorevoli (molti personaggi derivano direttamente al cast dalla Comédie Française) di ‘sfondare’ nel mondo universo come caso-modello di epica spettacolare ‘dalla parte giusta’. Era successo qualcosa del genere nella Francia del ’38 con il film di Renoir La Marseillaise, parimenti opera di enormi dimensioni mélo, altrettanto epica, autofinanziata in grande dai Sindacati e dal Fronte Popolare, egualmente inabissatasi nell’oblio e negletta dalla Storia del cinema.
Till Eulenspiegel è un personaggio di finzione, burlone-buffoncello di paese, di origine alto tedesca. Thyl Thijll, Dyl Uilenspiegel in olandese. (...)”
(In: www.cini.it)
Il film:
- Les Aventures de Till l'espiegle Film Stream
- oppure in: En mode Aventure
Un’ attrice: “Nicole Berger (nata Nicole Gouspeyre, 12 giugno 1934 - 13 aprile 1967) fu un'attrice francese. Berger è nata a Parigi. Ha avuto una breve carriera teatrale, in particolare nella Compagnie Barrault-Renaud, prima di iniziare a girare. Claude Autant-Lara le diede la sua prima vera possibilità nel 1954, dandole uno dei tre ruoli principali in Le Blé en herbe. Ha continuato a recitare film dal 1956 al 1963, poi ha avuto una pausa per due anni durante i quali si è esibita in un solo film. Poi si è rivolta alla televisione, interpretando la protagonista della soap "Cecilia". È morta in un incidente d'auto a Eure, auto guidata da Dany Dauberson.”
(In wikipedia.org)
13 aprile 1967 muore Nicole Berger, attrice francese, nata nel 1934.
Una poesia al giorno
Enueg II, di Samuel Beckett
world world world world
and the face grave
cloud against the evening
de morituris nihil nisi
and the face crumbling shyly
too late to darken the sky
blushing away into the evening
shuddering away like a gaffe
veronica mundi
veronica munda
give us a wipe for the love of Jesus
sweating like Judas
tired of dying
tired of policemen
feet in marmalade
perspiring profusely
heart in marmalade
smoke more fruit
the old heart the old heart
breaking outside congress
doch I assure thee
lying on O’Connell Bridge
goggling at the tulips of the evening
the green tulips
shining round the corner like an anthrax
shining on Guinness’s barges
the overtone the face
too late to brighten the sky
doch doch I assure thee
Enueg II (traduzione)
mondo mondo mondo mondo
e il volto austera
nuvola sullo sfondo della sera
de morituris nihil nisi
e il volto a sgretolarsi timido
troppo tardi per tenebrare il cielo
che arrossa nella sera
come una gaffe rabbrividendo via
veronica mundi
veronica munda
da’ noi una pulitina per amor di Gesù
sudando come Giuda
stanco di morire
stanco dei poliziotti
coi piedi in marmellata
copiosamente a traspirare
col cuore in marmellata
fumo addizionato al frutto
col vecchio cuore il vecchio cuore
che prorompe fuori congresso
doch ti rassicuro
sdraiato sull’O’Connell Bridge
a sgranare gli occhi sui tulipani della sera
sui verdi tulipani
che splendono dietro l’angolo come un antrace
che splenda sulle chiatte della Guinness
in sovratono il volto
troppo tardi per rischiarare il cielo
doch doch ti rassicuro
Commento politico di Giorgio Linguaglossa. La poesia del «negativo» di Samuel Beckett.
Scrive Samuel Beckett nel saggio su Proust: “Il tentativo di comunicare, laddove nessuna comunicazione è possibile, è soltanto una volgarità scimmiesca, o qualcosa di orrendamente comico, come la follia che fa parlare coi mobili. […] Per l’artista che non si muove in superficie, il rifiuto dell’amicizia non è soltanto qualcosa di ragionevole, ma è un’autentica necessità. Poiché il solo possibile sviluppo spirituale è in profondità. La tendenza artistica non è nel senso dell’espansione, ma della contrazione. E l’arte è l’apoteosi della solitudine. Non vi è comunicazione poiché non vi sono mezzi di comunicazione.”
Leggere oggi queste poesie di Beckett può essere se non utile, direi indispensabile, o almeno salutare per via di quell’imbruttimento allo stadio zero della «comunicazione» (questa orribile pseudo categoria oggi di moda) che la sua poesia recepisce dalla lingua di relazione. Quella di Beckett è una sorta di super lingua, quali sono diventati l’inglese, il francese, l’italiano di uso corrente oggi nelle classi abbienti e meno abbienti, come tutte le altre lingue dell’Europa occidentale. Arte «cupa», lo afferma Adorno, con l’impiego del «fun» a renderla appetibile e digeribile.
Direi che quella di Beckett è, appunto, una poesia di uso corrente, che impiega parole correnti del linguaggio parlato del linguaggio internazionale quale è quello che usiamo nei commerci quotidiani. Direi che è scomodo affrontare un autore che non ci dà alcun appiglio per un discorso critico; un critico dinanzi a queste poesie non può dire nulla, quello che può dire è che esse si sottraggono con tutte le forze a qualsiasi discorso ermeneutico.
Sono poesie anti ermeneutiche. Del resto, tutta l’opera teatrale e narrativa dello scrittore irlandese vuole raggiungere questo obiettivo: sottrarsi alla indagine ermeneutica, sottrarsi al lettore, allo spettatore, al fruitore chicchessia, non offrire nessun appiglio o alibi, porsi come il «negativo» di un pensiero estetico che pensa il «negativo», negativo esso medesimo. Ma già parlare a proposito di Beckett di «pensiero estetico» è un reato di opinione, il «pensiero estetico» presuppone altre categorie quali la Forma, il Tempo, il Soggetto, l’Oggetto, la Scrittura, il Romanzo, la Poesia, la Commedia, etc. Ebbene, l’opera poetica di Beckett si sottrae a tutto ciò, è estranea a queste categorie. Così, il fatto che lui scriva delle poesie non deve indurci in tentazione, queste che presentiamo non sono poesie, né anti poesie come era d’uso pensare nel Novecento delle post-avanguardie, sono nient’altro che scritture del negativo, registrazione burocratica del negativo, e neanche della negazione, perché il negativo beckettiano è estraneo allo stesso concetto di «negazione», che implicherebbe pur sempre un quantum, sia pur esilissimo, di positività.
E certo il primo assunto su cui si basa questa «poetica», diciamo così, è la negazione del concetto di poetica e di «comunicazione» oggi tanto in voga presso la chatpoetry e il chatnovel, le viandanze turisticamente agghindate, carcasse della sotto cultura ceto-mediatica di oggi. La poesia beckettiana, al pari di tutta la sua opera, si situa al di qua della «comunicazione» e al di là di ogni concetto di «poetica» impegnata politicamente o civilmente, in un certo senso essa è socialmente incivile, infungibile e quindi si sottrae al concetto di «rappresentazione» per approdare ad un deserto assoluto che presuppone la incomunicazione quale categoria di base della scrittura. Il che non vuol dire sguardo pessimistico o negativo sul mondo, quanto un mondo senza sguardo, né interno né esterno, un mondo senza un observer. Un mondo senza una entità che lo osserva, è qualcosa che sta al di qua del senso e del non senso, al di qua del concetto di rappresentazione e al di qua della mera ragionevolezza. Dirò di più, queste poesie sono delle «cose» che non sortiscono da alcun pensiero critico, perché già esso presupporrebbe una esilissima stoffa di positività che nel pensiero di Beckett è invece del tutto assente.
Meglio dunque non dire nulla, come del resto vorrebbe lo stesso Beckett. Ma questo dovevo pur dirlo, cioè non dire alcunché per indicare il «nulla» che queste poesie mostrano ma non perché occorra dare una dimostrazione del «nulla» quanto che il «nulla» si mostra così com’è. E con questo penso di aver dato una interpretazione di Beckett dal punto di vista di una «nuova ontologia estetica».
Ha scritto Adorno: «Un uomo, che con una forza ammirevole sopravvisse ad Auschwitz ed altri campi di concentramento, opinò appassionatamente contro Beckett, che se questi fosse stato ad Auschwitz, scriverebbe diversamente, cioè con la religione da trincea di chi è sfuggito, più positivamente. Lo sfuggito ha ragione in un senso diverso da quello inteso; Beckett, e chi altri ancora restò capace di controllarsi, là sarebbe stato spezzato e presumibilmente costretto a convertirsi a quella religione da trincea, che lo sfuggito rivestì di parole: voleva dar coraggio agli uomini. Come se si trattasse di una qualche formazione spirituale, come se l’intenzione che si rivolge agli uomini e si organizza secondo loro non gli tolga ciò che potrebbero pretendere, anche quando credono il contrario. Così è finita la metafisica.».
(In T.W. Adorno Dialettica negativa trad. it. Einaudi, 1970, p. 332”. Traduzione della poesia e saggio in: lombradelleparole.wordpress.com)
“Samuel Barclay Beckett (Dublino, 13 aprile 1906 - Parigi, 22 dicembre 1989) drammaturgo, scrittore, poeta, traduttore e sceneggiatore irlandese. Considerato uno degli scrittori più influenti del XX secolo, Beckett, il cui capolavoro è Aspettando Godot, è senza dubbio la più significativa personalità (insieme a Eugène Ionesco, Arthur Adamov e al primo Harold Pinter) di quel genere teatrale e filosofico che Martin Esslin definì Teatro dell'assurdo. Ma la sua produzione artistica va intesa in senso più ampio, in quanto fu autore complesso anche nel campo radiofonico e televisivo e cinematografico (film del 1965 con Buster Keaton).
Autore di romanzi e di poesie, nel 1969 Beckett venne insignito del Premio Nobel per la letteratura «per la sua scrittura, che - nelle nuove forme per il romanzo ed il dramma - nell'abbandono dell'uomo moderno acquista la sua altezza»”
(Articolo completo in wikipedia.org)
Immagini:
- Masolino D'Amico sul capolavoro di Beckett
- L'ultimo nastro di Krapp. Regia di Guido Ferrarini
Il 13 aprile 1906 nasce Samuel Beckett, scrittore, poeta e drammaturgo irlandese, premio Nobel per la Letteratura nel 1969 (morì nel 1989).
Un fatto al giorno
13 aprile 1945 (un fatto di cui non si può parlare): Seconda guerra mondiale, le truppe tedesche uccidono più di 1.000 prigionieri politici e militari a Gardelegen, in Germania.
“Il 13 aprile si ricorda un episodio più o meno sconosciuto avvenuto verso la fine della II guerra mondiale, ad opera delle SS e della Luftwaffe: il massacro di Gardelegen.
I tedeschi, per impedire la liberazione di un gruppo di prigionieri da parte degli americani che avanzavano, evacuarono 1.016 prigionieri da campo di lavoro di Mittelbau-Dora, li concentrarono in un fienile e appiccarono i fuoco. La maggior parte dei prigionieri bruciarono vivi, altri che cercavano di fuggire furono fucilati. La foto, presa 4 giorni dopo da parte di William Vandivert, mostra circa 150 cadaveri sul pavimento del magazzino, sullo sfondo ci sono tre soldati americani della 9^ Armata che prese Gardelegen il 17 aprile e trovò l'edificio che ancora bruciava.”
"Heinrich Himmler, capo supremo delle SS, ordinava che nessun prigioniero sarebbe dovuto cadere vivo in mani nemiche: "Kein Häftling darf lebendig in die Hände des Feindes fallen".
Negli ultimi mesi della Seconda Guerra mondiale, i prigionieri presenti nei campi di concentramento erano circa 714mila. Con l'arrivo degli anglo-americani da ovest e dell'Armata Rossa da est, tra l'aprile 1944 e la primavera 1945, moltissimi di questi prigionieri vennero costretti ad una nuova agonia: l'evacuazione dai campi e le cosiddette "marce della morte".
Centinaia di migliaia di detenuti, già stremati da mesi di privazioni, violenze e lavori forzati, venivano obbligati a marciare fino alle prime stazioni ferroviarie utili. Dopo un viaggio reso estenuante da ogni tipo di stenti, i prigionieri dovevano camminare ancora per chilometri per raggiungere i campi di raccolta. Quelli che non riuscivano a stare al passo o che tentavano di fuggire venivano trucidati dalle guardie di scorta.
Per la prima volta le marce della morte non sono più considerate come epilogo della vita dei campi di concentramento, ma come capitolo centrale della storia del genocidio nazista, iniziato nel 1941 e conclusosi con la fine della guerra, inteso nella sua prospettiva più ampia.
Daniel Blatman, docente all'Università ebraica di Gerusalemme, con alle spalle diversi lavori sulla storia degli ebrei, supera l'approccio assunto nei dibattiti processuali del dopoguerra, che si concentrano sull'aspetto amministrativo e burocratico, e quello di molta storiografia tra gli anni '60 e '90, che considera la fase dell'evacuazione soltanto come "l'ultimo atto omicida di matrice ideologica nel contesto della soluzione finale". Basti pensare solo al fatto che in questa fase le vittime non sono più identificabili con una precisa etnia, ad esempio gli ebrei, o con un gruppo religioso, ad esempio i testimoni di Geova.
Blatman ha consultato le indagini processuali condotte nella Repubblica Federale Tedesca e in Austria e le innumerevoli testimonianze di sopravvissuti, sparse negli archivi di tutto il mondo. Collocate nell'ampio contesto culturale, politico e militare in cui avvenne l'evacuazione, le marce dei prigionieri si intrecciano con la fuga dei civili profughi dall'Est, terrorizzati dall'avanzare dei sovietici, e con le vicende della popolazione tedesca, smarrita e confusa dinanzi al precipitare degli eventi. L'importanza dello studio consiste anche nella ricchezza e varietà degli episodi di microstoria, il più emblematico dei quali fu il massacro di Gardelegen, cittadina dell'Altmark, in Sassonia, nell'aprile 1945.
Con una scrittura agile, Blatman riesce egregiamente nel suo sforzo storico e narrativo ad indagare l'identità, l'emotività e le motivazioni di carnefici, vittime, liberatori, ma anche dei civili tedeschi, che la confusione degli ultimi mesi di guerra e la quotidianità carica di tensione trasformarono anche in occasionali carnefici.”
(In st.ilsole24ore.com)
Da dove venivano le vittime del massacro:
La doppia deportazione dal carcere di Sulmona. Il carcere di Badia di Sulmona, situato in un ex convento, entrò in funzione all'indomani della presa del potere da parte di Mussolini.
I primi "slavi" condannati per attività antifasciste - sloveni e croati provenienti dalle zone integrate nel Regno d'Italia dopo la prima guerra mondiale - arrivarono nella casa penale di Badia di Sulmona già nella seconda metà degli anni '20. Il loro numero tuttavia lievitò con l'attacco dell'Italia alla Jugoslavia e la conseguente occupazione di ampie aree del paese. Nell'estate del 1943 vi si trovavano, oltre a italiani e greci, numerosi detenuti politici provenienti dalla Slovenia, dalla Dalmazia e dal Montenegro, ma anche, in misura minore, dalla provincia del Carnaro.
Il profilo dei detenuti
Ci si focalizzerà qui sulla vicenda della doppia deportazione di persone provenienti dal territorio dell'odierna Croazia, che furono inviati dalle autorità italiane a scontare la propria pena a Sulmona - in alcuni casi dopo essere transitati per diverse carceri situate in territori occupati dall'Italia o nella stessa penisola -, e da qui furono deportati dai tedeschi dopo l'8 settembre 1943. Un'analisi del profilo dei deportati - provenienti in gran parte dalla Dalmazia - offre anche un significativo affresco dell'attivismo politico antifascista nell'area appartenuta al Regno di Jugoslavia nei mesi precedenti l'8 settembre 1943.
(...)
I sopravvissuti alla doppia deportazione attraverso il carcere di Sulmona iniziarono a ritornare in Jugoslavia dal giugno 1945. Alcuni di loro erano tuttavia stati liberati in precedenza grazie all'intervento della Croce Rossa. L'estrema frammentazione dei loro percorsi di deportazione rende al momento impossibile una stima attendibile del numero dei sopravvissuti.”
(Leggi tutto l’articolo di Francesca Rolandi in: lavoroforzato.topografiaperlastoria.org)
- Immagini del massacro in: www.criticalpast.com
Una frase al giorno
“Nella vita, se uno vuol capire, capire sul serio come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare...”
(Giorgio Bassani in Il giardino dei Finzi-Contini)
“Giorgio Bassani (Bologna, 4 marzo 1916 - Roma, 13 aprile 2000) scrittore, poeta e politico italiano, fondatore e poi presidente di Italia Nostra dal 1965 al 1980.
“Nato a Bologna il 4 marzo del 1916 da una famiglia della borghesia ebraica, Giorgio Bassani trascorse l’infanzia e la giovinezza a Ferrara, destinata a divenire il cuore pulsante del suo mondo poetico. Si laureò in Lettere nel 1939 a Bologna.
Durante gli anni della guerra partecipò attivamente alla Resistenza e conobbe anche l’esperienza del carcere; nel 1943 si trasferì a Roma, dove visse per tutta la vita, pur mantenendo sempre fortissimo il legame con la città d’origine. Fu solo dopo il ’45 che si dedicò all’attività letteraria in maniera continuativa, lavorando sia come scrittore (poesia, narrativa e saggistica) sia come operatore editoriale: è significativo ricordare che fu proprio lui ad appoggiare presso l’editore Feltrinelli la pubblicazione de Il gattopardo, romanzo segnato dalla stessa visione liricamente disillusa della storia che si incontra anche nelle opere dell’autore de Il giardino dei Finzi Contini.
Bassani ha lavorato anche nel mondo della televisione, arrivando a ricoprire il ruolo di vicepresidente della Rai; ha insegnato nelle scuole ed è stato anche docente di Storia del teatro presso l’Accademia d’Arte Drammatica di Roma. Ha partecipato attivamente alla vita culturale romana collaborando a varie riviste, tra cui «Botteghe Oscure», rivista di letteratura internazionale uscita tra il ’48 e il ’60. Va inoltre ricordato il suo lungo e costante impegno come presidente dell’associazione Italia Nostra, creata in difesa del patrimonio artistico e naturale del Paese.
Dopo alcune raccolte di versi (tutte le sue poesie verranno poi raccolte in un unico volume nel 1982, con il titolo In rima e senza) e la pubblicazione in un unico volume delle Cinque storie ferraresi nel 1956 (alcune però erano già comparse singolarmente in varie edizioni), Bassani raggiunse il grande successo di pubblico con Il giardino dei Finzi Contini (1962): nel 1970 il romanzo riceverà anche un’illustre trasposizione cinematografica per opera di De Sica, dalla quale però Bassani vorrà sempre prendere le distanze. Le opere successive dello scrittore, sviluppate tutte intorno al grande tema geografico-sentimentale di Ferrara, sono Dietro la porta (1964); L’Airone (1968); L’odore del fieno (1973), riunite nel 1974 in un unico volume insieme con il romanzo breve Gli occhiali d’oro (1958), dal significativo titolo Il romanzo di Ferrara.
Dopo un lungo periodo di malattia, segnato anche da dolorosi contrasti all’interno della sua famiglia, Bassani si spense a Roma il 13 aprile del 2000.
Allo scrittore la sua città ha dedicato il grande parco detto dell'Addizione Verde, oggi Parco Giorgio Bassani, «che insieme con il museo Shoah, costituisce un monumentale esempio europeo di come si possa collegare il passato con il futuro, una ferita della storia con la bellezza leggera di un giardino pubblico» (Carl Wilhelm Macke, Giorgio Bassani, la Germania e l'Europa).”
(In www.fondazionegiorgiobassani.it)
Immagini:
- All’Orto Botanico di Roma Giorgio Bassani parla con Cesare Garboli
- Giorgio Bassani: Il Fascismo A Ferrara
Giorgio Bassani (Bologna, 4 marzo 1916 - Roma, 13 aprile 2000) attore e narratore in un film: Le Ragazze di Piazza di Spagna - Full Movie Multi Subs by Film&Clips
Regia: Luciano Emmer. Sceneggiatura: Sergio Amidei, Fausto Tozzi, Karin Valde. Con: Marcello Mastroianni, Lucia Bosè, Cosetta Greco, Liliana Bonfatti.
Tre bellissime ragazze, sarte in un salone alla moda vicino Piazza di Spagna, per pranzo si ritrovano sui gradini della famosa scalinata per raccontarsi le loro vicende amorose.
Un brano musicale al giorno
Anita Cerquetti canta "Madre, pietosa Vergine" in La Forza Del Destino, di Giuseppe Verdi.
Anita Cerquetti, soprano
Nino Sanzogno, direttore
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI di Roma
“Anita Cerquetti (Montecosaro, 13 aprile 1931 - Perugia, 11 ottobre 2014), Soprano drammatico italiano che ebbe una "meteorica" carriera negli anni '50. La sua voce era molto potente e piacevole per il pubblico.”
(Wikipedia)
“Rilassata, tranquilla, affabile e disponibile ad essere intervistata. Così si presenta nella sua casa di campagna a Castelnuovo che, nonostante sia Marittimo, è inerpicato sulle colline livornesi, Anita Cerquetti. Nella storia dell’opera è stata una meteora e come tale splendida, ma di brevissima durata. Siamo accolto festosamente dal famoso soprano e dal marito, circondati da alcuni parenti. Ci sediamo tutti attorno ad un tavolo, così alla buona e subito provvedono ad offrire un buon vino della zona. La signora Cerquetti si accende una sigaretta e non sarà l’unica nella serata. L’incontro si apre quindi sotto i migliori auspici. Parliamo. Mi sono preparato una valanga di domande.
Ci racconta un po’ dei suoi inizi di carriera?
«Il mio paese si chiama Montecosaro, in provincia di Macerata, dove sono nata il 13 aprile 1931 e ho debuttato in Aida a Spoleto nel 1950, a 19 anni; dirigeva il m° Ottavio Ziino. Vinsi il concorso a Spoleto e avrei dovuto fare Suor Angelica, perché non c’era Aida in programma, c’era il Trittico di Puccini e quella era l’unica opera drammatica. Poi durante le prove dissero che ero sprecata per fare un’opera in un atto e così decisero per l’Aida. L’ultima che ho fatto è stato il Nabucco ad Amsterdam».
La loquacità della Signora è affascinante quanto travolgente e tumultuosa; difficile redigere un racconto ordinato. Parla della sua breve e trionfale carriera con entusiasmo e, almeno in apparenza, nessun rimpianto. Si è ritirata nel ‘60, giovanissima, a 29 anni.
In Emilia ha cantato?
«Dalle vostre parti ho cantato a Reggio Emilia: feci Loreley con Bergonzi e il baritono Campolonghi, poi il Trovatore credo con Filippeschi e Aldo Protti. A Modena: Trovatore e Forza del destino. A Bologna un’Aida all’aperto in Piazza Maggiore. Dovevo cantare a Parma un Nabucco, ma saltò perché mi venne un’appendicite d’urgenza. Con Bergonzi ho cantato molte volte: ho fatto Trovatore, Forza, Don Carlos, Ballo, Aida, ma non riuscivo a vederlo come un guerriero; Carlo però aveva una linea di canto perfetta. Ho studiato a Firenze e lì ho cantato tanto: Nabucco, Norma al giardino dei Boboli, Gioconda, Don Carlos, Ballo in maschera, la Forza, gli Abencerragi di Cherubini, Ernani».
Quanti ricordi, tanti ricordi di persone… di voci?
«A me mi colpì la voce di Gino Penno, poi Bastianini, anche Björling nel Ballo in maschera a Chicago, anche se era un momentino usurato. Corelli a me piaceva molto; la Norma la faceva molto bene: l’ha fatta con me. Poi l’ho sentito in Carmen e mi piacque tanto. Un’altra voce che mi è sempre piaciuta moltissimo era quella di Di Stefano». Il colloquio si perde in mille rivoli difficili a governare. E’ evidente che gradisce la nostra testimonianza d’affetto e di stima. Riportiamo il discorso su un argomento preciso.
La sua voce, com’è stata educata e come ha superato eventuali problemi tecnici?
«No, problemi vocali non ne ho incontrati. La voce l’avevo impostata naturalmente. Lo studio mi è servito per ampliare la voce come volume, per cercare lo stile e la linea di canto. Avendo cominciato giovanissima ne avevo proprio bisogno, ma problemi vocali veri e propri non ne ho mai avuti. Per esercizio studiavo opere leggere, ma eseguivo opere drammatiche. Per esempio mi esercitavo facendo la romanza della Semiramide, del Flauto magico. Fortunatamente mi sono trovata una voce piuttosto forte e abbastanza duttile. Io poi avevo studiato il violino per sette anni, quindi la musica la conoscevo e gli spartiti potevo studiarmeli da sola, anche se suonavo con una mano, cioè la parte del canto».
Possiamo quindi dedurre che la sua voce sia stata un raro esempio di soprano drammatico di agilità naturale.
«Sì, è proprio così anche se all’inizio mi chiamavano lirico spinto; mi veniva tutto molto spontaneo. Qualche volta ho dovuto ritoccare alcune note: aprire questa, chiudere di più quella. Il mio passaggio era sul si bemolle che veniva meno brillante delle altre e allora con il mio maestro, il m° Rossini, studiavo e mi riascoltavo. Problemini qua e là, ma sempre risolti. Certe volte dipendeva da come e con chi avevo studiato un’opera. Mi capitò con la Forza, imparata un po’ così alla carlona, tant’è vero che quando l’ho dovuta fare nei teatri ho dovuto ristudiarla. Nella Forza, comunque, non sono mai riuscita a rendere quello che volevo. Certi effetti vocali che avrei voluto fare non mi riuscivano. Ecco cosa mi dava fastidio: stare zitta per tanto tempo e poi saltare fuori con l’aria. Guardi, dover attaccare con Pace mio Dio a voce fredda, quando ti sei scaricata psicologicamente, è tremendo. In quei lunghi intervalli non sapevo cosa fare; andavo in camerino a cantare non tanto per la voce, ma per tenermi caricata.
Mentre invece un’opera che mi piaceva da matti era il Trovatore, per me era un divertimento: era come andare in ferie, non mi stancava per niente. Molto impegnative per la voce erano Nabucco e Norma, ma la Norma non mi stancava vocalmente, mi stancava fisicamente. Alla fine ero distrutta, crollavo sulla sedia. Un’opera che avrei voluto fare era Carmen: mi è sempre piaciuta. La mia voce andava dal do acuto al do-la basso. Pensi che una volta ad Amsterdam, il direttore del Concertgebouw voleva farmi fare Rigoletto, perché secondo lui Gilda è un soprano drammatico! Chissà, forse poteva essere interessante. Tutte le opere presentano problemi da affrontare con grande umiltà e tanto studio. Ho fatto opere difficilissime: Norma, Nabucco, Mosé di Rossini per la RAI, anche il Ballo in maschera non scherza. Ernani mi veniva facile. Certo che per fare la romanza Ernani involami in tono me la cantavo tre volte in camerino: prima in tono, poi mezzo tono sopra, poi un tono sopra e sfioravo il re bemolle. Invece di fare i vocalizzi, come fanno tutti, me la cantavo tre volte così avevo la voce calda. Non le so dire quante ore al giorno studiassi. Quando dovevo fare opere più leggere, intercalavo con romanze leggere. Se venivo dalla Gioconda e poi dovevo fare il Mosè, allora cercavo di alleggerire e ritrovare l’agilità. Certi giorni con il mio maestro studiavo anche quattro o cinque ore, poi mi diceva “Ora basta e domani non si fa niente” quindi non c’era una regola fissa».
Il suo rapporto con i direttori d’orchestra…
«Mi sono trovata molto bene con Molinari Pradelli, con Santini, con Giulini e Serafin. Votto non era molto comunicativo, ma nel cuore mi è rimasto Mitropulos. Era un uomo amabilissimo che ti metteva subito a tuo agio in tutti i sensi: era facile cantare con lui. Qualche volta, con altri direttori, si discuteva sui tempi; all’inizio mi adattavo poi cercavo di vincere io, sia sui tempi che sul volume: più forte più piano. C’era un direttore che voleva ch’io cantassi Casta diva più forte, questo in disco, mentre io sostenevo di cantarla più piano essendo una preghiera. Ma lei ha capito di chi parlo, era un suo concittadino: Francesco Molinari Pradelli. Era un gran direttore con cui mi trovavo benissimo. Su Verdi era fantastico. Poi ricordo un altro grande direttore: Tullio Serafin che a Chicago si nascondeva dietro le quinte per sentirmi nel Ballo in maschera e non se ne andava. A chi lo veniva a chiamare diceva che era la prima volta in tanti anni di carriera che gli capitava di voler sentire una voce. E’ stato sempre dietro le quinte e poi andammo a cena insieme. I giornali del giorno dopo dissero che ero la pupilla di Serafin, e lo avevo conosciuto quella sera lì!
Dopo seppe che avrei fatto Gioconda e allora mi scrisse dandomi dei consigli. Mi diceva di stare attenta, perché è un’opera che si canta a fine carriera; non è che mi dicesse di non cantarla, ma di fare attenzione e di cantarla con quella dovuta cautela: non forzare le note, non forzare i centri. Nella Gioconda ci sono delle note basse da mezzosoprano che sono quelle che ti rovinano: poi magari devi fare un do o un si naturale. Ti trovi quel popò di notone che, se la voce non la spingi non hanno effetto. Poi, quando la feci, La Nazione scrisse che avevo cantato la Gioconda di Ponchielli come se fosse stata scritta da Mozart. Non sapevo se era una critica o un complimento; lo dissi a Serafin e lui mi rispose che era un complimento e di prenderlo come tale».
Quale consiglio darebbe ad un giovane che volesse intraprendere la carriera. Da chi lo manderebbe a studiare, da un cantante o da un maestro di musica?
«Da un cantante mai e nemmeno da un maestro di canto, ma da un maestro di musica: un vecchio direttore d’orchestra con una grande esperienza. Un giovane che si trova la voce deve fare le solite cose: studiare, avere tanta pazienza e la fortuna d’incontrare un maestro che lo capisca, anche per la scelta del registro, ché molti sbagliano. Vedi Bergonzi ritenuto baritono, Bastianini addirittura un basso. Lucia Danieli debutto da soprano per colpa della madre che, nonostante la maestra le dicesse che era mezzo-soprano, si oppose dicendo che non voleva mezze misure: o soprano intero o niente. Me lo raccontò lei, Lucia! Sa, è difficile dare consigli, perché ognuno ha una voce diversa dall’altro; è per questo che non ho fiducia nel maestro di canto, perché quello t’imposta la voce in un modo uguale per tutti. Poi circa quello che si deve cantare, oltre agli esercizi, posso parlare solo di me. Io ho cantato delle romanze di Tosti e Mozart, tanto Mozart! Comunque è tutto soggettivo, non si può generalizzare; a me se questa nota mi viene bene in una posizione, può essere che a un’altra signora la stessa nota venga bene in un’altra posizione. La voce, i suoni dipendono da tante componenti: la cavità del palato, l’apertura della bocca, la cavità nasale. Non si può dare un insegnamento unico che vale per tutti».
Fonte inesauribile di esperienze e di aneddoti, Anita Cerquetti, simpaticissima, improvvisamente ci parla di Beniamino Gigli, marchigiano come lei.
«A me Gigli piaceva moltissimo. Ci fu un concertino così informale, diciamo tra amici. Cantò un centinaio di romanze; alle tre di notte cantava ancora. Con lui ho fatto solo qualche concerto: opere non ne faceva più. Abbiamo cantato allo Sferisterio di Macerata e al teatro Lauro Rossi, sempre a Macerata. Abbiamo fatto romanze varie e duetti: si passava dal duetto delle ciliegie a quello della Cavalleria rusticana a quello dell’Otello. Che bei ricordi!»
Come ci si deve comportare in scena? Il suo rapporto con i registi?
«Io, più che altro mi soffermavo sugli atteggiamenti che alcune volte provavo davanti allo specchio. Con i registi ricordo una discussione con Squarzina, perché non andai ad una prova di luci degli Abencerragi. Io non sapevo di quella prova! Quando ritornai in teatro, Squarzina pretendeva che gli chiedessi scusa ed io gli dissi che, se dovevo chiedere scusa a qualcuno, l’avrei chiesta al m° Giulini. Ma la discussione grossa ci fu con Franco Enriques. Dovevo fare Il Pirata a Palermo e dopo tutte le recite di Norma che avevo cantato non ero riuscita a studiare Il Pirata, perciò cantavo con lo spartito in mano. Allora Enriques mi disse che Maria in tre giorni l’avrebbe imparato tutto; e continuava con ‘sta Maria. E va be’- gli dissi - Maria non c’è, adesso ci son’ io… Poi lo scenografo, suo degno compare, Zuffi, mi voleva mettere un costume di rosso di raso lucido e io gli dissi di no. “Il baritono lo vesti di blù e a me mi vesti di rosso?” Quello s’arrabbiò e si mise a urlare: “Lo scenografo sono io!” - “Sì però il costume me lo devo mettere io e non lei, perché se se vestisse pure lei de rosso famo la stessa figura, tanto più o meno siamo lì”.[n.d.r. Zuffi e la Cerquetti erano notevolmente robusti] Questi sono stati gli unici problemi; ma non sono mai intervenuta in scelte registiche, tranne quando contrastavano con le esigenze musicali, come nell’Aida a Verona con Pabst, quella famosa col Nilo vero! Ma lì non era una questione che riguardasse solo me, la situazione contrastava anche con tutti gli altri. C’era troppa roba: dovevano arriva’ i cavalli de corsa e poi c’era ‘sto rigagnolo d’acqua dove doveva passare una barca. Mi ricordo la prima sera di prove che cascarono tutti in acqua. Lui voleva fare della cinematografia, ma non ci si riesce con la musica. Serafin s’arrabbiò moltissimo: lanciò via la bacchetta».
Chiediamo altri aneddoti, altre riflessioni sul modo magico e insidioso del teatro d’opera e Anita Cerquetti, gentilissima quanto instancabile riprende a raccontare sorridendo.
«Boris Christoff è una Callas al maschile: non voleva che uscissi da sola. In America si usa che alla fine dell’atto esce chi ha fatto l’aria e nel Don Carlos, dopo Tu che le vanità, dovevo uscire sola e lui non voleva. Ci fu una discussione. Lui era uscito da solo prima e voleva uscire ancora. La prima volta che cantai in America, a Chicago, dirigeva il m° Rescigno che non conoscevo. Arriviamo al finale della romanza del Nabucco e lui voleva che la facessi com’è scritto, con il sol basso, invece con Serafin la finivo col sol acuto. Io lì m’impuntai e gli dissi che l’avevo sempre fatta così e la volevo fare così. Lui s’arrabbiò e ruppe la bacchetta, ma io la feci con la nota alta. A Nizza ricordo un Trovatore. Il palcoscenico era piccolo e quando Leonora muore andai a finire fuori dal velario: ci fu una risata generale». Concludiamo la lunga intervista con una curiosità sorta spontaneamente quando la Signora ci ha detto di non essere più andata a sentire un’opera.
Quale cast farebbe per una Norma senza la Cerquetti?
«Mi piacerebbe sentire la Caballé che non ho mai sentito. Per curiosità vorrei sentire la Norma della Sutherland. Ho sentito la Callas, ma non ci tornerei; mi piaceva, ma non in Norma. L’ho sentita in Armida: fantastica; in Medea era il non plus ultra, ma in Norma non mi piaceva. Come personaggio era sempre brava, ma non mi piacevano i recitativi: nessuno. Non mi piaceva la Casta diva, mi piaceva di più quando faceva In mia mano alfin tu sei. Non mi piaceva in Sediziose voci, mentre trovavo a lei più congeniale Ah, bello a me ritorna. Mi piaceva in Lucia: l’andai a sentire con Lauri Volpi. Ecco lì era lei. Restando sempre in Norma, come tenore penso a Corelli, a Del Monaco e non era male anche Mirto Picchi. Per Aida penso sempre a Corelli. Otello non l’ho mai fatto, ma ho sentito Del Monaco e, a Barcellona, Ramon Vinay già vecchio, ma aveva delle cose fantastiche. Per Aida, come soprano certamente non la Callas. Penso alla Stella, alla Tebaldi che era però un bel lirico. La Scotto l’ho sentita giovane, quando faceva un repertorio leggero e mi piaceva molto, poi non l’ho più sentita. Delle nuove leve non conosco nessuno. Ho sentito in televisione la Ricciarelli che cantò molto bene l’aria del Corsaro, ma in tv entra solo la faccia, non si possono fare delle valutazioni attendibili. Ecco: credo di averle detto proprio tutto!».
(Intervista realizzata il 28 agosto 1975” in www.gbopera.it)
13 aprile 1931 nasce la grandissima Anita Cerquetti, soprano italiana (morta nel 2014)
Ascoltarla nell’opera intera: Giuseppe Verdi (1813-1901), "La Forza del Destino"
Direttore: Nino Sanzogno
Don Alvaro, Pier Miranda Ferraro
Don Carlo, Aldo Protti
Leonora di Vargas, Anita Cerquetti
Padre Guardiano, Boris Christoff
Fra Melitone, Renato Capecchi
Preziosilla, Giulietta Simionato
Mastro Trabuco, Adelio ZagonoraIl
Marchese di Calatrava, Antonio Massaria
Curra, Vera Presti
Un Chirurgo, Renzo Gonzales
Un Alcalde, Eraldo Coda
Orchestra e coro della RAI
Roma, 28 settembre 1957
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.
È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.
Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.
“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”
(Wikipedia)
“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”
(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)
“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.
(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)
“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”
(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)
“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)
“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.
(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)
Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/
Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0
https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs
https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4
https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk
Una poesia al giorno
Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l'anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
Nous serons
N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents
N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.
Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.
Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible
Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.
Unis par le plus fort et le plus cher lien,
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.
Sans nous préoccuper de ce que nous destine
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?
Un fatto al giorno
17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.
(da Focus)
Una frase al giorno
“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”
(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)
Un brano al giorno
Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k