L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
Per non dimenticarlo
NOSTALGHIA (Italia, Unione Sovietica, 1983). Regia: Andrej Arsen'evič Tarkovskij. Soggetto: Tonino Guerra, Andrej Arsen'evič Tarkovskij. Sceneggiatura: Tonino Guerra, Andrej Arsen'evič Tarkovskij. Produttore: Renzo Rossellini, Manolo Bolognini per la Opera Film. Fotografia: Giuseppe Lanci. Montaggio: Amadeo Salfa, Erminia Marani. Musiche: Debussy, Verdi, Wagner, Beethoven. Cast: Oleg Jankovskij: Andrej Gorčakov. Domiziana Giordano: Eugenia. Delia Boccardo: Moglie di Domenico Erland Josephson: Domenico. Maria Cumani Quasimodo.
Un poeta sovietico, Andrej Gorčakov, è in Italia per scrivere la biografia di un compositore russo del XVIII secolo, Andrej Sosnovskij. Insieme a lui è la sua interprete, la bella e irrequieta Eugenia. Durante una tappa a Bagno Vignoni, Gorčakov conosce il vecchio Domenico, un uomo ritenuto da tutti matto perché, vari anni prima, è rimasto rinchiuso in casa per 7 anni con la sua famiglia in attesa della fine del mondo. Gorčakov è attratto dall’uomo e va a trovarlo. Durante il lungo dialogo fra i due, Domenico affida a Gorčakov la missione di compiere in sua vece un rito salvifico: attraversare con una candela accesa la piscina di acque termali di Bagno Vignoni. Domenico parte poi per Roma dove, nella piazza del Campidoglio, tiene un lungo discorso davanti a un pubblico di “matti”, al termine del quale si suicida dandosi fuoco. Gorčakov, dopo una sosta meditativa nella chiesa sommersa di San Vittorino, decide di compiere la missione affidatagli da Domenico. Quando, dopo due tentativi falliti, riesce finalmente a giungere sul lato opposto della piscina e deporvi la candela accesa, viene colpito da un attacco cardiaco. La "nostalgia" da cui deriva il titolo è quella del poeta espatriato, ma anche quella dei vari personaggi che cercano di superare la propria alienazione spirituale e ricucire la propria separazione fisica dalle altre persone.
“Reduce dal successo de L’infanzia di Ivan (1962) e Solaris (1972), Tarkovskij si apprestò ad affrontare una pellicola che parla del complesso rapporto con la propria patria. L’ostilità del regime sovietico nei confronti del regista si irrigidiva e la sua attività veniva ostacolata. Solo grazie a un permesso speciale poté terminare le riprese di Stalker (1979), ma sarà nel Bel Paese che troverà il giusto sostegno e, attraverso l’amicizia con Tonino Guerra, dirigere Nostalghia (1983).
La pellicola è un abbraccio tra la cultura europea e russa, un tuffo negli abissi delle coscienze che si erge a grande allegoria della vita: da un lato il legame con la cultura russa, pregna di slavofilia, trasuda continuità con Tolstoj e Dostoevskij, dall’altra gli orrori del socialismo sovietico contribuiscono ad allontanare l’autore da qualsiasi sentimento di appartenenza nazionale, esule prima ancora di esserlo di fatto. Il tentativo di scavare nel proprio passato per trovare un’identità è dovuto al trauma legato alla perdita del contatto con le proprie radici e al bisogno di ritornare in patria. Superficialmente Nostalghia può sembrare un’opera minore, ma rappresenta la chiave di volta del percorso tarkovskiano, il tassello che porta il regista da una ricerca fallimentare della propria identità a un grande sentimento di salvezza ricercato attraverso il legame con la comunità e il sacrificio religioso per il prossimo (carità, speranza e amore incondizionato). Allo scetticismo Tarkovskij contrappone la fede, lo sforzo illogico di migliorare il mondo attraverso l’amore. E il cinema diventa il mezzo privilegiato per esprimersi.
Poeta del cinema, regista capace di rappresentare l’astrazione del sentimento, Tarkovskij con Nostalghia dipinge il sentimento di sospensione causato dall’esilio attraverso non solo la trama, che racconta il viaggio in Italia del poeta Gorcakov (Oleg Jankovskij), ma anche i dialoghi che intrattiene con Eugenia (Domiziana Giordano) in merito all’impossibilità di tradurre le opere letterarie a causa delle differenze culturali. L’intenzione del regista è quella di rappresentare lo specifico stato d’animo in cui ci si trova quando si è lontani dalla patria: l’attaccamento alle radici, che per i russi non è un’emozione leggera ma una malattia mortale, sentimento del singolo e al contempo forza che lega alla Passione (in senso religioso) la collettività. Il continuo annichilimento del mondo spinge infatti l’uomo a fare un atto di fede, inteso come impegno costante nell’amore verso il prossimo. L’incontro con Domenico (Erland Josephson), un anziano internato in manicomio, la cui fede è al limite tra misticismo e follia, diventa emblematica per Gorcakov e risveglia in lui il sentimento di fede: “Una goccia più una goccia, fanno una goccia più grande e non due”. La conoscenza olistica della realtà è l’unica condizione che permette di superare la frattura tra materia e spirito, considerando lo spazio come una dimensione penetrata dagli aspetti naturali: le mura grondano d’acqua, la terra invade la pavimentazione e le piante invadono gli interni, tentando di recuperare l’armonia tra uomo e natura. Stalker e Nostalghia dichiarano questa ricerca del regista, la grande allegoria del suo lavoro: la ricostruzione dell’essenza dell’uomo mediante l’arte e la fede, intesa come salvezza non del singolo ma dell’intera umanità, unico motore per il cambiamento, che si manifesta attraverso la bellezza.
La bellezza scaturisce dall’architettura, dalle rovine, e dagli ambienti diroccati; spazi dai confini fragili e permeabili, minati dall’incompletezza fisica (così come lo è il protagonista alter ego di Tarkovskij) e unica espressione del vero, il cui senso di malinconia viene alimentato attraverso i colori tenui e il movimento lento della macchina da presa. Nostalghia frantuma così le regole del cinema statunitense, assumendo toni intimistici e una dimensione onirica, ritraendo eroi che si ricompongono attraverso un processo di confronto e continua discussione con il mondo: l’eroe è tale perché fragile nelle sue contraddizioni, negli ostacoli che incontra e che riesce a superare.”
(Daniela Addea in www.1977magazine.com)
“Penultimo film di Andrej Tarkovskij, primo girato al di fuori dell’URRS, grazie ad una collaborazione con la RAI, il film narra le vicende dello scrittore e poeta Andrei Gorchacov (Oleg Yankovskiy), giunto in Italia da Mosca per studiare il soggiorno bolognese di un musicista russo del ‘700. Il soggiorno italiano sarà caratterizzato da una forte nostalgia di casa, della moglie, della famiglia, visivamente resa da un intercalarsi di immagini di ambienti italiani, con immagini della campagna russa da dove originariamente proviene il protagonista. Ma questo soggiorno italiano sarà anche momento di incontri importanti per Andrei, in particolare con la propria interprete, la giovane ragazza romana Eugenia (interpretata dalla bella Domiziana Giordano, qui alla sua prima partecipazione importante in un lungometraggio), ammaliata dal fascino dell’intellettuale russo, ma contemporaneamente delusa dalla mancanza di desiderio di Andrei nei suoi confronti: Andrei ama la moglie che da lui aspetta un bambino e non cede alla tentazione di un’avventura con Eugenia. Ma l’incontro più significativo resta, senza dubbio, quello con Domenico (interpretato dall’attore svedese di scuola bergmaniana Erland Josephson), la cui fede al limite del misticismo o forse della follia, risveglia in Andrei un sentimento del sacro che sembrava perduto.
Tutto il film si presenta come una riflessione sulla contrapposizione tra fede e razionalità secolarizzata, o meglio sulla libertà di cui gode l’uomo contemporaneo che diventa spesso licenza e atomizza la società. La fede come salvezza quindi non del singolo, ma dell’intera umanità risulta motore di un cambiamento, ma bisogna essere capaci di sottomettersi a ciò che non capiamo che è in grado di manifestarsi attraverso il bello. Il film è costellato di luoghi in cui rifulge il bello: chiese ancora consacrate o sedimenti di chiese in rovina, luoghi in cui il bello si fa espressione del vero. Significativo che l’immagine finale del film racchiuda la campagna russa e il gotico di una chiesa dismessa quasi a significare il ritrovato equilibrio di Andrei che ritrova nella fede la propria casa, attraverso il suo percorso italiano nell’arte (vedi la contrapposizione con l’atteggiamento dello scrittore nelle battute iniziali del film). Tecnicamente l’uso di colori tenui vira spesso nel bianco e nero, tanto che in alcune sequenze è difficile cogliere la reale tecnica utilizzata se non per alcuni particolari che emergono all’interno della scena (ad esempio le bottiglie verdi, presenza ricorrente nel lungometraggio) La camera è spesso fissa a costruire dei quadri fotografici veri e propri o, altrimenti, in un movimento lento che ricalca la lentezza con cui si svolgono gli avvenimenti, a significare il lento percorso spirituale di Andrei. Il film risulta essere anche una riflessione sulla pazzia, sui quei pazienti che, prima nei manicomi, e ora liberi, risultano un interrogativo per le persone “normali” con quella solitudine a cui sono costretti, che li rende “più vicini alla verità”, per quella loro vivere amplificati i problemi dell’uomo contemporaneo, dimentico del contatto con Dio e con l’uomo.”
(Francesco Carabelli in www.storiadeifilm.it)
Il celebre regista russo Andrej Tarkovskij (1932-1986), autore di sette film di fantascienza filosofico-psicologica, vincitori di premi internazionali - L’infanzia di Ivan (1962); Andrej Rubljov (1966/1971); Soljaris (1972); Stalker (1980); Lo specchio (1974); Nostalghia (1983) e Sacrificio (1985) -, alla fine della sua vita, in conflitto con le autorità cinematografiche sovietiche, fu costretto ad emigrare all’estero. Il suo ultimo film è stato girato in Svezia, il penultimo invece in Italia. Questo film, intitolato Nostalghia, corrisponde profondamente allo stato d’animo del regista: all’ardente sentimento di angoscia e di dolore di un artista lontano dalle proprie radici, dal proprio paese.
Nostalghia è una coproduzione italo-russa del 1983 (della Radiotelevisione italiana-Rete 2 e del Sovin Film URSS). Autori della sceneggiatura sono Andrej Tarkovskij e il suo amico Tonino Guerra; regista è Andrej Tarkovskij; gli attori sono russi (Oleg Jankovskij), italiani (Domiziana Giordano, Patrizia Terreno, Delia Boccardo ed altri) e svedesi (Erland Josephson). L’operatore è Giuseppe Lanci. L’opera di Tarkovskij non è sostanzialmente di carattere narrativo, ma di riflessione; contiene un materiale onomastico coscientemente laconico (analogamente a quello verbale: parole poco numerose, piuttosto allusive e da parabola), che offre un vasto campo per l’interpretazione delle idee del regista.
Il titolo del film
Nel titolo italiano del film salta agli occhi una stranezza: il regista ha insistito nel mantenere la parola russa nostalghia, invece del corrispondente vocabolo italiano nostalgia. Trascrivendo in caratteri latini la pronuncia del termine russo, Tarkovskij ha aggiunto all’analogo vocabolo italiano la lettera “H”, che ha assunto un ruolo fondamentale nella concezione di quest’opera cinematografica. La scelta di Tarkovskij si spiega sotto il profilo linguistico-psicologico. Uno studio comparativo rivela infatti la divergenza semantica del concetto in questione nelle due lingue: la nostalghia russa esprime innanzi tutto (o solo secondo alcuni autori di dizionari) ‘il desiderio doloroso del ritorno in patria’. Secondo i puristi è un errore usare la parola nostalghia, nel russo moderno, con il significato ‘desiderio del ritorno al passato’. La nostalgia italiana, appunto, è piuttosto ‘il desiderio ardente del ritorno al passato’. In più, la parola italiana è stata soggetta alla moda e spesso è usata come sinonimo di ‘malinconia, tristezza’, cioè di un sentimento meno acuto, meno intenso di ‘angoscia dolorosa’.
Il linguista Bruno Migliorini spiega in questo modo lo sviluppo semantico del vocabolo nostalgia: esso proviene dal gr. nóstos ‘ritorno’ e gr. -algìa ‘dolore’, coniato nel 1688 dal medico alsaziano Johannes Hofer per denominare una malattia di cui i mercenari svizzeri erano affetti durante il loro servizio presso eserciti stranieri:
Poi, sia l’idea di malattia sia quella del ritorno al paese natio si vennero affievolendo; la prima sfumando in una tenue malinconia, la seconda in un vago rimpianto di persone, di tempi passati; ovvero di ricordi o speranze oltremondane [...].
E il Dizionario di Alfredo Panzini nota analogamente: “[...] nel linguaggio degli esteti diventò voce abusata per vaga aspirazione, melanconia, ecc. [...]”.
Queste differenze semantiche Tarkovskij le ha intuite nel modo più cosciente. Nel corso di una presentazione del film, lui stesso ha definito la differenza tra le due varianti, dicendo che la nostalgia per gli italiani è ‘tristezza’, mentre per i russi è ‘dolore’:
Volevo raccontare della forma russa della nostalgia - di quello stato d’animo tipico per la nostra nazione, che si impadronisce di noi, russi, quando ci troviamo lontano dalla patria [...]. Volevo raccontare del legame che sembra destino dei russi alle loro radici nazionali, al loro passato e alla loro cultura, alla loro terra, agli amici e parenti, di quel legame profondo di cui loro non possono liberarsi nel corso di tutta la loro vita - in qualsiasi luogo li porti il destino [...].
Nel corso della produzione del film, tuttavia, questo significato ristretto (‘dolore verso la patria, il paese natio’) è stato ampliato da Tarkovskij stesso. Il regista confessò di essere riuscito a calmarsi, solo dopo aver allargato l’iniziale senso rigoroso del concetto nostalghia aggiungendo l’idea di un’aspirazione universale dell’uomo verso l’esistenza completa, verso un alto impegno dell’uomo sulla terra.
Lo fa tramite la figura di Domenico. Nel film, la nostalghia russa (nella figura del protagonista Andrej Gorcakov) è completata dalla nostalgia italiana (nella figura del “pazzo santo” Domenico) e assume dimensioni di una nostalghia mirante a salvare il mondo moderno allontanatosi dalle sue origini e dai valori umani.
Il titolo Nostalghia, dunque, è il centro organizzativo e concettuale del sistema dei nomi, come è ben conosciuto nella teoria onomastica letteraria. All’inizio il titolo doveva essere Viaggio in Italia, ma poi il regista, come lui stesso dice in un’intervista, preferì una parola comune per le due lingue: il russo e l’italiano. Il presente contributo tende a mostrare che la strategia scelta dal regista per il titolo si applica anche a tutti gli altri nomi nel film. I nomi dei pochissimi protagonisti rivelano da una parte le radici russe e le preferenze storico-letterarie, care al cuore del regista, anche lui, come Gorcakov, esule in Italia e lontano dal suo paese natale. Dall’altra, gli stessi nomi si fanno portavoce della linea filosofica del regista. I due orientamenti, quello patriottico e quello filosofico- universalistico, si intrecciano quindi nel sistema dei nomi.
I nomi dei personaggi
Il protagonista del film è uno scrittore russo chiamato Andrej Gorčakov. È in viaggio in Italia, il paese dove visse nel Settecento anche un suo connazionale, il musicista Pavel Sosnovskij (il cui prototipo storico è Maksim Berezovskij). Accompagnato dalla bellissima traduttrice Eugenia, Gorčakov sta scrivendo la biografia di Sosnovskij. Ma il lacerante ricordo della sua terra, della famiglia, della casa, della moglie in attesa, gli impedisce di cedere all’attraente ragazza. Eugenia, dopo aver viaggiato con lui per “mezza Italia”, finalmente lo porta a Monterchi, per vedere la Madonna del Parto di Piero della Francesca, che Gorčakov tanto desiderava ammirare. Però sarà solo la donna ad entrare nella cappella: Gorčakov confessa di essere “ stanco di queste bellezze eccessive”. Eugenia lo accompagna anche a Bagno Vignoni nei pressi del bacino termale che frequentò Santa Caterina.
Il nome di Andrej (cfr. it. Andrea) proviene dalla lingua greca; il suo significato è: ‘uomo, maschio’. Nel contesto filosofico del film, Andrej rappresenta l’UOMO in generale. Allo stesso tempo Andrej è il nome preferito nella famiglia Tarkovskij. È significativo che il regista stesso porti questo nome. Nella chiesa ortodossa, Sant’Andrea è considerato il primo seguace di Cristo (Andrej Pervozvannyj ‘il primo chiamato’).
Il cognome di Gorčakov rievoca un eminente diplomatico russo dell’800, il principe chiarissimo Aleksandr Michajlovič Gorčakov (1798-1883), cancelliere e ministro degli Affari esteri. Svolse le sue funzioni in diversi paesi d’Europa, principalmente in Germania (fu stretto collaboratore di Bismarck) e in Italia (a Roma e Firenze). Il suo talento di uomo di stato e il suo notevole contributo alla politica estera russa nello sviluppo delle relazioni internazionali tra l’Europa, la Russia ed altri paesi, sono riconosciuti e apprezzati anche negli ultimi decenni.
Appare importante il fatto che A.M. Gorčakov sia stato compagno di classe e amico stretto di Aleksandr Puškin, il poeta preferito di Tarkovskij. Ambedue sono stati tra i primi laureati del famosissimo Liceo di Tsarskoe Selo, istituzione che diede alla Russia personaggi illustri. Le reminiscenze di rappresentanti della storia e della letteratura russa rivelano un altro aspetto della nostalgia di Tarkovskij (...). Certamente il regista ha dato il suo nome al protagonista al fine di sottolineare che Andrej Gorčakov è il suo alter ego (...). Il cognome Gorcakov allude inoltre all’aggettivo russo gor’kij ‘amaro’ e anche ‘doloroso’, tenendo conto dell’alternanza consonantica k c esistente nella lingua russa (cfr. gor’kij ‘amaro”, ma gorcit ‘(qualcosa) ha un sapore amaro’; gorcitsa ‘senape’).
La scelta del nome Gorcakov, infine, è molto probabilmente condizionata dal fatto che durante la preparazione del film, viaggiando attraverso l’Italia, Tarkovskij vide a Sorrento una bellissima villa in cui aveva vissuto la principessa Elena Gorcakova. Purtroppo la visita della villa e del famoso pavimento a petali di rose gli fu proibita. Come indicano alcune fonti: “Il bellissimo pavimento decorato con petali di rose fu realizzato su committenza della principessa russa Cortchakroff per la sua villa di Sorrento da Francesco Nagar su modello del maestro Filippo Palizzi”. Anche nel Documentario inedito di Andrej Tarkovskij Tempo in Viaggio si fa riferimento alla principessa Elena Gorcakova.
Altri fonti però attribuiscono la provenienza del nome della famosa dimora Villa Cortchacow al principe russo Konstantin Gorcakov. Tutto sommato, ciò dimostra che il cognome Gorcakov non è estraneo alla storia e alla realtà italiane e corrisponde allo scopo onomastico del regista di usare nomi comuni alle due nazioni.
La nostalgia di Andrej Gorcakov ha radici nazionali profonde che, nel film, si dimostrano tramite la biografia tragica di un suo connazionale musicista del ’700, Pavel Sosnovskij (alias Maksim Berezovskij), il quale, avendo nostalgia per il paese natale, rinunciò a una brillante carriera in Italia (presso il Conservatorio di Bologna) e tornò in Russia dove morì come servo della gleba. Pavel è un nome comune italiano-russo (cfr. it. Paolo), internazionale e cristiano; Sosnovskij invece è una sostituzione per analogia semantica del nome del prototipo storico Maksim Berezovskij: berjoza ‘betulla’ si trasformò in sosna ‘pino’. Il pino forse allude al pino mediterraneo; allo stesso tempo è un albero tanto frequente in Russia quanto la betulla: cfr. il fraseologismo diffusissimo zabludit’sja v trjoch sosnach (‘smarrirsi tra tre pini’).
Eugenia, l’interprete che accompagna Andrej Gorcakov durante il suo viaggio attraverso l’Italia, porta un nome italiano abbastanza raro in forma femminile e non molto diffuso nella lingua russa (Evghenia). È famosissima, invece, la forma maschile Evghenij - il nome del protagonista del romanzo in versi di Puškin Evghenij Oneghin e dell’opera lirica omonima di Cajkovskij. Eugenia proviene dal greco e significa ‘nobile, nata da una buona stirpe’. Rappresenta, con le sue qualità fisiche - capelli biondi, bellezza stile Botticelli - e intellettuali, il meglio dell’Italia e dell’esilio. Nonostante ciò e nonostante il suo innamoramento,
Gorcakov quasi ignora la ragazza e sceglie un’altra strada, personificata da Domenico. Eugenia rappresenta ugualmente il tentativo di unire due culture: l’italiana e la russa. Leggendo il libro di poesie russe scritto da Arsenij Tarkovskij, il padre del regista, Eugenia cerca di capire la ragione della nostalgia di Andrej, che da parte sua, in un sogno-visione, vede unirsi due immagini: quella di Eugenia e quella di sua moglie Maria. Questa, come indica il suo nome interlinguale, parimenti italiano-russo-cristiano (Maria è anche il nome della madre del regista a cui è dedicato il film), dà consolazione alla ragazza, accarezzandole la faccia piena di lacrime. Significativo è il fatto che Maria, la moglie russa di Gorcakov, come lui stesso spiega a Domenico, somigli alla Madonna del Parto di Piero della Francesca, solo che non è bionda. Il fidanzato di Eugenia porta il nome Vittorio (cfr. il russo Viktor), chiamato così ironicamente perché non è per niente vincitore nella sua storia d’amore con Eugenia, che in realtà non lo ama.
Domenico, pur essendo laureato in matematica, è diventato il matto del paese. Nella figura di Domenico si esprime l’evoluzione della nostalgia italiana, vista da Tarkovskij. Non è più solo tristezza o malinconia. Già all’inizio del film, Gorcakov racconta ad Eugenia la storia tragica, letta su un giornale, di una donna di servizio calabrese che per nostalgia bruciò la casa dei padroni con l’intento di liberarsi di loro e di tornare nel paese natale. La nostalgia di Domenico è ancora diversa. La figura del pazzo-santo, corrispondente alla tradizione russa dello ‘jurodivyj’, si trasforma nel simbolo universale del Salvatore del mondo.
Il nome Domenico proviene dal latino dominus. La sua vicinanza al Signore si evidenzia attraverso segni abbastanza numerosi nel film. Gorcakov è il primo a correggere l’opinione pubblica: “Lui non è pazzo, perché ha la fede”. In casa sua Domenico fa ad Andrej l’offerta simbolica del pane e del vino. A Roma, infine, si dà fuoco sacrificando la propria vita come fece il Cristo Redentore.
Domenico, che ha tenuto la propria famiglia rinchiusa in casa per sette anni in attesa della fine del mondo, ora vive insieme ad un cane. Confessa di aver capito che “bisogna salvare tutti, il mondo”, e chiede a Gorcakov di attraversare il bacino termale di Bagno Vignoni con una candela accesa in mano, ciò che lui non può fare, perché, appena entrato in acqua, la gente, allarmata, corre a tirarlo fuori. In seguito, trovandosi a Roma come anche Gorcakov, Domenico annuncia il suo messaggio-testamento a un gruppo di matti dall’alto della statua di Marco Aurelio, ma, terminato il suo discorso, si dà fuoco e muore. Lo scrittore russo, invece, torna a Bagno Vignoni per mantenere la promessa. Attraversa con prudenza la piscina termale svuotata, ma il vento spegne per due volte la fiammella della candela. Il terzo tentativo va a buon fine. Il cuore del protagonista, tuttavia, cede. L’ultima immagine-visione mortale di Gorcakov lo ritrae nei pressi della sua amata casa di campagna, situata in Russia, ma integrata in una cattedrale italiana in rovina.
Conclusione
In sostanza, i nomi interlinguali del film suggeriscono, da una parte, un tentativo di osmosi interculturale, e, dall’altra, un’interpretazione mistico-religiosa. Tarkovskij fa rivivere, a modo suo, due “grandi” narrazioni dell’umanità, quella di Exilium - Viator - Peregrinus, a partire dalla biblica cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso a Seneca, Ovidio, Brunetto Latini, Dante Alighieri, ecc., e quella della Salvezza.
L’Uomo-Andrej è in errance e in esilio sulla terra. L’incontro con Eugenia presenterebbe una prospettiva positiva per vivere l’esilio in comodità. Però questa strada non offre una vera soddisfazione a Gorcakov.
L’incontro con Domenico, invece, che è, come il suo nome indica, vicino al Dominus, essendo il suo profeta, rivela a Gorcakov una strada alternativa, difficile, impegnativa. Vale a dire la vera vocazione dell’Uomo, secondo Tarkovskij, è di scegliere una via ‘amara’: partecipare alla salvezza del mondo, anche sacrificandosi fino alla morte. Domenico invece, cui la gente impedisce di eseguire la sua missione e salvare il mondo a Bagno Vignoni, si dà fuoco a Roma per annunciare così il suo messaggio di salvezza. Il cane Zoi, il cui nome proviene dal greco (cfr. russ. Zoja) e significa ‘la vita’, accenna al fatto che il sacrificio di Domenico e dell’Uomo-Andrej e la loro morte fisica procurano vita, come il sacrificio di Cristo. E questo sembra essere l’appagamento della loro nostalgia/nostalghia universale.”
(Svetlana Kokoshkina, La ‘H’ che salva il Mondo. Nomi interlinguali in “Nostalghia” di Andrej Tarkovskij in www.edizioniets.com)
- Il film: Nostalgia (Nostalghia) - Andrei Tarkovsky, 1983 HD
Un poesia al giorno
Schäferstunde, di Robert Walser
Hier ist es still, hier bin ich gut,
hier sind die Matten Frisch und rein,
und Schattenplatz und Sonnenschein
sind sich wie artige Kinder gut.
Hier ist mein Leben aufgelöst,
das eine harte Sehsucht ist,
ich weiß nicht mehr, was Sehnsucht ist,
hier ist mein Wollen aufgelöst.
Ich bin so still, so warm bewegt,
es ziehen Linien durchs Gefühl,
ich weiß nicht, alles ist Gewühl,
und doch ist alles widerlegt.
Ich höre keine Klagen mehr,
und doch ist Klage in dem Raum,
so sanfter Art, so weiß, so Traum,
und wieder weiß ich gar nichts mehr.
Ich weiß nur, daß es still hier ist,
entblöst von allem Drang und Tun,
hier bin ich gut, hier kann ich ruhn,
da keine Zeit die Zeit mir mißt.
Idillio (traduzione di Antonio Rossi - Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2019)
Qui tutto è silenzio, qui mi sento bene,
i pascoli sono freschi e puri
e le chiazze d’ombra e di sole
vanno d’accordo come bambini giudiziosi.
Qui si libera la mia vita
fatta d’intensa nostalgia,
non so più cosa sia la nostalgia,
qui si libera il mio volere.
Una commozione silenziosa mi prende,
linee attraversano i sensi,
non so, tutto è intrico
e tutto è contraddetto.
Non odo più lamenti
e tuttavia ci sono nell’aria lamenti
lievi, candidi, come in sogno
e di nuovo non capisco più nulla.
So solo che qui tutto è silenzio,
niente più assilli e costrizioni,
qui mi sento bene e posso stare in pace
poiché nessun tempo mi misura il tempo.
Robert Walser (Biel, 15 aprile 1878 - Herisau, 25 dicembre 1956) è stato un poeta e scrittore svizzero di lingua tedesca.
“Robert Walser, forse non molti lo sanno, oltre a essere un eccellente miniaturista della prosa tedesca, è anche un magnifico poeta, con al suo attivo un corpus di ben trecentocinquanta componimenti, raccolti nella più recente edizione critica dal germanista Jochen Greven.
Il libro pubblicato da Casagrande, editrice del Canton Ticino, ripropone il volume d’esordio dello scrittore svizzero, contenente quaranta poesie stampate nel 1909 da Paul Cassirer, il quale procedette poi a una ristampa nel 1919. Walser, che dal 1905 al ’13 abitò a Berlino in cerca di fortuna, senza trovarla, si offrì nudo alla scena letteraria, convintamente svestito di orpelli e leziosità d’avanguardia. Non cercate moti visionari o burrasche espressioniste nei suoi versi, perché resterete delusi. E in effetti il suo naufragio berlinese va ascritto anche all’ostinazione con cui seppe defilarsi da ogni ribalta. La metropoli esigeva velocità, adattamento, dosi di spregiudicatezza fino all’impostura; Walser aveva soltanto la propria flebile voce da eremita, e un’inquietudine immensa che lo bruciava internamente, spingendolo sempre e comunque a sottrarsi.
Questo volume, a cura di Antonio Rossi, ha il pregio di restituire al lettore italiano un momento creativo estremamente travagliato e complesso per lo scrittore svizzero, rappresentando compiutamente quel respiro, anche attraverso la fedeltà grafica all’edizione originale. Dettaglio non irrilevante, perché le liriche vennero allora accompagnate da sedici acqueforti di Karl Walser, fratello del poeta, qui riprodotte al centro del volume, temperamento assai diverso da quello di Robert, che gli permise di districarsi con successo nella grande città, dove lavorò come artista e disegnatore di scenografie. Qui li ritroviamo insieme in un serrato dialogo dai commoventi toni intimistici. In una ideale passeggiata Karl asseconda il fratello che desidera accoglierlo nel suo mondo fatto di levità e “profondissima quiete”.
La realtà rimane sospesa, fuori da questo spazio fragilissimo, un Weltinnraum in cui l’autore sembra chiedere al tempo di attendere, di abdicare e risparmiarlo, perché meglio e compiutamente possa ascoltarsi. Paesaggi innevati, sfondo prediletto alla sua umile epica del vagare e divagare, per una silhouette minuscola, appena accennata su una striscia bianca. Le sue composizioni hanno il cromatismo soffuso degli acquerelli cinesi o giapponesi, ricordano la limpida pittura di montagna di un Hiroshige, trattenendo in sé un identico mistero. La neve non è solo un fenomeno naturale ma si impone come un riflesso interiore, una distesa sulla quale l’anima si aggira, in preda a spossatezza e desiderio di pace, tra lontananza e ritorno a casa (weit/ heim), secondo una delle oscillazioni più ricorrenti nei suoi testi.
È un elemento che segna anche realmente la vita del poeta. Nella bellissima memoria di Sebald, in una paginetta che è alla base di una delle mie prime folgorazioni verso la letteratura tedesca, si ricorda brevemente la tempesta di neve che sorprese Walser in Friedrichstrasse a Berlino, un episodio, a distanza di tempo, particolarmente vivido nella sua mente. Se pensiamo poi alla morte di Walser, il cui corpo fu rinvenuto il giorno di Natale, riverso nella neve al bordo di una strada di campagna, viene quasi da parlare di una propensione fatale.
In questo continuo affondare e risalire nel quale vede la sua vita dibattersi, in questo essere presenza spettrale a se stesso e agli altri, in questa stringente ammissione di transitorietà, che lo obbliga a portare con sé l’assillo di una nostalgia senza centro e senza scopo, il suo canto resta in bilico tra redenzione e caduta. Diverse sono le consonanze, alla lettera, che si ravvisano con la poetica di Else Lasker-Schüler e Rainer Maria Rilke, non a caso temperamenti artistici schivi, capaci di elaborare temi e linguaggi estremamente personali. E in ciò il riverbero opaco di una nevicata diviene espressione di una mantica.
Metafora visiva potentissima, dunque, proprio perché sottrae anziché mostrare, copre, livella, cela e raggela, rende le cose tra loro affini, e per questo ancor più docili all’immaginazione. Emanazioni del bianco sono il silenzio, il regresso all’infanzia, la presa di coscienza della vulnerabilità umana.
«Intendo per povertà una sofferenza/ silenziosa, uomini estranei/ all’azione, sparpagliati/ qua e là, teneri come la neve», dedica tra le più sentite alla condivisione della sorte degli ultimi. E l’innocenza che al mattino pare farsi strada sulla terra, sopra la neve appena caduta, mentre «i tetti luccicano come tavoli per bambini», o ancora i rami imbiancati degli alberi lungo un sentiero che è quasi una soglia trasfigurale, suscitando sgomento e dolcezza: «Gli alberi sotto cui cammino/ hanno rami come mani di bambino,/ implorano senza fine, se mi fermo,/ con dolcezza indicibile». Pur sradicato, sofferente, abbattuto il poeta non rinuncia a spingersi avanti, andando verso coloro che lo respingono, attaccandosi ai pochi istanti di rivelazione che gli sono concessi per tornare alla vita con un’idea di compiutezza, se non gioiosa, almeno serena: «Non sono più preoccupato/ poiché posso, integro, attraversare/ il mondo come mondo».
(Claudia Ciardi in margininversi.blogspot.com)
Un fatto al giorno
15 aprile 1989: alla morte di Hu Yaobang, le proteste di Piazza Tiananmen del 1989 iniziano in Cina.
“La protesta di piazza Tienanmen fu una serie di manifestazioni popolari di massa, che ebbero luogo principalmente in piazza Tienanmen a Pechino dal 15 aprile al 4 giugno 1989.
Esse videro la partecipazione di studenti, intellettuali e operai. Il simbolo forse più noto della rivolta è il Rivoltoso Sconosciuto, uno studente che solo e disarmato si parò davanti a una colonna di carri armati per fermarli: le fotografie che lo ritraggono sono diventate celebri in tutto il mondo. Nonostante l'esito drammatico e un numero complessivo di vittime (morti, feriti e arrestati) ancora oggi incerto, la protesta diede modo all'estero di conoscere la repressione del governo cinese in tema di diritti umani e libertà di espressione. Inoltre, gli eventi in Cina infervorarono ancor di più gli animi dei manifestanti europei, dando nuovo slancio alle rivolte contro i regimi dell'URSS e degli altri Stati del Blocco orientale (stati-satelliti) che avrebbero portato alla caduta del muro di Berlino (quindi anche del Blocco orientale) e alla dissoluzione dell'Unione Sovietica, evento che segna ufficialmente la fine della guerra fredda, avvenuta nel 1991.
Ad oggi nel mondo occidentale la protesta viene considerata un evento fondamentale e importantissimo del XX secolo, ma in Cina il solo parlarne è considerato un tabù. Sebbene su internet, giornali e documentari si possano trovare varie testimonianze, filmati e immagini riguardanti la protesta, molti documenti di questi e altri generi sono stati occultati dal Partito Comunista Cinese tramite l'utilizzo di censura e disinformazione, permesse dal controllo pressoché totale dei mass media. Ciò diviene particolarmente evidente durante le commemorazioni organizzate per l'anniversario del massacro: ogni anno, in occasione del 4 giugno, si tengono marce o fiaccolate nel silenzio dei mezzi di comunicazione e sotto lo stretto controllo delle autorità, che tengono sotto osservazione anche i contenuti pubblicati su internet (motori di ricerca, chat e social network compresi) e i dissidenti relegati agli arresti domiciliari.
Nello stesso anno nei Paesi dell'Est europeo incominciavano i fermenti che poi, verso la fine dell'anno, avrebbero portato al rovesciamento di vari Stati comunisti nel'Europa dell'est, fenomeno noto come rivoluzioni del 1989. L'evoluzione della protesta è stata ripartita attraverso cinque episodi: la morte di Hu Yaobang, le sollevazioni, la tregua con le autorità, il confronto, ed il massacro.
Il 15 aprile 1989, Hu Yaobang, Segretario generale del Partito Comunista Cinese, morì per un arresto cardiaco. La protesta ebbe inizio in modo relativamente pacato, nascendo dal cordoglio nei confronti del politico, popolare tra i riformisti, e dalla richiesta al Partito di prendere una posizione ufficiale nei suoi confronti. La protesta divenne via via più intensa dopo le notizie dei primi scontri tra manifestanti e polizia. Gli studenti si convinsero allora che i mass media cinesi stessero distorcendo la natura delle loro azioni, che erano solamente volte a supportare la figura di Hu.
Il 22 aprile, giorno dei funerali, gli studenti scesero in piazza Tienanmen, chiedendo di incontrare il Primo ministro Li Peng. La leadership comunista e i media ufficiali ignorarono la protesta e per questo gli studenti proclamarono uno sciopero generale all'Università di Pechino. All'interno del PCC Zhao Ziyang, Segretario generale del Partito, era favorevole a un'opposizione moderata e non violenta nei confronti della manifestazione, riportando il dibattito suscitato dagli studenti in ambiti istituzionali. Favorevole alla linea dura era invece Li Peng, primo ministro, convinto che i manifestanti fossero manipolati da potenze straniere.
Egli, in particolare, approfittò dell'assenza di Zhao, che doveva recarsi in visita ufficiale in Corea del Nord, per diffondere le sue convinzioni. Si incontrò con Deng Xiaoping, che, nonostante si fosse ritirato da tutte le cariche più importanti (ma rimaneva presidente della potente Commissione militare), restava un personaggio estremamente influente nella politica cinese; con lui, si accertò di avere una comunanza di vedute.
Il 26 aprile fu pubblicato sul Quotidiano del Popolo un editoriale, comunemente attribuito a Deng Xiaoping, che accusava gli studenti di complottare contro lo Stato e fomentare agitazioni di piazza. Questa dichiarazione fece infuriare gli studenti e il 27 aprile circa 50.000 persone scesero nelle strade di Pechino, ignorando il pericolo di repressioni da parte delle autorità e chiedendo che queste dichiarazioni venissero ritrattate. Inoltre, i manifestanti avevano paura di essere puniti nel caso in cui la situazione fosse tornata alla normalità. Zhao, tornato dalla Corea del Nord tentò ancora di raffreddare gli animi.
Il 4 maggio 1989 circa 100.000 persone marciarono nelle strade di Pechino, chiedendo più libertà nei media e un dialogo formale tra le autorità del partito e una rappresentanza eletta dagli studenti...”
(Leggi l'articolo completo in wikipedia.org)
“La protesta di piazza Tienanmen fu una serie di dimostrazioni di massa guidate da studenti, intellettuali e operai nella Repubblica Popolare Cinese, svoltesi all’interno della piazza Tienanmen di Pechino, occupata dai dimostranti dal 15 aprile al 4 giugno 1989.
Simbolo della rivolta è considerato il Rivoltoso Sconosciuto, uno studente che da solo e completamente disarmato si parò davanti a una colonna di carri armati per fermarli: le fotografie che lo ritraggono sono diventate celebri nel mondo intero e sono per molti un simbolo di lotta contro la tirannia. In Occidente l’avvenimento è conosciuto anche con il nome di Primavera democratica cinese.
La protesta è avvenuta nell’anno in cui si sono rovesciati i regimi comunisti in Europa, avvenimento conosciuto anche come Autunno delle Nazioni. Sebbene abbia avuto un esito drammatico e il numero complessivo delle vittime (morti, feriti e arrestati) rimanga ancora oggi impossibile da stabilire con certezza, i manifestanti e gli oppositori al regime cinese fecero conoscere la verità ai paesi esteri, mostrando quali siano le misure repressive del governo cinese sui diritti umani e la libertà di espressione.
Inoltre le dimostrazioni di Tienanmen infervorarono ancor di più gli animi dei protestanti europei (in particolare quelli dei cosiddetti “stati-satelliti”, forzatamente inglobati nell’URSS), dando nuovo slancio alle rivolte contro i regimi socialisti e comunisti; in seguito le manifestazioni (in alcuni casi vere e proprie rivoluzioni) europee portarono alla distruzione del muro di Berlino (quindi anche del Blocco orientale) e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, evento che segna ufficialmente la fine della guerra fredda, avvenuta nel 1991.
L’evoluzione della protesta si può ripartire attraverso cinque episodi: il lutto, la sfida, la tregua, il confronto, il massacro (Cronologia degli eventi di piazza Tienanmen della BBC News in inglese). Ad oggi, sebbene su Internet, giornali e documentari si possano trovare varie testimonianze, filmati e immagini riguardanti la protesta, molti documenti di questi e altri generi sono stati occultati dai mass media cinesi tramite l’utilizzo di censura e disinformazione.
In Occidente la protesta di piazza Tienanmen viene considerata un evento fondamentale e importantissimo del XX secolo, ma in Cina e in generale nell’Oriente le tracce di questo episodio sembrano essere state cancellate e il solo parlarne, specialmente in Cina, è un vero e proprio tabù. Questa forma di dittatura esercitata dal Partito Comunista di Cina, che si estende anche alla propaganda e al controllo pressoché totale dei mass media, diventa piuttosto evidente durante i vari 4 giugno (il giorno del massacro), che vengono commemorati dai manifestanti scampati al massacro e da chi li avrebbe voluti supportare; dal 1989 la festa viene celebrata dalla popolazione con marce o fiaccolate.
Durante questa giornata, i mezzi di comunicazione e le autorità militari cinesi tengono d’occhio sia internet (motori di ricerca, chat e social network compresi), sia i dissidenti relegati agli arresti domiciliari, sia le persone che decidono di scendere nelle strade per commemorare pubblicamente il giorno della protesta di piazza Tienanmen.”
(In www.laogai.it)
- Immagini: Video Online (15 Apr) Tiananmen 30 years on
Una frase al giorno
“Le monde est iniquité; si tu l'acceptes tu es complice, si tu le changes, tu es bourreau.” (Il mondo è iniquità; se lo accetti sei complice, se lo cambi sei carnefice)
(Jean-Paul Sartre, Parigi, 21 giugno 1905 - Parigi, 15 aprile 1980, filosofo, scrittore, drammaturgo, giornalista e critico letterario francese)
“Impegnato nella maggior parte delle lotte politiche del suo tempo, Sartre appare come un uomo catturato dallo spirito di libertà ed intensamente presente sulla scena del mondo. A coloro che volevano impedire allo scrittore di protestare contro la guerra d'Algeria, De Gaulle dirà: «Non si imprigiona Voltaire».
Del filosofo illuminista, Sartre ha infatti molte caratteristiche: una curiosità vorace ed enciclopedica, una capacità di lavoro e d'intervento impressionante, una cultura immensa, classica per formazione, moderna per scelta, una volontà manifesta di cancellare le frontiere tra le varie discipline (filosofia, psicoanalisi e letteratura per esempio), ma anche tra i continenti, i popoli e le classi. Per Sartre, scrivere un libro e pensare si fondono e si confondono con l'impegno. È questo tipo d'intellettuale che sono venuti a piangere tutti coloro che, personalità illustri o anonime, accomunate da una intima fratellanza, lo accompagnarono il 23 marzo 1980 al cimitero di Montparnasse.
Un maître à penser
Con le sue lenti spesse - miope, diventerà quasi cieco nel 1974 -, i suoi mocassini senza età, le sue sciarpe, la sua pipa o la sue sigarette, Sartre è un’icona della Rive Gauche e l’archimandrita dell’intellighenzia parigina. Il suo regno si estende nel minuscolo spazio metropolitano che separa il café Flore dai Deux Magots, da cui si scorge, di fronte, la brasserie Lipp e, a sinistra della chiesa di Saint-Germain-des-Prés, la libreria Gallimard. Sartre soleva frequentare i caffè, sia per incontrare amici che per lavorare, ed era anche un uomo di strada e di folla: in quanti cortei, manifestazioni, non è stato fotografato? Quanti luoghi, dove una intera comunità sembrava cercarsi continuamente, non ha occupato nel maggio del 68, ora la Sorbona, ora la fabbrica Renault di Billancourt, o anche la redazione di Libération? Seppur scontata, l'immagine si rivela giusta: Sartre ha voluto assolutamente essere uomo del suo mondo e del suo tempo. Si è sforzato di vivere molteplici esperienze, volendo restare padrone del gioco: la politica, la filosofia, la giustizia, la libertà, l'amore anche, il cui posto è stato importante nell'esistenza di quest'uomo in cui la scoperta della sua bruttezza (Le parole) non gli ha impedito di mettere in moto una capacità di seduzione che ha del leggendario.
L’universale singolare
Nato nel 1905 in una famiglia della borghesia agiata, Sartre appartiene ad una generazione brutalmente gettata nella furia dei tempi moderni dalla Prima Guerra mondiale. Contro il sogno di distruggere tutto nel mondo della letteratura e dell'arte - tale fu il progetto dada e surrealista - la scelta dello scrittore Sartre fu quella invece di cercare salvezza nella letteratura stante a quello che ironicamente, e senza realmente essere vittima del suo sogno, egli stesso scrive a quasi sessanta anni, nella sua autobiografia. L'essenziale è di cogliersi come un uomo singolo, ma la cui singolarità rinvii all'universale: questo concetto "del singolare universale" è fondamentale in Sartre, come lo saranno altre parole-chiave inscindibili dal frasario sartriano - situation, mauvaise foi, salaud, engagement, liberté. È per questo che si presenta ne Le parole come campione della sua generazione e della sua classe.
Dall'insegnamento alla scrittura
La cultura classica fa parte del suo bagaglio, ed il successo alla Scuola Normale a diciannove anni, in cui consegue la laurea in filosofia arrivando primo del suo corso, 1929, (l'anno in cui incontra Simone de Beauvoir) non fanno che confermare un forte radicamento nella tradizione culturale. Ma Sartre non si priverà tuttavia dei riferimenti della cultura contemporanea: i fumetti, i film di avventure visti con Anne-Marie, la madre quand’era ragazzo e più tardi la passione per i romanzi polizieschi, l'interesse per tutte le manifestazioni moderne dell'arte e l’attrazione per le città americane sono alcuni esempi. Professore a Le Havre, a Berlino, nel 1933 -1934, in anni decisivi, avendo Hitler preso il potere nel 1933, a Neuilly infine. Sartre abbandona l'insegnamento alla Liberazione per dedicarsi alla sua attività di scrittore. Ma, lasciando la carriera d’insegnante, Sartre non ne abbandonò i modi, e si può dire che fu, per trent’ anni, il professore dei francesi alla ricerca di un maestro.
Dalla scrittura all'esistenzialismo
Filosofo di formazione, Sartre scrive molto durante gli anni di gioventù alternando saggistica e narrativa: un saggio su L'immaginazione (1936), La trascendenza dell'ego (1937) (in queste prime opere di psicologia fenomenologica, l'influenza di Husserl è netta); un romanzo, La nausea (1938); novelle, Il muro (1939), e lavora al ciclo romanzesco che diventerà "Les chemins de la libertè" (1945 -1949). Ispirandosi alle tecniche di Joyce e dei romanzieri americani (Faulkner, Dos Passos), Sartre si sforza, in queste narrazioni, di cancellare la presenza del romanziere per lasciare i suoi personaggi riportare da soli la loro esperienza immediata e riportare soltanto questa.
La prima forma di scrittura che Sartre sviluppa, dunque, parallelamente alla riflessione filosofica è la scrittura narrativa, romanzesca, senza ricercare una saldatura tra le due: al contrario, La nausea è come un saggio sul contingente (in filosofia: ciò che è gratuito, non necessario, ipotetico) e sono pertanto i filosofemi esistenzialisti che sottendono l’esistenza angosciata di Roquentin, il personaggio principale, che tiene un sorta di diario dove sembra soffocato dalla coscienza dell'esistenza, questa cosa enorme che «nessuno vuole guardare in faccia» (Il muro).
«L'esistenza precede l’essenza»
Questa visione del mondo predominata dal disgusto, dalla disperazione, dal dolore inferto dalla gratuità delle cose e percorsa da immagini oscure e vischiose, caratterizza il primo Sartre, che diffida molto delle ideologie sia estetiche che politiche (marxismo, surrealismo), sedotto com’è da questa morale esistenzialista secondo la quale l'uomo deve costruire il suo modo di vivere, poiché «l'esistenza precede l’essenza» e l'uomo si definisce in rapporto agli altri. Esistere, è dunque essere nel mondo, essere per l’altro, e quest'esistenza deve essere colta in modo concreto e storico. La libertà è la caratteristica fondamentale dell'esistenzialismo sartriano: poiché Dio non esiste, l'uomo è soltanto ciò ch’egli vorrà essere e ciò che farà.
L’urto brutale tra Sartre e la storia - coscritto militare, prigioniero in Germania, dalla quale scappa - incarna questa filosofia, e porge un contenuto concreto alle parole esistenza, libertà, impegno. Ed è la storia ancora che offre le quinte ai romanzi del ciclo "Les chemins de la liberté", L'età della ragione, Il rinvio, cominciati nel 1939 e pubblicati nel 1945, mentre La morte nell’anima, uscirà nel 1949: la vicenda del ciclo si svolge dal 1937 al 1940, adotta la tecnica “simultaneista”, e mescola personaggi ed intrighi su sfondi di viltà, di vite murate, che la storia si incarica di fare scoppiare.
«L'esistenzialismo è un umanesimo»
Alla Liberazione, Sartre, Simone de Beauvoir ed i loro amici - Queneau, Leiris, Giacometti, Vian e Camus (con il quale le relazioni non sono facili) - diventano improvvisamente famosi: gli esistenzialisti, i resistenti, la sinistra, i giovani intellettuali che frequentano Saint-Germain-des-Prés sono più o meno confusi all'occhio del grande pubblico. Sartre è inviato negli Stati Uniti dal giornale Combat per “coprire” la conferenza di Yalta. Al suo ritorno spiega che cos'è l'esistenzialismo in una conferenza a Parigi: "L'esistenzialismo è un umanesimo." Fonda, questo stesso anno 1945, la rivista Les temps modernes. La gloria attira l’odio: non c’è stato intellettuale più pervicacemente detestato di Sartre - dai cristiani, dai comunisti, dai benpensanti - come anche da Céline, che lo definisce "il rivoluzionario alla birra".
Il teatro come tribuna
A partire da questo momento, Sartre, e con lui Simone de Beauvoir, non lasciano più la scena. La scrittura drammaturgica, scoperta in piena occupazione, inseparabile ai suoi occhi dal resto della storia e dell'azione collettiva, finisce col completarne ed ampliarne la celebrità che si estende ben al di là dei confini della Francia. Sotto l'occupazione, aveva scritto e fatto recitare Le mosche (1943), anno anche della pubblicazione del suo immane lavoro filosofico, L’essere e il nulla - dove si manifesta l'influenza di Husserl -, come anche Porte chiuse (1944). Nel 1946, pubblica La puttana rispettosa e Morti senza sepoltura; nel 1948 Le mani sporche. La sua concezione del teatro lo induce a rifiutare il teatro psicologico e realistico, fondato su personaggi e caratteri, quanto il teatro d'intrattenimento.
L'esistenza messa in scena
Raccomanda un teatro dove si discutano le grandi questioni contemporanee, attraverso personaggi presi in situazioni limite, violente, la cui sfida è sempre la libertà, la responsabilità, il senso dell’esistenza, estremi predicati spesso in contraddizione con l'azione. Oreste, nelle Mosche, si definisce con l'omicidio che compie, omicidio giusto poiché si oppone all'abuso del potere ed alla tirannia. I tre personaggi di Porte chiuse (riuniti in un salone per l'eternità poiché sono già morti) sono condannati per sempre a giudicarsi e ad essere giudicati, essendo ciascuno prigioniero della coscienza dell’altro - da cui la formula famosa: «L'inferno, sono gli altri». («L'enfer, c'est les autres»).
La logica rivoluzionaria
Alcune pièces teatrali come Le mani sporche, ponendo la questione della logica rivoluzionaria (che può condurre ad uccidere) e della coscienza che vi si oppone, o come Il diavolo ed il buono dio (1951), o I sequestrati di Altona (1959) - la prima che rinvia a una contrapposizione netta tra Satana e Dio, mentre l'eroe cerca il senso della sua esistenza attraverso l'azione, la seconda dove un ufficiale nazista è trascinato davanti ad un tribunale immaginario - testimonia il posto di rilievo della politica in questo teatro: come in Grecia, la scena è un’agorà ove un popolo sfinito ma esigente vede esposti i problemi principali della città. Altre pièces (Kean, adattamento da Dumas, 1953; Nekrasov, satira dell’ambiente giornalistico, 1955; o anche un rifacimento de Le troiane, da Euripide, 1965) testimoniano l'interesse di Sartre per il teatro, come per le arti della comunicazione in generale. Sartre ha scritto molte sceneggiature cinematografiche, ha concesso numerose interviste, ed ha partecipato assiduamente a conferenze e trasmissioni radiofoniche.
La Critica della ragione dialettica (1960) segna una svolta. Il marxismo, fino - ad allora ignorato da Sartre, ormai è ammesso come dato ineludibile, ma il suo progetto intellettuale non è sostanzialmente modificato. Le strutture socioeconomiche appaiono come elementi esterni e inerti, con e contro i quali la libertà degli uomini dovrà sempre misurarsi.
Dalla lotta politica alla scrittura
L’impegno politico si estrinseca nella continua attività giornalistica, che va dalla collaborazione a Combat fino alla direzione del giornale maoista la Cause du peuple, del trotzkista Révolution, fino a Libération. Esperienze che occorre mettere sullo stesso piano, perché significano la stessa volontà di essere presenti per testimoniare, denunciare, agire, come anche le numerose prefazioni ad opere letterarie e politiche spesso contestatarie e marginali (per Genet, Leibowitz, Fanon).
Terzomondista convinto, Sartre, ad esempio, ha prefato le opere di Senghor e Lumumba. Nella commovente prefazione-manifesto alla ripubblicazione di Aden-Arabia, riabilita in modo vibrante il suo amico Paul Nizan, ferocemente attaccato dai comunisti. I dieci volumi di Situazioni (1947-1976) raccolgono tutto questo immane lavoro critico e politico.
Un impegno permanente
Testimonianza delle sue collere, dei suoi odi e delle sue passioni, i testi di Situazioni disegnano un percorso politico originale. Attraverso l’RDR (Rassemblement démocratique révolutionnaire), sogna una terza via (tra stalinismo gollismo), al maoismo, passando per tappe complesse e depistanti per tutti coloro che lo avrebbero voluto di una sola parte, la loro. Prende posizione a favore di Israele al momento della creazione dello Stato ebreo, nel 1948, preceduta dalle Riflessioni sulla questione ebraica (1946), dove Sartre sostiene che il problema non è la questione ebraica ma quella dell'antisemitismo; denunzia i campi di concentramento sovietici, con Merleau-Ponty, nel 1950; rompe l’alleanza coi comunisti in occasione della guerra fredda, prima che l'intervento sovietico in Ungheria consumi la rottura definitiva con il PCF che tuttavia non disprezzerà mai; sostiene la virulenta posizione anticolonialista di Temps modernes (firma il manifesto dei 121,contro la guerra dell'Algeria, e, con Gisèle Halimi e Simone de Beauvoir, pubblica una saggio sulla tortura, Djamila Boupacha, nel 1962). Stesso ardore contro la guerra del Vietnam e stesso impegno nel maggio '68 a fianco degli studenti e degli operai.
Il "romanzo vero"
Nel corso di una vita così occupata, la scrittura tuttavia tiene il posto principale, e benché gli venga conferito il premio Nobel nel 1964 Sartre lo rifiuta, trovandolo troppo legato al blocco occidentale. Lo merita certamente: romanziere, drammaturgo, saggista, filosofo, Sartre è anche uno straordinario critico letterario. Inventore della "biografia esistenziale" pensata per questi "lavoratori dell'immaginario", doppi o fratelli, per i quali l'autore di Che cos’è la letteratura? (1947) tende a ricomprendersi - da Baudelaire (1947) a Genet (Saint Genet, attore e martire, 1952) e soprattutto a Flaubert (L'idiota della famiglia, 1971-1972, incompiuto) - fonda un metodo critico molto personale, che arriva al "romanzo vero" dell'autore affrontato ed il cui punto di partenza è sempre lo stesso: «Come si diventa un uomo che scrive?» In questo confronto con altri immaginari, la letteratura perde la sua definizione immediata, impegnata, che consiste nel rivelare il mondo per cambiarlo e diventa cosa più torbida e più angosciante, potere di annientamento, stupore dove gli esseri scompaiono, poiché scrivere è decidere di assentarsi dal mondo. Essendo un autore autentico, dunque quello che «ha più o meno scelto l'immaginario», Sartre appartiene ad un'età che si può solo temere definitivamente tramontata, dove, per volere cambiare il mondo, occorre anche proclamare i diritti e il potere dell’immaginazione.”
“… Se si approfondisce il comune sentire della cultura di oggi, si scopre che la Francia, di solito così indulgente nel celebrare le sue glorie, non si prepara a ricordare Sartre come ha fatto in questi anni per Dumas o Hugo o George Sand. Almeno non sembra, nel centenario della nascita dello scrittore. Più che a celebrazioni, si assiste al lavoro di rimozione, con qualche condizionamento freudiano sul suo pensiero politico. Sartre, già negli anni Ottanta, aveva smesso di piacere a una sinistra che aveva conquistato il potere e che non avrebbe voluto rileggere la lezione del filosofo sulla concezione del potere e dell'autoritarismo. La destra non gli ha mai perdonato i «veleni» da lui distillati nel perbenismo patriottico del Paese per trasformarsi nella formidabile stagione delle libertà civili, del femminismo militante, del rovesciamento dei rapporti di coppia e di famiglia, di una concezione libertaria della democrazia di cui ancora oggi si sente il bisogno a qualsiasi latitudine. La società civile, che continua a frequentare i bistrot di Saint-Germain, ha riscoperto il «privato». L'essere con gli altri, nel mondo e fra le cose; la concezione dell'uomo come progetto libero; la responsabilità sociale dell'intellettuale moderno che rinuncia persino al premio Nobel per dare ancora più forza di provocazione al suo pensiero; il moralista che prevale sul politico; l'eccesso di errori e intuizioni geniali: che cosa rimane di Sartre? Dice lo storico conservatore Jean-François Revel: «Posso convenire sul talento letterario e teatrale, ma la sua filosofia era già superata nella sua epoca. Si rifaceva a Hegel e Heidegger, sottovalutava il pensiero scientifico, quando tutto il mondo già parlava di Popper. La sua ricerca della verità e la sua esplorazione del mondo sono catastrofiche. Quanto al Sartre politico, di originale ci sono solo i suoi clamorosi abbagli, come l'idea che l'Unione Sovietica potesse essere un fattore di pacificazione del mondo. Certo, il suo spirito libertario e le sue battaglie per i diritti civili possono sedurre anche i conservatori, ma il merito di Sartre è relativo: ha vissuto profondi cambiamenti sociali, economici e del costume. Forse li ha anche rappresentati, ma lo spirito libertario è qualche cosa di diverso dall'amore per la libertà». In attesa di convegni e polemiche, la rivista l'Histoire alimenta la dissacrazione. L'anatomia del Sartre politico, letterato, filosofo, amante e marito - attraverso la voce di studiosi e testimoni - è uno schiaffo ai sogni di una generazione e appunto al mito. «Si era sempre sbagliato?» domanda retorica a proposito di Urss e comunismo, di gulag e libertà, di guerra al nazismo e di Vichy, di resistenza «militante» nei caffè parigini. Sbagliato e ambiguo, anche sul sesso e sull'amore («Vi amo e sono poligamo» scrive alla moglie). Forse sarebbe utile ascoltare chi ha continuato a studiare Sartre per una vita. Annie Cohen-Solal, che conobbe Sartre per una tesi su altro grande dimenticato, Paul Nizan, gli ha dedicato una monumentale biografia e ricorda che fu de Gaulle a definirlo «il Voltaire del XX secolo» e che Mitterrand invece lo detestava. «La sinistra non ha mai provato alcun sentimento di riconoscenza per l'uomo che aveva rotto con la borghesia». Nell'immenso scaffale dei dettagli, Annie Cohen-Solal ha pescato anche un divertente aneddoto sulla pizza napoletana, che Sartre definì crêpe al formaggio e pomodoro. Per il centenario, esce nel marzo prossimo, da Gallimard, un'elegante biografia illustrata (Sartre, un pensiero per il XXI secolo). Quando era un giovane professore di liceo, negli anni Trenta, abolì il registro delle presenze, si tolse la cravatta e scese dalla cattedra. C'era già tutto il suo pensiero, la sua straordinaria lezione di pedagogia dell'individuo e dell'uso del sapere. Sartre non era anarchico, era contro le gerarchie precostituite in tutti i campi della cultura e del potere. Considerava i professori gente che ripete tutta la vita la tesi di laurea. Gli allievi dicevano: studiamo e siamo felici, Sartre ci fa sentire uomini. Sartre mantenne questo atteggiamento in tutti i momenti della sua vita. Era modesto, disponibile, semplice. Rifiutava privilegi e buttava i soldi. Chiunque lo poteva avvicinare. Era uno specie di moderno socratico. Molti studiosi sono antropofagi: si scava nelle contraddizioni dell'uomo e del pensiero politico, confondendo valutazioni sbagliate e formidabili intuizioni. Sartre fu il primo a smuovere la cultura ufficiale sui fantasmi di Vichy e il primo a parlare di terzo mondo e colonialismo. Fu il primo a far conoscere nella Francia chiusa e nazionalista la cultura, il cinema e la musica americana. Ricordo un suo scritto illuminante, a proposito del rapporto dell'America con la guerra: «Gli americani non hanno la cultura delle città amputate e si sentono il centro del mondo».”
(Massimo Nava, Corriere della sera del 17 feb. 2005)
Immagini:
- Sartre et le Mai (Francesco Valentini - Luciana Castellina). Vidéo par Maria Teresa de Vito
- Jean Paul Sartre: il profeta della nuova letteratura francese
- Sartre par lui même 1976 Part1
Un brano musicale al giorno
Se non piange un'infelice. Giuseppe Bonno: L'isola disabitata. Klara Ek, soprano.
“Giuseppe Giovanni Battista Bonno (Vienna, 29 gennaio 1711 - Vienna, 15 aprile 1788) compositore austriaco di origini italiane. Fu uno dei principali compositori viennesi dell'epoca di transizione tra lo stile barocco, sia sacro (che apprese alla scuola di Fux) che teatrale (che apprese nei suoi studi a Napoli con Durante e Leo), e lo stile del classicismo. Restò sulla scena musicale viennese per oltre 50 anni, prima come compositore di corte e poi, dal 1774 alla morte, come Maestro di cappella della Corte imperiale. La sua produzione comprende, fra l'altro, 25 opere teatrali, 4 oratori, 30 messe, 2 requiem, cantate e un concerto per flauto e archi.
Giuseppe Giovanni Battista Bonno (o Bono) nacque il 29 gennaio 1711 a Vienna da Lucrezio (Brescia, 1683 - Vienna, 1742), valletto imperiale, e Maria Magdalena Kauner (Ruckersdorf, 1679 - Vienna, 1715), ed ebbe come padrino l'imperatore Giuseppe I. Dimostrò una precoce attitudine per la musica, probabilmente nel coro dei fanciulli cantori di corte; venne quindi avviato agli studi musicali con Johann Georg Reinhardt, maestro di cappella del Duomo di S. Stefano; fece ottimi progressi, al punto che l'imperatore Carlo VI si convinse ad inviarlo a proprie spese a Napoli per studiarvi musica coi migliori maestri.
Nel 1726 il Bonno partì dunque per Napoli, ove studiò con Durante e Leo al Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, avendo come compagno di studi Pergolesi. Qui fece il proprio debutto nel 1732 con l'opera Nigella e Nise e quindi nel 1735 con l'oratorio Gesù presentato al Tempio, incontrando l'approvazione dei professori e del pubblico. Nel 1736 fece ritorno a Vienna, dove proseguì gli studi come hofscholar della cappella imperiale sotto l'egida dell'anziano Johann Joseph Fux, indiscussa autorità musicale della capitale asburgica; questo gli diede modo di approfondire la propria tecnica musicale ed esibirsi nella rappresentazioni di corte. Nel 1737 - morto nel dicembre dell'anno precedente Antonio Caldara, vice maestro di cappella - fece istanza per ottenerne il posto, ma Fux non lo ritenne ancora maturo per l'incarico (in particolare nella tecnica contrappuntistica) e gli preferì il Predieri.
Nel 1739, il successo dell'oratorio Eleazaro gli valse la nomina a compositore di corte con lo stipendio di 360 fiorini annui, portati ad 800 l'anno successivo. Nel contempo, si pose al servizio del principe Giuseppe Federico di Sassonia-Hildburghausen, feldmaresciallo imperiale, che nel proprio palazzo viennese (ora Palazzo Auersperg) amava dare concerti ingaggiando i migliori compositori del momento. I 15 anni successivi costituirono il periodo più fecondo per Bonno: lo stesso Metastasio in una lettera del 1753 a Farinelli lo descrisse come "dotato dalla natura di quella grazia che non nasce dalla stravaganza; e l'unico insomma fra quelli che sono in questo paese, dal quale io possa ragionevolmente sperare qualche cosa di onesto". Diviso tra le commissioni per la Corte e la conduzione dell'orchestra del principe, ebbe modo di far da insegnante a Marianna Martines ed a molti altri compositori dell'epoca. Nel 1751 venne assunto nell'orchestra come violinista un giovanissimo Dittersdorf, che - apprezzando le capacità del maestro - decise di prendere lezioni da lui; lo stesso Dittersdorf nelle sue Memorie lascia di Bonno un affettuoso ritratto. Nel 1752 conobbe Gluck, con cui collaborò in occasione della visita a palazzo dell'imperatrice Maria Teresa nel 1754, e con cui entrò in amicizia al punto da segnalarlo al principe come proprio successore alla guida dell'orchestra.
Proprio il 1754 segnò una svolta nella carriera e nella vita di Bonno: le proprie dimissioni dall'orchestra del principe di Hildburghausen a favore di Gluck sono in proposito emblematiche. Il compositore infatti si ritirò dalle scene teatrali e brillanti (eccettuate un paio di cantate successive, su richiesta della Corte imperiale), per dedicarsi alla musica sacra. Se ne ignora il motivo: il Wellesz, uno dei suoi principali biografi, ha ipotizzato che Bonno - dopo aver sentito le opere di Gluck ed aver avvertito la dirompente novità della sua riforma - si sia reso conto che il proprio stile operistico, impostato su quello dell'opera seria italiana, stava per tramontare. Proseguì quindi nell'insegnamento, nella direzione di orchestre e nella composizione di pezzi sacri, oltre a qualche commissione presso la Corte; nel 1768 gli venne presentato il giovanissimo Mozart, con cui stabilì rapporti più che cordiali. Nel 1774 morì Florian Leopold Gassmann, compositore di corte e maestro di cappella della Corte imperiale sotto l'imperatore allora regnante, Giuseppe II: la carica di compositore di corte venne affidata ad Antonio Salieri, mentre il Bonno venne finalmente nominato maestro di cappella, a coronamento di una carriera ultra-quarantennale.
Tale carica gli consentì di mettere a frutto sia i lunghi anni di composizione in ambito sacro sia le sue doti di direttore d'orchestra, per cui era invitato nei più importanti concerti della nobiltà viennese: Leopold Mozart lo definì "progressista per quanto concerneva la tecnica della strumentazione". Ritrovò di nuovo un Mozart ormai cresciuto, che in una lettera al padre dell'11 aprile 1781, sottolineava la sua ammirazione per la direzione orchestrale di Bonno nonché la sua personale cortesia, chiamandolo “persona degna e rispettabile, come sempre”. Negli ultimi anni prese come vice Salieri, che infatti gli subentrò quale maestro di cappella nel marzo 1788, quando il Bonno diede le dimissioni per problemi di salute. Morì poco dopo, il 15 aprile dello stesso anno.”
(In wikipedia.org)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
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Ugo Brusaporco
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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.
È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.
Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.
“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”
(Wikipedia)
“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”
(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)
“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.
(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)
“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”
(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)
“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)
“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.
(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)
Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/
Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0
https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs
https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4
https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk
Una poesia al giorno
Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l'anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
Nous serons
N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents
N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.
Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.
Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible
Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.
Unis par le plus fort et le plus cher lien,
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.
Sans nous préoccuper de ce que nous destine
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?
Un fatto al giorno
17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.
(da Focus)
Una frase al giorno
“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”
(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)
Un brano al giorno
Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k