L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno III. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
LUCI DEL VARIETA’ (Italia, 1950), regia di Federico Fellini e Alberto Lattuada. Prodotto da Federico Fellini, Alberto Lattuada. Screenplay by Federico Fellini, Alberto Lattuada, Tullio Pinelli, Ennio Flaiano. Story by Federico Fellini. Musiche Felice Lattuada. Fotografia: Otello Martelli. Montaggio: Mario Bonotti. Cast: Peppino De Filippo, Carla Del Poggio, Giulietta Masina, John Kitzmiller, Folco Lulli, Dante Maggio, Checco Durante, Gina Mascetti, Iulio Calì, Carlo Romano, Silvio Bagolini, Giacomo Furia, Mario De Angelis, Vanja Orico, Enrico Piergentili, Renato Malavasi, Joseph Fallett, Fanny Marchiò.
Checco Dalmonte è il capocomico della compagnia "Polvere di stelle" che fa spettacoli di varietà in teatrini di provincia e nella quale recita anche Melina, sua fidanzata. Durante una rappresentazione in un piccolo centro, viene avvicinato dalla giovane e bella Liliana, che gli chiede di farla entrare nel mondo dello spettacolo, ma tutti i membri della compagnia, sempre in bolletta, si oppongono, considerandola solo un costo in più.
Liliana non si dà per vinta e segue la compagnia nel suo viaggio verso un altro teatro di provincia. Qui, facendo leva sull'attrazione che Checco prova per lei, riesce a farsi scritturare come ballerina e ben presto ruba la scena agli altri attori. Viene notata dal ricco avvocato La Rosa che, con l'intento di sedurla, invita i comici a casa sua. Essi accettano con entusiasmo l'offerta, ben lieti di poter cenare per una volta gratis, ma quando La Rosa cerca di introdursi nella camera di Liliana, Checco, ingelosito, si oppone col risultato che tutti vengono cacciati in malo modo e devono raggiungere a piedi la lontana stazione.
Checco, sempre più attratto dalla nuova soubrette, lascia Melina ed abbandona il gruppo per tentare di organizzare un nuovo spettacolo del quale Liliana sia la prima stella. Ma la giovane capisce ben presto che Checco non ha alcun credito nel mondo della rivista e così lo abbandona per un ricco impresario teatrale di cui diventa l'amante. Avvilito e senza un soldo, Checco torna da Melina che lo perdona e per consentirgli di allestire un nuovo spettacolo, gli presta il denaro che aveva faticosamente risparmiato. Ma anche questa sarà una compagnia di scarso valore.
Una sera alla stazione, Liliana, elegantemente vestita ed in compagnia del ricco amante, sta partendo con un lussuoso treno per Milano, dove l'attende il successo. Dal finestrino scorge sul binario opposto Checco e la sua compagnia raccogliticcia che con i soliti abiti stazzonati salgono su uno scomodo treno popolare per raggiungere una delle solite mete di provincia. L'affetto tranquillo e familiare di Melina sembra aver riconquistato Checco. Ma la tentazione è sempre dietro l'angolo, e su quel vagone di terza classe Checco propone ad un'altra ragazza di diventare soubrette.
“Il capo di una compagnia di guitti (Peppino de Filippo) che presenta la sua scalcinata rivista in meschini teatri di provincia, inganna un'innamorata (Giulietta Masina) con una fresca campagnola (Carla del Poggio) che l'abbandona per un impresario (Folco Lulli). Più che di Lattuada, il film reca l'impronta di Fellini. Già avverte il suo "universo", la divertita tenerezza, la tristezza ironica, il gusto per il barocco, l'amore per il povero mondo dei "guitti". La descrizione della "tournée" della compagnia è a volte di un'efficacia impressionante, tra il grottesco e l'amaro.”
(Georges Sadoul)
“Si trovano qui già tutti i miti di Fellini e si anticipano tutte le sue opere future: la solitudine dei personaggi e il ridicolo della loro condizione ci appaiono in un clima insolito, di cui sono elementi principali il senso dello "spettacolo" e la mobilità. Il barocchismo si dilata nell'atmosfera soffocante, formicolante, esasperata di quel piccolo teatro di provincia dove Clara [sic] si esibisce. Il ricevimento della compagnia a casa di un signorotto innamorato di Clara [sic] contiene già, in filigrana, i balli di Vitelloni e del Bidone, così come le nozze della Strada. Vi si ritrova anche un procedimento di costruzione drammatica impiegato più tardi negli stessi balli. L'idea consiste nel dissolvere il problema individuale nella frenesia della folla e del movimento, poi nell'isolarlo a poco a poco, fino al punto di riportarlo di nuovo alla sua totale solitudine interiore.”
(Geneviève Agel)
“Uno di meriti del film Luci del varietà (di Lattuada e Fellini) ci sembra essere l'indifferenza che gli autori mostrano per quelle soluzioni drammatiche già provate da una lunga consuetudine, il sospetto con cui osservano queste eroine del momento che sono le miss o le aspiranti divette. C'è un breve quadro nel film giusto alla fine, in cui la protagonista, finalmente seminuda sul palcoscenico (come ha sempre sognato) manda baci al pubblico e ringrazia, con le lagrime agli occhi per gli applausi che vanno al suo corpo. E' un'apoteosi feroce, che corona tutta una serie di osservazioni sul carattere dei comici, sul loro concetto del successo e dell'arte, e che pongono pertanto questo film (che non manca di difetti) su un piano insolito, al di sopra del genere ameno [...] Più che un film satirico se ne ricava un antiromanzo, dove le precisazioni nette e crude non vengono dalla mania di fare un po' di realismo a buon mercato, ma sono cercate apposta, per togliere tutte le speranze di una soluzione normale, a lieto fine, e sono ottenute contro i personaggi, che non commuovono mai, presi come sono da un gioco in cui la vanità supera ogni altro sentimento.”
(Ennio Flaiano)
“Lattuada tenta, assieme a Fellini, una iniziativa tanto atipica quanto rischiosa; la compartecipazione alle spese di produzione per il film Luci del varietà (1951). I finanziamenti - dopo il rifiuto di Carlo Ponti, che inizia a girare contemporaneamente Vita da cani sullo stesso argomento - vengono da tre parti: il Credito Cinematografico della Banca Nazionale del Lavoro, la casa produttrice Capitolium-Film (nella persona di Mario Ingrami) e Lattuada stesso. Parte della troupe viene pagata da Lattuada insieme a Carla Del Poggio (protagonista) e Fellini (co-regista), mentre gratuitamente lavorano anche Giulietta Masina (come attrice), il padre di Lattuada, Felice (per la musica) e la sorella Bianca (per l'organizzazione), realizzando così un singolare esempio di produzione cooperativistica. Per la distribuzione Lattuada si appoggia alla Fincine, che sottoscrive il contratto fornendo la quota del "minimo garantito". Iniziano così le riprese, dopo un lavoro di sceneggiatura compiuto sulla base dei ricordi personali di Fellini (era stato varie volte in tournée con la compagnia di varietà di Aldo Fabrizi) e degli appunti presi da Lattuada assistendo ai numeri del varietà romano di Altieri.
La storia di Dalmonte è quella di un individuo sempre uguale a se stesso: nella prima sequenza, in treno adocchia Liliana e la convince a entrate nella compagnia; alla fine svanito il sogno d'amore e di successo rivolge nello scompartimento la parola a un'altra bella ragazza: "E' attrice lei? No! Eppure sarebbe il tipo...". La storia ricomincia uguale a se stessa, rivelando i meccanismi di funzionamento di un modello di spettacolo in cui all'immobilità di un ruolo (il capocomico) corrisponde l'intercambiabilità di altri (la soubrette). L'avanspettacolo di Luci del varietà riproduce a un livello più "basso" il sistema di leggi che governa l'universo teatrale descritto, nello stesso anno, dal film di Mankiewicz Eva contro Eva, dove il passaggio delle consegne dalla vecchia attrice (Bette Davis) alla nuova diva (Anne Baxter) e poi alla "starlet" (Marilyn Monroe) configura un universo retto da regole rigide: la precarietà di alcuni ruoli (le attrici) e la stabilità di altri (il giornalista) non modifica il tipo di teatro che si fa, anzi ne garantisce la sopravvivenza.
Non diversamente, anche se in ambiente differentemente caratterizzati e geograficamente circoscritto, le leggi dell'avanspettacolo assorbono, utilizzano e rigettano gli artisti secondo le esigenze del momento: è la sorte che toccherà presumibilmente a Liliana in un ipotetico (ma prevedibile) seguito del film, dopo aver goduto dell'interessamento dell'impresario Adelmo Conti (Folco Lulli, in una parte simile a quella di George Sanders nel film di Mankiewicz). Dalmonte resta invece al suo posto, dopo aver appena sfiorato il mondo del varietà della metropoli ed esserne stato estromesso. La fine della storia segna la sconfitta del tentativo di acquisire un nuovo ruolo (cioè diventare un impresario importante) e il ritorno alla condizione iniziale, ma conferma anche la pervicace volontà di proseguire il gioco. Dalmonte continuerà a cercare la sua attrice in ogni bella ragazza e prolungherà l'autocompiacimento fregiandosi degli appellativi di "grande fantasista", "fucinatore d'ilarità", "paralizzatore delle platee".
Intorno a lui, e come lui, i componenti della compagnia perpetuano nella vita di ogni giorno il comportamento spettacolare: nella cena a casa dell'avvocato (Carlo Romano) l'euforia collettiva per un momento altro dallo spettacolo copre la realtà di una serie di atti speculari a quelli della finzione: il fachiro addenta la carne allo stesso modo con cui sgranocchia la lampadina sul palcoscenico, Liliana balla nella cucina con una treccia d'aglio a mò di collana, il napoletano imbraccia la chitarra e esegue un numero del suo mesto repertorio. Questo mondo piccolo e ristretto, ripiegato su se stesso, tanto limitato nelle ambizioni (Melina vuole mettere da parte i soldi per aprire una salumeria) quanto sfrenato nell'immaginazione (la messa in scena del balletto hawaiano, dei grattacieli americani, dell'India misteriosa) è rappresentato criticamente disseminando il racconto di veloci notazioni che colmano i vuoti di una struttura narrativa estremamente duttile e diversificata a seconda della situazione da presentare. "Tutta l'Italia artistica si accorgerà dei nostri successi, tutta l'Italia artistica!". Il patetico grido di Dalmonte resterà senza risposta e assumerà il senso di una profezia amara e ironica: gli antieroi di Lattuada e Fellini, apprezzati dalla critica, risulteranno sgraditi al pubblico, anche in virtù del fallimento della casa distributrice proprio al momento del decollo del film. Lattuada pagherà i debiti per alcuni anni, preoccupandosi anche di salvare il negativo del film che altrimenti sarebbe andato perduto.”
(Claudio Camerini, Alberto Lattuada, Il castoro cinema, 1981)
- Il film “Luci del varietà”, 1950 [Multi Subs]
Una poesia al giorno
Foreign children, di Robert Louis Stevenson
Little Indian, Sioux or Crow,
Little frosty Eskimo,
Little Turk or Japanee,
O! don't you wish that you were me?
You have seen the scarlet trees
And the lions aver seas;
You have eaten ostrich eggs,
And turned the turtles off thair legs.
Such a lite is very fine,
But it's not so nice as mine:
You must often, as you trod,
Have wearied not to be abroad.
You have curious things to eat,
I am fed on proper meat;
You must dwell beyond the foam,
But I am safe and live at home.
Little Indian, Sioux or Crow,
Little frosty Eskimo,
Little Turk or Japanee,
O! don't you wish that you were me?
Bambini stranieri
Piccolo Indiano, Apache o Sioux,
e tu, Eschimese, dico a te,
tu, Giapponese e tu Indù,
voi non vorreste essere me?
Avete visto alberi rari
e grandi leoni sopra i mari
mangiato uova di struzzo e nandù,
e tartarughe girato all'insù.
Come vita non è male,
ma la mia è più normale;
credo che spesso vi siate stancati
dei posti dove vivete e siete nati.
Avete cibi strani e curiosi
io piatti di carne conditi e gustosi,
voi abitate oltre i flutti del mare
io in una casa dove posso giocare.
Piccolo Indiano, Apache o Sioux,
e tu, Eschimese, dico a te,
tu Giapponese, e tu Indù,
voi non vorreste essere me?
Robert Louis Balfour Stevenson (Edimburgo, 13 novembre 1850 - Vailima, 3 dicembre 1894) scrittore, drammaturgo e poeta scozzese.
"La formazione culturale ed umana di Stevenson va ascritta alla sua infanzia, come lui stesso ebbe a dire nell'autobiografico Memoirs of Himself (1880): "Le mie sofferenze quand'ero malato, le gioie della convalescenza... e l'attività innaturale del mio cervello". Con queste parole, infatti, l'autore non solo sintetizza le sue esperienze infantili, ma sembra anche indicare le componenti fondamentali della sua ispirazione letteraria, vale a dire la sofferenza, il gioco e la fantasia. Anche in A Chapter of Dreams, in cui fra l'altro spiega la genesi del Dr. Jekyll and Mr. Hyde, Stevenson richiama alla mente i sogni - talvolta banali, a volte meno strani o informi - che lo tormentavano da bambino: "una sfumatura d'oscuro di cui non gli importava nulla quando era sveglio, ma che temeva e aborriva nel sogno". Reminiscenze dell'infanzia compaiono, del resto, ripetutamente nell'opera di Stevenson. Basti menzionare The Lantern Bearers, The Manse, Child's Play, e tutte le poesie contenute nella raccolta intitolata A Child's Garden of Verses. Non è facile, tuttavia, stabilire se sia stato il bambino gracile e sognatore a condizionare le scelte letterarie dell'adulto o se lo scrittore abbia cercato nell'infanzia la conferma della propria vocazione per la narrativa fantastica ed avventurosa.
È certo però che una certa influenza sulla formazione di un giovanissimo Stevenson la ebbe l'infermiera-bambinaia "Cummy", a cui dedicò A Child's Garden of Verses, alla quale era stato affidato presumibilmente perché la madre era ammalata. Questa puericultrice aveva, infatti, una forte personalità e convinzioni religiose calviniste che cercò di trasmettere all'autore. Era però anche una donna dalla fervida immaginazione, che sapeva raccontare storie con impeto drammatico, come s'apprende dalla testimonianza indiretta della moglie di Stevenson, contenute nella prefazione alla raccolta di poesie dedicate alla bambinaia.
Dunque dai giochi dell'infanzia (rimasti a sedimentare nella psiche), come il teatrino di Skelt (grandi fogli da ritagliare e colorare per creare scenografie ispirate alle Mille e una notte o alla leggenda di Robin Hood) o da altri, dov'è quasi sempre presente l'elemento avventuroso, riaffioreranno più avanti al momento della creazione artistica quei motivi peculiari alla sua attività di scrittore immaginario e fantastico. In A Chapter on Dreams - un'indagine molto acuta dei processi creativi e forse anche più in generale di quelli psichici - lo scrittore confesserà d'avere come collaboratori instancabili, sia nel sonno che nella veglia, "quegli uomini che dirigono il teatrino che c'è in ognuno di noi". Invece dagli scritti The Lantern Bearers, in cui descrive gli avventurosi giochi svolti nella sua infanzia, e in Child's Play emerge un'immagine dickensiana dell'infanzia, come età in cui si mescolano terrori e fantasie. Così i ragazzi che si divertono a portare, nascosta sotto una giacca, una lanterna puzzolente di stagno o il bambino che stringe d'assedio una poltrona, come fosse un castello, sono proiezioni mitiche di un mondo perduto che l'adulto può recuperare solo grazie alla capacità di un artista che non obbedisca agli imperativi del realismo, ma lascia libero il bambino che è in lui.
Una relativa importanza nella formazione dell'autore ebbero anche le storie tratte dalla Bibbia, Il pellegrinaggio del cristiano di Bunyan, il Macbeth di Shakespeare e il Robinson Crusoe di Daniel Defoe.
Stevenson ateo: intorno ai diciassette anni, il bambino gracile, sognatore e timoroso di Dio si tramutò in un giovanotto scapestrato e ribelle, effettuando un apprendistato diverso da quello previsto dal padre e poi professandosi ateo. In quegli anni imparò a conoscere la sua città sia negli aspetti più palesi sia in quelli più nascosti, come si evince dalle descrizioni di Edimburgo: Picturesque Notes e in una dei New Poems. Un simile comportamento, molto frequente nelle famiglie vittoriane negli ultimi decenni del secolo, era principalmente provocato dalla diffusione della teoria evoluzionista di Charles Darwin e dalla sociologia di Herbert Spencer, che inducevano i giovani ad assumere atteggiamenti di ribellione nei confronti della religione e del codice morale repressivo imposto dalla società. Tuttavia un certo pragmatismo di marca puritana rimase in Stevenson sino alla fine della sua vita, insieme ad un radicato senso della famiglia, tanto che nella sua opera non sembra emergere alcuna testimonianza di quello scontro fra la vecchia generazione timorata di Dio ed avversa alla letteratura e i giovani intellettuali agnostici.
L'incontro, a Cockfield, con Francis Sitwell e con Sidney Colvin, avvenuto nel 1873, fu uno dei momenti più importanti della sua vita, quello che avrebbe determinato le future scelte letterarie dell'autore, mentre nel 1874 entrò al "Sevil Club", dove incontrò importanti personaggi della cultura, tra cui Edmund Gosse e Henry James..."
(Leggi l’articolo completo in: it.wikipedia.org)
13 novembre 1850 nasce Robert Louis Stevenson, romanziere, poeta e saggista scozzese (morto nel 1894).
Un fatto al giorno
13 novembre 1916: Prima guerra mondiale, il primo ministro australiano Billy Hughes viene espulso dal Partito Laburista per il suo sostegno alla coscrizione.
William Morris "Billy" Hughes (Londra, 25 settembre 1862 - Sydney, 28 ottobre 1952) è stato un politico australiano. Nato a Londra da famiglia di origine gallese, settimo premier australiano, detiene il record di presenza parlamentare ed è stato il più colorito, trasformista e anomalo politico della storia australiana; nei 51 anni di vita parlamentare, è stato espulso da tre differenti partiti.
Hughes fu un forte sostenitore della partecipazione alla prima guerra mondiale e nel 1916, dopo una visita in Gran Bretagna, si convinse della necessità dell'introduzione della leva obbligatoria per rendere efficace il contributo australiano allo sforzo bellico. La vasta maggioranza dei laburisti, che comprendeva l'ala cattolica e il sindacato, avversarono fortemente questa riforma e nell'ottobre del 1916, in un plebiscito voluto da Hughes, la popolazione australiana, grazie anche all'attivismo dell'Arcivescovo Daniel Mannix respinse la costituzione dell'esercito di leva. La sconfitta non fece desistere Hughes dalla sua battaglia, battaglia che divise la nazione e i laburisti i quali, nel novembre del 1916, deliberarono l'espulsione del premier dal partito. Per tutta risposta Hughes fondò il partito nazional laburista, con il quale diede vita ad un governo di minoranza, e contemporaneamente negoziò con il partito liberale del Commonwealth di Joseph Cook, di orientamento conservatore, la formazione di un nuovo soggetto politico che prese il nome di partito nazionalista alla testa del quale sconfisse il partito laburista alle elezioni del 1917. Hughes, rinvigorito dal successo elettorale, promosse un nuovo referendum sull'introduzione della coscrizione obbligatoria ma fu nuovamente battuto. Come aveva promesso, a seguito della sconfitta referendaria, rassegnò le dimissioni ma il Governatore Generale, preso atto dell'assenza di alternative politiche, gli conferì l'incarico di formare il nuovo governo.
In 1919, Hughes e l'ex premier Joseph Cook si recarono a Londra per preparare la conferenza di pace di Versailles. Hughes soggiornò a Versailles per 16 mesi sino alla firma del trattato di pace; egli chiese che la Germania pagasse forti indennizzi per il conflitto, incontrando la ferma opposizione del Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson che lo definì un pestifero verme. Riuscì ad ottenere il controllo dell'ex colonia tedesca della Nuova Guinea. A dispetto del rigetto da parte della popolazione della coscrizione obbligatoria la popolarità di Hughes crebbe e nel dicembre del 1919 vinse con una maggioranza considerevole le elezioni politiche. Hughes fu il più deciso oppositore dell'inclusione nel trattato di pace della proposta Giapponese sull'uguaglianza razziale. La sua visione di un'umanità divisa per tipologie razziali, che rifletteva la mentalità dell'epoca, provocò il risentimento del governo giapponese verso di lui...”
(Leggi l’articolo completo in: it.wikipedia.org)
Una canzone: Women's No-Conscription Song Australian Women's Peace Army (1916) fu composta da attiviste del Labor Women's Anti-Conscription Committee del Victorian Socialist Party (VSP) australiano in occasione del referendum/plebiscito voluto dal governo retto dal laburista Billy Hughes, che voleva introdurre la coscrizione obbligatoria per sostenere la partecipazione dell’Australia alla Grande Guerra.
Hughes perse la prima consultazione ma non si diede per vinto, lasciò il partito, ne fondò uno proprio, ritornò al potere, promosse un nuovo referendum alla fine del 1917, perseguitò pacifisti e attivisti anti-coscrizione (con l’arresto di molti dirigenti socialisti, dell’IWW e di direttori dei giornali favorevoli al NO), mise in campi di concentramento migliaia di cittadini di origine tedesca, perse di nuovo la consultazione popolare...
E intanto oltre 60.000 ragazzi australiani morirono a Gallipoli e negli altri teatri di guerra in Asia, nel Pacifico e in Europa, oltre 150.000 i feriti.
Vicenda esemplare che la dice lunga a proposito del rispetto che i governanti hanno sempre della volontà popolare...
Nonostante la sua arroganza e violenza, Hughes proseguì nella sua fulgida carriera politica e rimase per oltre 50 anni in Parlamento, con incarichi di governo fino ai primi anni 40... Altra vicenda esemplare che la dice lunga a proposito di quanto i governati siano boccaloni e finiscano sempre per applaudire e votare chi glielo ha appena ficcato per bene nel culo, basta che si tratti dell’ “uomo forte”...)
Every woman has got to have a say
Before they can send our men away;
So I want you all to know why the women will say NO!
To Mr. Hughes on Referendum Day.
[Chorus] For Conscripts our men shall never be,
We're going to defend their liberty;
And I want you all to know
That my vote will be a NO!
Mr. Hughes can't made a willing tool of me, of me, of me,
Mr. Hughes can't make a willing tool of me.
Messrs. Hughes, Pearce, Irvine, Cook & Co.
Would liberty and conscience send below,
And our wages may come down with labor black or brown
So it's up to every woman to say NO.
When Mr. Hughes to England said good-bye
The Duchesses and Dukes began to cry
But that's nothing to the woe that they'll
feel when we say NO
To Mr. Hughes on Referendum Day.
To the soldier I would say,
Don't let them filch your civil rights away
Make sure before you roam of your enemy at home
By voting NO on Referendum Day.
Working women to your cause be true
Remember what your men would have you do.
Don't forget the daily press is whining for a Yes
Vote NO and down the powers opposed to you.
And now I've just a final word I'll say
We have no right to vote men's lives away,
Oh mothers, sisters, wives, ye who travail for men's lives,
Think well before you vote those lives away.”
Una frase al giorno
“Senza il rispetto dell’obbligo morale fondamentale “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, non è possibile allacciare alcuna relazione umana né potrà esistere alcuna comunità politica tra le nazioni”
(Helene Stöcker, 1869-1943, femminista, riformatrice e pacifista di rilevanza internazionale)
“Su Helene Stöcker sono recentemente apparsi numerosi studi. In particolare, a partire dal 1969, il centenario della nascita, nuove ricerche sia in Germania che negli Stati Uniti, hanno ricostruito e valorizzato il suo impegno nella sfera della riforma sessuale, dell’emancipazione femminile e del pacifismo. Poiché in Italia Helene Stöcker è assai poco conosciuta, questa introduzione al suo scritto, Frammenti di vita, traccerà un breve profilo biografico, dalla fondazione del Bund für Mutterschutz alla Grande guerra.
Hulda Karoline Emilie Helene Stöcker nacque a Elberfeld il 13 novembre 1869, in una famiglia molto religiosa, primogenita di 8 figli. Quando la madre, a causa dei postumi di una gravidanza, non fu più in grado di prendersi cura dei figli, Helene dovette farsi carico dei fratelli più piccoli, un’esperienza che la fece riflettere sulle conseguenze della maternità sulla vita delle donne e che influirà sulla sua attività degli anni successivi. Nel 1890, contro la volontà del padre, partecipò a un seminario che le offrì l’opportunità di accostarsi al pensiero di Nietzsche. Dall’individualismo radicale del filosofo tedesco, dalla sua enfasi sulle forze vitali, sulla necessità di liberazione dalle convenzioni, trasse il coraggio di sfidare gli oppressivi legami famigliari. Nel 1892, infatti, si trasferì a Berlino, dove aderì alla Deutsche Friedensgesellschaft (Società tedesca per la pace) e dove intraprese gli studi filosofici che concluderà in Svizzera nel 1902. Nel corso della seduta inaugurale della Società per la pace poté assistere ad una conferenza di Berta von Suttner, autrice anch’essa decisiva negli anni della formazione. A Berlino insegnò filosofia alla Lessing Hochschule e collaborò con Anita Augsprug e Lida Gustava Heymann nella Società tedesca per il suffragio femminile. Nel 1905 fondò il Bund für Mutterschutz und Sexualreform (Lega per la protezione della madre e la riforma sessuale) e ne diresse l’organo “Die Neue Generation” fino al 1933, quando dovette abbandonare la Germania. Il movimento aveva come scopo quello di migliorare le condizioni delle donne non sposate e dei loro figli dal punto di vista economico, etico, sociale e giuridico. Nel decennio precedente la Prima guerra mondiale nei suoi scritti e nella sua attività Helene Stöcker affermò il diritto delle donne all’autodeterminazione nella vita affettiva e nella sfera riproduttiva, si impegnò per la libera espressione della sessualità, per l’abrogazione dal codice penale degli articoli che penalizzavano l’aborto e l’omosessualità6. In questi anni il tema della contraccezione ha un’importanza centrale nel suo pensiero: poiché dava alle donne il controllo sulla propria vita, era “uno dei metodi più efficaci per risolvere la questione femminile e la questione sociale”. Nella convinzione che solo dalla collaborazione tra uomini e donne, da relazioni di coppia fondate sull’amore e sul rispetto reciproco avrebbe potuto scaturire un nuovo ordine etico e sociale, il Bund era aperto a tutti. Il movimento ebbe una vasta risonanza anche al di fuori della Germania e nel 1911 sorse l’International Society for Protection of Mothers.
(Leggi l’articolo completo di Bruna Bianchi in: www.unive.it)
Un brano musicale al giorno
Giocchino Rossini, "Petite Messe Solennelle" (1983)
Direttore: Claudio Scimone - Soprano: Katia Ricciarelli - Contralto: Margarita Zimmermann - Tenore: José Carreras - Basso: Samuel Ramey - Piano: Paul Berkowitz, Craig Sheppard - Harmonium: Richard Nunn.
La Petite messe solennelle è una composizione sacra di Gioachino Rossini. Fu scritta nel 1863.
1. Kyrie - coro
2. Gloria
Gloria in excelsis Deo - soli, coro
Gratias agimus tibi - soli (contralto, tenore, basso)
Domine Deus - tenore solo
Qui Tollis - soli (soprano, contralto)
Quoniam - basso solo
Cum Sancto Spiritu - coro
3.Credo
Credo - soli, coro
Crucifixus - soprano solo
Et resurrexit - soli, coro
4. Offertorium (Prélude religieux) - pianoforte solo (organo, nella II versione)
5. Sanctus - soli, coro
6. O salutaris hostia - soprano solo
7. Agnus Dei - contralto solo, coro
Rossini abbandonò la composizione di opere liriche dopo il successo ottenuto con la sua ultima composizione per il teatro, il Guglielmo Tell (1829). Da allora, quando aveva trentasette anni, si dedicò ugualmente alla composizione dedicandosi però alla musica da camera e sacra senza pubblicare alcun lavoro eppur lasciando capolavori specialmente in àmbito sacro.
Di questi, due sono considerati tra i migliori capolavori della musica del XIX secolo: lo Stabat Mater, composto tra il 1831 e il 1841, e la Petite messe solennelle, composta nel 1863, cinque anni prima della sua morte ed "ultimo dei miei Peccati di vecchiaia", come il compositore amava definire i suoi lavori di età senile.
Capolavoro nuovo, quasi azzardato per anni in cui imperava il romanticismo, con la sua melodia, che solo in seguito sarà valutata come capolavoro rossiniano: esso anticipa i tempi della musica moderna dando nuovi indirizzi estetici e forme avveniristiche che si svilupperanno ben oltre la metà dell'Ottocento per giungere agli inizi del Novecento.
La Petite messe solennelle fu scritta per dodici cantanti, di cui quattro solisti, due pianoforti e un armonium. Rossini la volle anche orchestrare, nel 1867, sia perché spinto da più parti ma, soprattutto, ritenendo che se l'orchestrazione fosse stata fatta da qualcun altro musicista dopo la sua morte, l'opera non avrebbe avuto quella caratteristica per cui la scrisse.
Dopo che il lavoro fu terminato, scriveva nel manoscritto in calce all'Agnus Dei:
«Buon Dio, eccola terminata questa umile piccola Messa. È musica benedetta [sacra] quella che ho appena fatto, o è solo della benedetta musica? Ero nato per l'opera buffa, lo sai bene! Poca scienza, un poco di cuore, tutto qua. Sii dunque benedetto e concedimi il Paradiso.» (Gioachino Rossini, Passy, 1863)
(Leggi l’articolo completo in: it.wikipedia.org)
13 novembre 1868 muore Gioachino Rossini, pianista e compositore italiano (nato nel 1792)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.
È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.
Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.
“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”
(Wikipedia)
“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”
(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)
“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.
(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)
“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”
(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)
“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)
“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.
(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)
Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/
Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0
https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs
https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4
https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk
Una poesia al giorno
Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l'anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
Nous serons
N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents
N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.
Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.
Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible
Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.
Unis par le plus fort et le plus cher lien,
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.
Sans nous préoccuper de ce que nous destine
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?
Un fatto al giorno
17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.
(da Focus)
Una frase al giorno
“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”
(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)
Un brano al giorno
Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k