“L’amico del popolo”, 14 novembre 2019

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno III. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

PER UN PUGNO DI DOLLARI (Italia, Spagna, Germania Ovest, 1964), regia di Bob Robertson (Sergio Leone). Soggetto: Sergio Leone. Sceneggiatura: Sergio Leone, Duccio Tessari, Fernando Di Leo. Casa di produzione: Jolly Film, Ocean Film, Constantin Film. Distribuzione in italiano: Unidis. Fotografia: Jack Dalmas. Montaggio: Bob Quintle. Musiche: Leo Nichols. Cast: Clint Eastwood, Joe. Marianne Koch, Marisol. Gian Maria Volonté, Ramón Rojo. W. Lukschy, John Baxter. Sieghardt Rupp, Esteban Rojo. Joe Edger, Piripero. Antonio Prieto, Don Benito Rojo. José Calvo, Silvanito. Margherita Lozano, Consuelo Baxter. Daniel Martín, Josè. Benny Reeves, Rubio. Richard Stuyvesant, Chico. Carol Brown, Antonio Baxter. Aldo Sambreli, Manolo. Lorenzo Robledo, Uomo dei Baxter. Antonio Molino Rojo, Uomo dei Baxter.

Un pistolero solitario, Joe, arriva a San Miguel, una cittadina al confine tra gli Stati Uniti d'America e il Messico e prende alloggio alla locanda del paese, dove diventa amico del proprietario Silvanito. Lì viene a sapere della lotta tra le due famiglie dominanti della città: i fratelli Rojo, ovvero Don Benito (il fratello maggiore, capo della famiglia), Esteban (elemento poco intelligente e vigliacco, anello debole dei tre) e Ramón (sanguinario criminale, abilissimo nell'uso del fucile) e la famiglia di John Baxter, sceriffo della città. I Rojo sono commercianti di alcolici mentre i Baxter vendono armi; le forze delle due famiglie si equivalgono.

Joe decide di vendersi a entrambe "per un pugno di dollari", facendo una sorta di doppio gioco e riuscendo così a far scontrare le famiglie più volte tra loro. Salva anche Marisol, prigioniera e amante forzata di Ramón, permettendole di lasciare San Miguel con il marito Josè e il figlioletto Jesús e dando loro gran parte dei soldi ricavati dalle due famiglie. Catturato dai Rojo, Joe viene torturato e tenuto prigioniero, ma riesce con astuzia a sfuggire ai suoi carcerieri e, con l'aiuto del falegname-becchino Piripero, a nascondersi in un rifugio sicuro per curarsi dalle ferite subite. I Rojo, credendo che Joe abbia trovato asilo presso i Baxter, incendiano il quartier generale della famiglia nemica uccidendo tutti i componenti.

Ripresosi dalle ferite, Joe ritorna in città per lo scontro finale. Mentre Ramón, i suoi fratelli e i loro uomini stanno torturando Silvanito perché riveli dove si trova "l'americano", lo scoppio di un candelotto di dinamite riempie di fumo la via principale di San Miguel e quando il fumo si dirada la figura di Joe appare in lontananza. Mentre si avvicina, Ramón gli spara l'intero caricatore del suo Winchester mirando al cuore, ma l'uomo continua incredibilmente a rialzarsi dopo ogni colpo, e arrivato a tiro di pistola, quando il Winchester scatta a vuoto avendo finito le munizioni, alza il poncho e lascia cadere una pesante lastra metallica che porta i sette segni dei colpi di fucile all'altezza del cuore.

Dopo un silenzio carico di tensione gli uomini di Ramón cercano di estrarre le pistole, ma Joe li uccide facendo anche volare il fucile dalle mani di Ramón. Affronta poi il rivale ricordandogli la frase detta da lui tempo prima: "Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto" e invitandolo a dimostrarla, utilizzando l'ultimo colpo di pistola per tagliare la corda a cui era stato appeso Silvanito. I due uomini hanno le proprie armi ai loro piedi e in mano una sola cartuccia per caricare e sparare. Joe si dimostra più veloce uccidendo Ramón e, dopo che Estaban Rojo, appostatosi di nascosto per sparare a tradimento, viene colpito a morte da Silvanito, lascia il paese prima dell'arrivo delle forze governative.

PER UN PUGNO DI DOLLARI (Italia, Spagna, Germania Ovest, 1964), regia di Bob Robertson (Sergio Leone)

Per un pugno di dollari è un film del 1964, il primo, insieme a Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966), della cosiddetta trilogia del dollaro, diretta da Sergio Leone e interpretata da Clint Eastwood.
Caposaldo del genere spaghetti western, viene erroneamente considerato il primo film del genere: in Europa, prima del 1964 erano già usciti diversi western di questo tipo, senza però riscontrare lo stesso successo. Remake di La sfida del samurai (Yojimbo) di Akira Kurosawa, Per un pugno di dollari reinventò il genere western, ormai in declino, ridefinendone gli archetipi. La colonna sonora, che ebbe un grande successo anche sul mercato discografico, è celebre per il brano fischiato, eseguito dal maestro Alessandro Alessandroni.

Poiché era il primo film di questo genere a essere mostrato negli Stati Uniti d'America, molti membri della troupe e del cast assunsero nomi statunitensi: Sergio Leone usò il nome Bob Robertson (in memoria di suo padre Vincenzo, noto con il nome d'arte di Roberto Roberti), Ennio Morricone firmò la colonna sonora con lo pseudonimo Dan Savio (ma in alcuni titoli è rinominato Leo Nichols), mentre Gian Maria Volonté appare con il nome John Wells.”

(In it.wikipedia.org)

“Ma chi è Sergio Leone? Quando era ragazzino di quindici o sedici anni, è stato il mio 'ciacchista'. Ciacchista è il primo necessario passo, che si deve compiere, per diventare secondo assistente, poi primo assistente, poi sceneggiatore, e poi regista. Anch'io, quando entrai alla Cines, nel lontano 1931, cominciai a battere il ciac: fui ciacchista. In seguito, Leone lavorò con me altre volte. Ebbi modo di conoscerlo, e di apprezzare le sue qualità: qualità che, naturalmente, non possono fare a meno di certi difetti. Leone, prima cosa, è un tipo deciso. Chi è deciso non ha, molte volte, il tempo di approfondire. Leone è un grande faticatore, e con una enorme ambizione di fare successo. Intelligente, ma che sfrutta la propria intelligenza fino in fondo, e non la butta mai via. Astuto, e anche sottile: ma non delicato. Simpatico, simpaticissimo: ma... ma non continuiamo coi ma: non mettiamo limiti alla natura umana, tutto è possibile, Sergio deve essere ancora molto giovane: e chissà, ora che ha fatto un film di colossale incasso con un falso nome, chissà che non riesca, col suo vero nome, a fare anche un bel film.
[...] Ma devo pur cercare di spiegare il successo di questo benedetto film! Devo pur cercare di capire perché è piaciuto tanto ai miei figli!
Le prime impressioni sono state di qualche cosa di diverso. Più duro, mi dico, più netto dello stesso Ford. Con particolari fortemente realistici, pesanti, massicci: il calcio al bambino e il padre del bambino calpestato ripetutamente... La fotografia, però, mi accorgo che è insolitamente brutta, per un film americano: e, più che brutta, sciatta, sfocata, con i colori tutti virati in una generale tintura rossastra. Tuttavia, in principio, ho l'impressione che anche questa sciatteria fotografica sia voluta, sia cercata: per fare vero, crudo, anzi crudele: per non abbellire la realtà, ma per darla in tutta la sua atrocità: terre desolate, tra il Messico e il Texas, rocce e deserti, prepotenze e soprusi di due famiglie di banditi che terrorizzano i poveri peones, trattandoli peggio che schiavi.
A un tratto, mi accorgo di un errore. C'è una sequenza, che comincia con un gran vento, con la polvere del deserto sollevata in mulinelli in mezzo agli attori che recitano. Bene, mi dico ancora, benissimo: deve essere proprio così, in quei paesi infernali. Ed ecco, a un tratto, senza nessuna ragione, la polvere e il vento cessano, e la sequenza continua con inquadrature di cielo terso e calmo, di panni fermi, di colori lindi. Il vento era dunque involontario. E l'esecuzione del film è, in fondo, trasandata, economica. Non si sono neanche preoccupati di omologare tutta la sequenza, o col vento o senza. Da quel momento, dalla scoperta di questo errore tecnico e che, in un film veramente bello, poteva anche essere perdonato, ho cominciato a capire com'era fatto Per un pugno di dollari. È, davvero, un grande trucco messo in opera con avvedutezza e decisione, e, per quanto si proponeva, perfettamente riuscito.”

(Mario Soldati, Nascita del western italiano (1964), in Da spettatore, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1973)

“Western di prima classe girato in Italia e Spagna da un gruppo di italiani e un cast internazionale con vigore alla James Bond e un atteggiamento abbastanza ironico da catturare gli spettatori medi ma anche quelli più sofisticati. I primi dati italiani lo indicano come un candidato autorevole a essere la sorpresa dell'anno. Ed è il passaparola, più che la forza del cast o la campagna pubblicitaria, il vero punto forte. Come tale dovrebbe funzionare anche all'estero... È un film forte, con una regia capace e una splendida fotografia, recitato in modo impeccabile, e che soddisfa, anzi sorpassa, i desideri degli appassionati d'azione.”

(Hawk, Per un pugno di dollari, “Variety”, 25 novembre 1964)

PER UN PUGNO DI DOLLARI (Italia, Spagna, Germania Ovest, 1964), regia di Bob Robertson (Sergio Leone)

Per un pugno di dollari ha conquistato il pubblico comune per i suoi abbellimenti stilistici del nuovo sadismo e, meno, il pubblico più esigente per la perversa originalità dell'uomo il cui talento ha abbracciato la maggior parte se non tutti quelli delle categorie precedenti - il regista Sergio Leone.
Leone era originale, e tuttavia non lo era: scena per scena, il suo film era un furto non accreditato a La sfida del samurai di Akira Kurosawa. [...] Considerando che Kurosawa ha riconosciuto il suo debito personale al Western americano, non ci dovremmo sorprendere della facilità con cui un altro straniero ha cooptato il film giapponese fuori dal suo genere “originale”, con dei miglioramenti. Gli ammiratori che mi hanno trascinato a Per un pugno di dollari erano poco pratici del predecessore Kurosawa e del suo apocalittico umorismo nero, e quindi alla fine non sono riusciti a comprendere il mio risoluto disincanto. Comunque, nonostante una più recente visione di Per un pugno abbia confermato la mia convinzione che [il film] sia di gran lunga il peggiore di Leone, mi sono reso colpevole di alcune sottovalutazioni. Ciò che aveva maggiormente colpito le mie conoscenze era un apparente motivo cristologico sviluppato in relazione al personaggio di Eastwood: arriva in paese su un asino, patisce una pseudo-crocifissione all'inizio e una molto più reale un po' dopo, resuscita da morte (o così pare ai suoi nemici), torna a confrontarsi con i dispensatori di male in un'apocalisse dinamitarda, e finge di cadere quando il proiettile del nemico lo centrano (o meglio lo colpiscono, dato che è protetto da un'artigianale corazza antiproiettile). Alcuni di questi dettagli si collegano ad alcune situazioni analoghe ne La sfida del samurai, ma stilisticamente qui sono resi con un'enfasi particolare.”

(Richard T. Jameson, Something to do with death, “Film Comment”, vol. IX, n. 2, marzo-aprile 1973)

“A prima vista, lo stile di Sergio Leone non manca di brio. La messa in scena dei personaggi nello spazio è spesso sorprendente. Lavorando per il grande schermo, riesce a ottenere delle immagini di incredibile efficacia, alternando dei piani lunghi di una lentezza calcolata a dei brevi lampi di violenza. I regolamenti dei conti prendono un’andatura da balletto dove i protagonisti si osservano in delle sequenze interminabili prima di scaricare convulsivamente le loro armi. Tuttavia guardando meglio, ci accorgiamo che questi lunghi momenti di attesa che precedono il combattimento non sono un’occasione per mettere in luce gli elementi dello scontro ma semplicemente una ricetta per ottenere la massima tensione nervosa nello spettatore. Per incrementare il grado di tensione che precede un regolamento dei conti, un regista americano fa susseguire dei piani esplicativi che stabiliscono la distribuzione del problema, che mettono in scena il campo che vogliono utilizzare i protagonisti e che si giustificano rispetto alla logica dell’intreccio e non rispetto alle necessità dello spettacolo. [...]
Una parola infine sulla commistione dei generi. Molto spesso in questi film, Leone passa senza transizione da scene di pura finzione a delle sequenze di un realismo al limite del sopportabile. Di per sé, la commistione degli stili può essere una qualità; i western di Hawks sono senza sosta in equilibrio tra l’ironia e la serietà, ma l’unità degli scopi non è mai rotta poiché ciò che viene detto ridendo rinvia ad un’austerità fondamentale: la discrezione di Hawks impone il registro della commedia per dire le cose più gravi. Per quanto riguarda Leone, al contrario, il passaggio dal picaresco al tragico non risponde all’armonia segreta del film ma alla volontà di sollecitare costantemente l’attenzione dello spettatore. Così nei suoi film, gioca senza trattenersi sull’orrore o la farsa, il disgusto o la compassione, lo spavento o la buffonata; niente non è abbastanza buono per rilanciare l’interesse, anche se dobbiamo usare i mezzi più adescatori.”

(Jean A. Gili, “... un univers fabriqué de toutes pièces..., Cinéma 69”, n. 140, novembre 1969)

 

Una poesia al giorno

Alle donne milanesi, di Aleardo Aleardi (Canti, 1863)

V’à un paese che un giorno era una reggia,
Era un giardino ed ora è un cimitero;
Ai quattro lati tristamente ondeggia
Vessil di morte un panno giallo e nero;
Ivi un scettrato Vampiro passeggia,
Che ululando la lingua di Lutero,
Sugge ogni notte al lume de le stelle
Il cor di nove misere sorelle.

E le infelici con pupille intente
Guardano a un astro di superbo raggio;
L’astro d’Italia sorto all’occidente,
Che s’incammina al suo terzo vïaggio;
Lo guarda con stupor tutta la gente
Oramai persuasa a fargli omaggio;
Ei sale, sale via per l’aria bruna
Cupido di brillar su la Laguna.

Dell’italico suol Parghe novelle
Queste nove cittadi dei dolori
Come mandâr, perpetüe rubelle,
Prima i lor figli, or mandano i lor fiori:
E voi, Lombarde memori sorelle,
Se mai trovate tra i soavi odori
Qualche stilla rimasta per incanto,
Badate, o pie, non è rugiada, è pianto.

(Brescia, 22 gennaio 1860)

Aleardo Aleardi, nato Gaetano Maria Aleardi (Verona, 14 novembre 1812 - Verona, 17 luglio 1878), è stato un poeta romantico e politico italiano

Aleardo Aleardi, nato Gaetano Maria Aleardi (Verona, 14 novembre 1812 - Verona, 17 luglio 1878), è stato un poeta e politico italiano, appartenente alla corrente del romanticismo. Aleardo Aleardi - il cui nome di battesimo era Gaetano Maria, poi da lui mutato in Aleardo - nacque a Verona nel 1812 da Maria Canali e dal conte Giorgio Aleardi. Dopo aver studiato legge all'Università di Padova insieme con gli amici Giovanni Prati e Arnaldo Fusinato, ritornò a Verona, interessandosi di poesia e di critica d'arte.

Tra i suoi primi componimenti vi sono Il matrimonio (1842), un'esaltazione delle nozze come espressione di civiltà, e l'Arnalda di Roca, del 1844, poemetto storico che ha protagonista una giovane donna che muore difendendo il proprio onore: vi è già in esso la ricerca degli effetti scenografici e quel colore drammatico tipico di tutta la produzione successiva dell'Aleardi.
Il primo successo è raggiunto nel 1846 con le due Lettere a Maria, in versi sciolti, nel quale il poeta si rivolge a un'amica proponendole un amore platonico: è un'occasione per manifestare la sua fede nell'immortalità dell'anima ed effondere i suoi affetti sentimentali nello spirito di un romanticismo di maniera.

Assiduo frequentatore del salotto della contessa Anna Serego Gozzadini Alighieri, ne corteggiò la figlia Nina, dedicandole numerose composizioni poetiche. Ai moti risorgimentali del 1848, fu inviato a Parigi da Manin a chiedervi aiuti per la ricostituita Repubblica Veneta. Fu arrestato nel 1852 e rinchiuso per qualche mese nella fortezza di Mantova: ne seguì un periodo di depressione e, nel 1855, l'idillio L'Aleardi diede il meglio di sé rielaborando alcuni canti e pubblicando nel 1856 sia Il Monte Circello, che comprende un componimento famoso sulla vicenda di Corradino di Svevia, a lungo presente nelle antologie scolastiche, che Le antiche città marinare e commerciali, e nel 1857 le Prime storie, con immagini ispirate a vicende bibliche. La pubblicazione dei Canti patrii fu invece rinviata a causa dell'arresto, avvenuto nel giugno del 1859, e della detenzione nel castello di Josephstadt, in Boemia, in conseguenza della guerra austro-franco-piemontese.

Liberato alla fine della guerra, fu deputato del Regno di Sardegna nel 1860. Si stabilì a Brescia, pubblicando gli ultimi versi, tutti d'ispirazione politica: I sette soldati del 1861, il Canto politico del 1862 e I fuochi sull'Appennino del 1864, anno in cui si trasferisce a Firenze per tenervi all'Istituto d'Arte la cattedra di estetica. Già deputato, fu nominato senatore nel 1873: onorato e ricercato nei salotti, come poeta era ormai un sopravvissuto e morì improvvisamente a Verona nel 1878.

Raffaello e la Fornarina, dove la leziosità del componimento è tale da raggiungere il cattivo gusto. Dopo i favorevoli giudizi dei contemporanei, ebbe una celebre stroncatura - non solo di estetica letteraria - dall'Imbriani: «Non siamo, no, commossi da chi guaisce quasi femminetta, per quasi carcerazione o non lungo sbandeggiamento, consolato da stipendi malguadagnati [...] Riguardo poi all'ostentarci di continuo quei pochi mesi di prigionia... cazzica! Io non sono tanto offeso esteticamente dal modo in cui se ne parla, quanto moralmente dall'udir tanto baccano per tanta parvità di materia».

Anche il giudizio dell'amico Gaetano Trezza, che nel 1879 curò la pubblicazione del suo Epistolario è piuttosto cauto: Aleardi ha una «Musa gentile, onesta e magnanima [...] è una delle figure più simpatiche del nostro Risorgimento» e limitativa è la valutazione del Carducci, mentre il Ciampoli ne ricercò prestiti e plagi dalla tradizione latina e italiana - Catullo, Properzio, Virgilio, Dante, Foscolo, Leopardi e Manzoni - oltre che europea - Byron, Lamartine, Heine, Hugo, Uhland, Freiligrath Spesso accostato al Prati per il comune languore sentimentale, ma a quello subordinato, la fortuna dell'Aleardi declinò alla fine dell'Ottocento per ottenere qualche riconoscimento dal Croce che ne rilevò la sincerità di poeta sotto le forme di dubbio gusto e ne fece un precursore del Pascoli, e dal De Lollis, che vide in lui il poeta della transizione romantica, incerto tra classicismo e realismo.
Negativi furono i giudizi del Momigliano, per il quale «nella sua poesia c'è quasi sempre l'aleardismo, quasi mai l'Aleardi», e del Pompeati che valuta l'Aleardi «una crisalide di poeta». Il Flora trova in lui genuine qualità di poeta e il Sapegno, confermando la qualità dell'ispirazione poetica dell'Aleardi, addebita le sue cadute di gusto alla temperie culturale dell'epoca.

Per il Piromalli, sulla scorta degli studi gramsciani, la paura della rivoluzione parigina del 1848 e il fallimento della rivoluzione italiana nel 1849 «sospingono la letteratura tardoromantica verso un'arcadia di sentimentalismo e un vagheggiamento di atmosfere vaporose», nel quale la figura del poeta «diventa un personaggio eccezionale per la sua sensibilità e superiore alla realtà pratica ed economica» e la poesia una vaga idealità, secondo «un costume sonnacchioso, fiacco e autonobilitantesi». L'Aleardi ne è, con il Prati, uno dei maggiori rappresentanti: sono entrambi «poeti di consumo, di ideali anticontadini, innamorati della bellezza del cuore, incapaci di uscire dal linguaggio floreale e andare verso il concreto».”

(In: it.wikipedia.org)

 

Un fatto al giorno

14 novembre 1984: il sindaco della città di Zamboanga, Cesar Climaco, critico di spicco del governo del presidente filippino Ferdinand Marcos, viene assassinato nella sua città natale.

Cesar Cortes Climaco (28 febbraio 1916 - 14 novembre 1984)

Filippine, assassinato Cesare Climaco l'irriducibile avversario di Marcos.

Hong Kong - L'assassino viaggiava in motocicletta. Da una tasca ha tirato fuori una pistola e gli ha sparato da distanza ravvicinata: Cesare Climaco, una delle figure più prestigiose e popolari della opposizione al regime di Marcos e di sua moglie Imelda è stato ucciso così, alla luce del sole, nel centro di Zamboanga, la città di cui era stato giusto rieletto sindaco. Il movente del delitto è ancora sconosciuto e probabilmente resterà tale per ancora del tempo. Il governo potrà dire così, come nel caso di Aquino, che sono stati i comunisti, l'opposizione potrà, inutilmente, accusare il governo. Benigno Aquino fu ucciso ugualmente alla luce del sole più di un anno fa mentre scortato da un gruppo di soldati e poliziotti sbarcava all'aeroporto di Manila, ma nonostante una commissione di inchiesta abbia indicato come responsabili del delitto venticinque fra i più alti militari delle Filippine fra cui il capo di stato maggiore Fabian Ver, nessuno è stato per ora formalmente incriminato e la faccenda rimbalza fra i vari organi della burocrazia al momento fermamente controllata dal presidente Marcos.
L'assassinio di Cesare Climaco, uno dei capi più conosciuti e carismatici dell'opposizione filippina, rischia ora di riattivare marce e dimostrazioni di quel "parlamento delle strade" che era stato aggressivo e militante dopo la morte di Aquino ma che nelle ultime settimane non aveva fatto sentire la sua voce.
Climaco, 68 anni di cui 50 passati nell'amministrazione dello stato, era considerato una sorta di patrono dell'opposizione: la sua cesta di capelli bianchi (aveva promesso di non tagliarseli fino al giorno in cui la libertà non fosse tornata nelle Filippine) era una delle caratteristiche di ogni manifestazione contro il regime.
Nato nella città di Zamboanga dove è stato ucciso, Climaco aveva cominciato la sua carriera come bidello alla corte di appello, era poi diventato giudice e dopo direttore delle dogane. In questo posto considerato una delle migliori "mangiatoie" dell'amministrazione, Climaco si era fatto una reputazione di uomo onesto ed incorruttibile. Dopo che Marcos proclamò la legge marziale nel 1972 Climaco passò nelle file dell'opposizione e come candidato delle forze anti-Marcos era stato recentemente rieletto sindaco della sua città natale dove era popolarissimo per la sua disponibilità ad ascoltare le lagnanze dei deboli e per il suo poco rispetto che mostrava anche in pubblico per i potenti. Zamboanga, nell' isola di Mindanao, è una delle località più violente delle Filippine a causa della criminalità della guerriglia comunista, di quella musulmana ed a causa degli "squadroni della morte" composti da poliziotti e militari che nel loro tempo libero vanno a liquidare o, come si dice nelle Filippine, "a salvare" gli oppositori del regime; ma Climaco rifiutava di andare in giro con delle guardie del copo. "Chi mi vuol fare la pelle troverà sempre un modo" era solito dire. Un giovane su una motocicletta l'ha freddato ieri mattina mentre usciva da un edificio che era stato distrutto da un incendio e che Climaco era andato ad ispezionare.”

(TIZIANO TERZANI in ricerca.repubblica.it)

 

Una frase al giorno

“C’est un métier que j’ai appris dans ma jeunesse... quand j’étais malheureux... Je dois peut-être aux fleurs d’avoir été peintre.” (È un lavoro che ho imparato in gioventù... quando ero infelice... potrei dover avere i fiori per essere un pittore.)

(Claude-Oscar Monet, Parigi, 14 novembre 1840 - Giverny, 5 dicembre 1926, è stato un pittore francese)

Claude-Oscar Monet, Parigi, 14 novembre 1840 - Giverny, 5 dicembre 1926, è stato un pittore francese

"Monet è considerato uno dei fondatori dell'impressionismo francese e certamente il più coerente e prolifico del movimento. I suoi lavori si distinguono per la rappresentazione della sua immediata percezione dei soggetti, in particolar modo per quanto riguarda la paesaggistica e la pittura en plein air.

Dopo un soggiorno a Londra, la sua carriera ebbe una svolta con la mostra del 1874. Nel 1883 si trasferì a Giverny, in Normandia, dove restò fino alla sua morte nel 1926. Claude Monet è stato il sostenitore più convinto e instancabile del «metodo impressionista» che vide già riassunto in nuce nelle opere dell'amico Manet. Per comprendere appieno la carica rivoluzionaria della figura di Monet, tuttavia, è necessario calarla con precisione nell'ambiente storico e artistico francese della seconda metà dell'Ottocento. La Francia della seconda metà del XIX secolo era una nazione viva, moderna, ricca di magnificenze e di contraddizioni, che in seguito all'offensiva prussiana del 1870 aveva conosciuto un impetuoso sviluppo economico e sociale che, tuttavia, aveva inizialmente mancato di investire le arti figurative.

Allo scoccare della seconda metà del secolo, infatti, i pittori francesi continuavano a osservare scrupolosamente le norme tradizionali dell'autorevole art pompier, la quale tendeva inesorabilmente ad un esasperato classicismo, non solo nella contenutistica ma anche nella forma. Artisti come Alexandre Cabanel o William Bouguereau, infatti, continuavano a ripercorrere in maniera acritica i sentieri accademici, dando vita a immagini uniformi, stereotipate, ripetitive, prive di elementi di interesse: come giustamente osservò Leo Steinberg gli araldi dell'art pompier avevano «la presunzione di creare un’arte vivente con impulsi già da molto morti e mummificati». Impulsi, vale la pena ricordarlo, che descrivevano le figure e gli oggetti in maniera industriosamente meticolosa, a tal punto da riuscire a mettere a fuoco ogni minimo dettaglio: si otteneva, come risultato, un'immagine talmente levigata da sembrare quasi «laccata». Monet, tuttavia, non si riconosceva nelle forme fossilizzate dell'arte ufficiale e, in questo momento cruciale dell'arte mondiale, negò il sistema di valori che nutriva le celebrità dei Salon. La prassi accademica, secondo il giudizio di Monet, rappresentava la realtà sensibile in modo obsoleto, arido: è a partire da questa constatazione, e nel segno di una resa del mondo circostante più autentica e vigorosa, che si innesta la «missione pittorica» di Monet, particolarmente innovativa sia sul piano tecnico che su quello tematico.

Le premesse che hanno consentito la nascita e lo sviluppo dell'arte monetiana sono dunque da ricercarsi nella rivolta all'accademismo e nella volontà tutta positivista di ripristinare il senso del vero. La scienza, infatti, nella seconda metà dell'Ottocento stava vivendo una fase di grande splendore, ed era pervenuta grazie all'esame obiettivo dei fatti empirici a scoperte che influirono non poco sulla poetica impressionista adottata da Monet. Si notò, innanzitutto, che tutte le nostre percezioni visive avvengono grazie alla luce ed ai colori, i quali - dopo esser sottoposti opportunamente ad una rielaborazione cerebrale - ci fanno intuire la forma dell'oggetto osservato e le sue coordinate spaziali. Forma e spazio, nonostante la loro condizione di subordinazione alla luce e ai colori, erano tuttavia i protagonisti indiscussi dell'arte accademica, che per elaborare immagini analoghe a quelle date dalla visione diretta si serviva di espedienti come la prospettiva ed il chiaroscuro.

Questo atteggiamento non era affatto condiviso da Monet, il quale - in virtù del già ricordato primato della luce e dei colori - nei propri dipinti abolì in maniera completa e definitiva la prospettiva geometrica. Egli, infatti, amava rapportarsi alla natura - l'unica fonte della sua ispirazione - senza precostituite impalcature mentali, abbandonandosi all'istinto della visione che, quando è immediata, ignora il rilievo e il chiaroscuro degli oggetti, che sono invece il risultato dell'applicazione al disegno di scuola. Da qui la volontà del pittore di liberarsi dalla schiavitù del reticolo prospettico, che «immobilizza» gli spazi in maniera statica e idealizzata, e di cogliere la realtà fenomenica con maggiore spontaneità e freschezza..."

(Leggi l'articolo completo in: it.wikipedia.org )

 

Un brano musicale al giorno

Fanny Mendelssohn, The Piano Trio in Re minore Op. 11, Dvorak-Trio München

Allegro molto vivace-Andante espressivo-Allegretto-
Allegro moderato

Dvorak-Trio München:

  • Gitti Pirner Klavier
  • Janos Mate Violine
  • Franz Amann Cello

Musik-Hochschule München, 1989

Fanny Cäcilie Mendelssohn ritratta dal marito Wilhelm Hensel

The Piano Trio in Re minore Op. 11, di Fanny Mendelssohn, fu concepito tra il 1846 e il 1847 come regalo di compleanno per sua sorella, e pubblicato postumo nel 1850, tre anni dopo la morte della compositrice... Nel 1847, un critico anonimo nel Neue Berliner Musik Zeitung trovò nel trio “... ampie e ampie fondamenta che si costruiscono attraverso onde tempestose in un meraviglioso edificio. A questo proposito il primo movimento è un capolavoro e il trio è molto originale.”

Angela Mace Christian si riferisce al pezzo di Grove come" una delle sue opere da camera più impressionanti

(In en.wikipedia.org)

Fanny Hensel ritratta da Moritz Daniel Oppenheim, 1842

«Fanny Cäcilie Mendelssohn-Bartholdy, sposata Hensel (Amburgo, 14 novembre 1805 - Berlino, 14 maggio 1847), è stata una pianista e compositrice tedesca. Fu nonna del matematico Kurt Hensel e sorella del più noto compositore Felix Mendelssohn; entrambi erano nipoti del filosofo ebreo Moses Mendelssohn.

Fanny Mendelssohn nacque ad Amburgo, prima figlia del banchiere Abraham Mendelssohn (figlio del filosofo Moses Mendelssohn, che più tardi cambiò il nome della famiglia in Mendelssohn Bartholdy) e della moglie Lea Salomon, nipote dell'imprenditore Daniel Itzig.
Fanny ebbe la possibilità di usufruire degli stessi insegnamenti dati al fratello Felix, condividendo numerosi insegnanti, fra cui Carl Friedrich Zelter. Come Felix (che nacque nel 1809), Fanny mostrò precocemente una grande abilità nel comporre musica (la sua prima composizione, scritta nel 1819, all'età di quattordici anni, è una raccolta di 12 gavotte, la cui partitura è andata perduta). I frequenti ospiti del salotto di casa Mendelssohn, negli anni intorno al 1820, fra i quali c'erano Ignaz Moscheles e Sir George Smart, erano meravigliati dal talento dei due giovani fratelli Mendelssohn.
Tuttavia, fu limitata dai pregiudizi del tempo nei confronti delle donne, pregiudizi sostenuti, pare, anche dal padre che non tollerava la sua attività di compositrice. Egli le scrisse nel 1820: "La musica forse diventerà la sua (di Felix) professione, mentre per te può e deve essere solo un ornamento". Il fratello Felix, invece, la supportava sia come compositrice che come artista, anche se era cauto (probabilmente per ragioni familiari) sull'idea che lei pubblicasse le sue opere a proprio nome. Lui comunque la aiutò ad arrangiare un certo numero di componimenti, che lei pubblicò a suo nome, e lei in cambio aiutò lui con considerazioni critiche sulle sue partiture, che lui considerava molto costruttive.

Dopo un corteggiamento durato sette anni e nonostante l'opposizione della madre, nel 1829 Fanny sposò il pittore Wilhelm Hensel, che incoraggiò la sua produzione artistica e dal quale ebbe un figlio, chiamato Sebastian in onore di Johann Sebastian Bach. In seguito, le sue opere furono sempre suonate insieme a quelle del fratello durante i concerti che si tenevano nella casa di famiglia, a Berlino. Il suo debutto pubblico al pianoforte avvenne nel 1838, quando si esibì eseguendo il Concerto per pianoforte e orchestra n. 1, op. 25 di Felix.

Forse il suo capolavoro più maturo è l'imponente e virtuosistico Trio in re minore op. 11, per pianoforte, violino e violoncello, in quattro movimenti (1846-1847), eseguito poco prima della sua morte, a Berlino, durante i concerti domenicali delle Henselschen Sonntagmusiken (al pianoforte, l'Autrice). Fanny scrisse in ogni caso una quantità ragguardevole di composizioni: circa 300 Lieder, 150 pezzi pianistici, nonché duetti e terzetti vocali, musiche per coro, da camera, Oratorî, Cantate, Ouvertures e brani per orchestra. Le sue opere sono oggi pubblicate soltanto in minima parte. In anni recenti, tuttavia, la sua musica è diventata più nota grazie ad esecuzioni nel corso di concerti e alla pubblicazione di CD da parte di etichette quali Hyperion e CPO, oltre che a ricerche condotte sulla creatività musicale femminile, di cui Fanny è una dei pochi esponenti della prima metà del XIX secolo.
Morì il 14 maggio del 1847 a causa di complicazioni seguite ad un ictus che la colpì durante le prove di un'opera sinfonico-corale del fratello, Die erste Walpurgisnacht (op. 60).

Curiosità della famiglia Mendelssohn
La sorella minore di Fanny, Rebecca, sposò il celebre matematico Peter Gustav Lejeune Dirichlet (1805-1859), nato a Düren, in Germania, ma di origine belga. Anche il nipote di Fanny, Kurt Hensel (1861-1941), figlio di suo figlio Sebastian, divenne un noto matematico.
La zia Dorothea Mendelssohn, scrittrice e traduttrice, figlia maggiore di Moses, nel 1804 sposò Friedrich von Schlegel, dopo aver divorziato dal primo marito, il commerciante e banchiere Simon Veit. Nel salotto della loro casa di Jena si radunava l'élite culturale tedesca del tempo: oltre al cognato Wilhelm August von Schlegel, Ludwig Tieck, Novalis e il filosofo Friedrich Schelling. Il suo vero nome proprio era Brendel, che cambiò in Dorothea convertendosi al Cattolicesimo. Dal suo primo matrimonio nacque, tra gli altri figli, il pittore Philipp Veit.»

(In it.wikipedia.org)


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k