L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
OFFRET (Sacrificio, Svezia, Regno Unito, Francia, 1986) scritto e diretto da Andrej Arsen'evič Tarkovskij. Fotografia: Sven Nykvist. Montaggio: Andrej Tarkovskij, Michal Leszczylowski, Henri Colpi. Musica: Da Matthaeus-Passion "Erbarme Dich" di Johann Sebastian Bach, musica strumentale giapponese (flauto di Watazumido Doso Roshi), canti di pastori di Dalecarlie e Haerjdalen. Con: Erland Josephson as Alexander, Susan Fleetwood as Adelaide, Allan Edwall as Otto, Guðrún Gísladóttir as Maria Sven Wollter as Victor, Valérie Mairesse as Julia, Filippa Franzén as Marta, Tommy Kjellqvist as Gossen (Little Man), Per Källman, Tommy Nordahl as ambulance drivers.
La cinepresa scorre sopra l'Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci, partendo dal Bambino per arrivare alla scura chioma dell'albero. Sulla riva del mare ci sono Aleksander e suo figlio, il piccolo Ometto: stanno piantando un albero secco, riprendendo l'antica leggenda giapponese secondo la quale uno analogo, annaffiato scrupolosamente per tre anni, alla fine rifiorì. Aleksander è un ex attore di teatro che ora si è ritirato in una splendida e isolata villa, dedicandosi all'insegnamento e alla ricerca. Questo è il giorno del suo compleanno: prima Otto, il postino della zona, poi Adelaide, la moglie del protagonista, assieme a Viktor, il medico di famiglia, raggiungono i due e fanno gli auguri ad Aleksander. Costui s'attarda in compagnia del figlio: è il solo a parlare, giacché Ometto ha appena subito un'operazione alla gola. Aleksander è pessimista nei confronti del futuro dell'umanità: "L'uomo ha costantemente violentato la natura". Inavvertitamente, Aleksander colpisce Ometto al volto: perde i sensi ed ha una visione catastrofica. In casa, dopo aver ammirato il libro d'icone regalatogli dal dottore, Aleksander discorre con questi, con la figlia Marta e la moglie. Arriva Otto: il suo regalo è una splendida carta geografica della fine del Seicento. Ma il regalo più sconvolgente Aleksander lo scopre all'esterno: una perfetta miniaturizzazione della sua villa; la serva Maria gli spiega che quello è un regalo di Ometto, costruito assieme ad Otto. La casa trema, si odono degli aerei sfrecciare in cielo. La televisione trasmette il comunicato di un ministro: si rischia una guerra atomica. Adelaide ha una crisi, Aleksander sale al piano di sopra e, dopo aver recitato il Padre Nostro, promette a Dio che, se la sua famiglia verrà risparmiata, egli gli offrirà tutto ciò che ha di più caro. Addormentatosi, sogna. Il postino lo sveglia, e gli comunica che c'è una possibilità che tutto ritorni come prima: Aleksander dovrà recarsi a casa di Maria, e fare l'amore con lei. Quella è una strega dotata di poteri straordinari. Dopo l'iniziale incredulità, il protagonista accetta e, non visto dai suoi cari, raggiunge la serva. Dopo averle confessato un caro ricordo, le chiede il suo amore. Maria lo abbraccia, e i due lievitano. E' mattina. Aleksander si sveglia: è nel suo studio, al piano di sopra, e tutto pare tornato alla normalità. I suoi familiari, riuniti all'esterno per il pranzo, leggono un biglietto del protagonista, che li invita a fare una passeggiata. Una volta lontani, Aleksander adempie alla promessa e dà fuoco alla casa. Giunta un'ambulanza, egli, dopo un'iniziale resistenza, vi entra spontaneamente. L'automobile si allontana, passando accanto all'albero secco in riva al mare: Ometto, come se nulla fosse successo, lo sta innaffiando diligentemente. Sdraiatosi ai piedi dell'albero, il bambino pronuncia le sue prime parole: "'In principio era il Verbo'. Perché, papà?". La cinepresa s'innalza, ad inquadrare i rami secchi contro la scintillante superficie del mare. Compare la scritta con cui il regista dedica il film al proprio figlio, "con speranza e fiducia".
“Sacrificio dice tutto ciò che non riescono a dire i telegiornali, gli opinion maker, i talk show, restituendo al cinema una visibilità dell'immaginario e del reale sul grande schermo perlopiù impossibile anche nella contemporaneità assoluta del piccolo. L'ultimo film di Tarkovskij è una simbolica di precisione del contesto, dell'esterno, un sontuoso allestimento metaforico in cui il contemporaneo è sottratto alla dispersione, all'opacità infinitesimale del quotidiano, concentrato in formazioni percettive prive di fuga o riscatto. Eppure è forse il suo film più narrativo, più esplicito, più vulnerabile per l'immediatezza della comunicazione dei suoi significati. Era forse dai tempi del Rublev che Tarkovskij non ammetteva sulla scena psicologie ordinarie, la scansione di un vero intreccio - per quanto fantastico, sovrannaturale - senza lacune di indecidibilità metafisica e con i tratti compiuti di una fabula. Stalker e Solaris, pur ascrivibili ad una collocazione fantascientifica, per quanto problematica, terminavano in visioni enigmatiche. Nostalghia, in una allegoria figurativa assolutamente simbolica. In Sacrificio invece tutto è assai più chiaro. I ralenti in bianco e nero sono premonizioni della catastrofe, il sogno una profezia del sacrificio e la sua attuazione, il risveglio la testimonianza del suo esito. Forse non ci sono momenti di più immediato naturalismo nel cinema di Tarkovskiy, come quelli del monologo del protagonista, fragile, scomposto, disperato. E le sue reazioni di fronte al realizzarsi della sua invocazione, sono di plausibile incredulità, incertezza, disorientamento. Alexander non crede più di quanto possa credervi lo spettatore alla possibilità reale del sacrificio, fino all'ultimo.
In questo senso Tarkovskij accetta pienamente per la prima volta un contesto fantastico tradizionale e canonico: un individuo ordinario alle prese con circostanze straordinarie. Quella che, insomma, appare per urgenza discorsiva come una delle sue opere più importanti, è in realtà, nella sua testualizzazione regolata da una moderazione costante. Sin dall'inizio i piani sequenza sono appena articolati, lo svuotamento di colore è più nel paesaggio che nella fotografia, l'astrazione dei comportamenti è attenuata in una diffusa predisposizione verso lo sguardo assorto, il soliloquio, l'incomprensione minima del dialogo. Sembra di trovarsi di fronte ad un Bergman che sospende e fluidifica i conflitti, le nevrosi, i risentimenti invece di portarli a maturazione. Vige una silenziosa immobilità di presenze distribuite in spazi di ampi intervalli. I corpi dei personaggi negli interni, le strutture dell'arredamento, i fusti degli alberi negli esterni. Tutto ciò che è possibile e reale su quella scena sembra esaurito dagli scambi innocui del dialogo, dalle effusioni cortesi, dal tenue riverbero di sentimenti nascosti (Adelaide e Victor) o palesi (Alexander e il Piccolo), comunque sempre al massimo e minimo della loro frequenza. Nulla è così forte da preannunciare uno sviluppo che non possa apparire immotivato (Alexander geloso di Adelaide? Marta, la figlia, innamorata di Victor?).
In questo senso, in sottotesto, Tarkowskij lascia appena aperti, vaghissimi ma accennati, i segni di un intreccio possibile per poi scioglierlo rapidamente sotto gli occhi di Alexander e dello spettatore poco prima che il protagonista porti a termine il suo sacrificio nell'ultima inquadratura. II sarcasmo di Adelaide che diventa odio, l'indifferenza di Marta che diventa disprezzo, lo scetticismo di Victor egoismo. La rarefazione narrativa e psicologica dell'inizio si contrae violentemente in una oscillazione che rende il sacrificio di Alexander infinitamente drammatico e senza salvezza. Da una parte l'esistente, assurdo, irredimibile, odioso, dall'altra l'orrore della sua definitiva cancellazione. Il sacrificio di Alexander non sarebbe comprensibile se non si celebrasse nello spazio invivibile di questa opposizione.
Non c'è nessuna ragione di salvare quel mondo dalla catastrofe. L'atto di Alexander sarebbe patetico o quasi insopportabile (per una sorta di patriottismo planetario) se esso non lasciasse leggere in trasparenza l'emergenza di un pullulare di pulsioni più complesse. Quelle di una volontà di potenza (Nietzsche, citato all'inizio nella prima sequenza) che preferisce volere il nulla che il non volere; o, ancor di più, l'eroismo inspiegabile di una credenza senza fede, una ritualità senza mitologia, sapere senza potere. Per comprendere il valore del sacrificio bisogna collocare il soggetto, come fa Tarkowskij, nel suo costante crepuscolo, luce ridotta, riverberi sul parquet, perfetta lucidità senza senso. L'irruzione di un punto di vista di radicale alterità in questo contesto, l'oscillazione di invadenti epifanie, ha costantemente dominato il suo cinema come se il regime della visione in una costante sopravvalutazione percettiva (stasi contro mutamento, immobilità contro variazione prospettica, narrazione contro figurazione) potesse restituire al discorso l'enunciazione pura del tragico, la responsabilità soggettiva di una ambiguità profonda della realtà degli oggetti, l'unheimlich di uno sguardo non collegato ad un soggetto o ad un enunciatore e di una durata senza fine dilatata da quasi impercettibili tocchi di ralenti. La scena di una straordinaria rifrazione degli eventi. Un campo percorso dal vento, il secchio nel pozzo, acqua che cade dal soffitto, carboni che rotolano: segni minimi che si amplificano nell'inquadratura aspirando alla totalità del simbolico, ovvero la possibilità stessa degli oggetti a scoprirsi qualcos'altro da sé.
Non è la suggestione dell'onirico, e nemmeno la configurazione allegorica (che pure acquistano) a costituire l'investimento delle inquadrature di Tarkovskij, ma qualcos'altro, la rivelazione di una diversa dimensionalità dell'apparenza, il sospetto di una sofferenza inappagabile, quieta e ipnotica, come quella dello sguardo delle reminescenze infantili del protagonista di Nostalghia, lo stesso che il medesimo protagonista assume nell'inquadratura finale. Alienazione metafisica, funebre, anche se i frequenti sguardi in macchina di Sacrificio paiono invece dirette interpellazioni allo spettatore, uno sporgersi del narratore oltre lo schermo come mai era ancora avvenuto nel cinema di Tarkovskij.
In Sacrificio questo cinema reclama un'immediatezza di comunicazione come non aveva mai osato chiedere, mettendo interamente a servizio anche la sua inimitabile messa in scena. Fuori dal microcosmo della villa: dove folle e rivoli, masserizie, rovinano per le strade in lente e graduali panoramiche perpendicolari al terreno che chiudono sul riflesso della stessa scena su di una superficie. Dentro quel microcosmo: dove abita a sua volta un microcosmo del microcosmo, il modellino della villa su cui Alexander, all'inizio del sogno, ruota lo sguardo con lo stesso movimento compiuto dalla macchina nella sequenza di prima. Sopra le immagini la divinità è un canto infantile di una spensieratezza assurda, qualcosa di sinistro e inspiegabilmente gioioso, stridulo e spigoloso come la melodia giapponese con la quale si alterna. Più del boato degli aerei in volo, del rombo sotterraneo che spazza il ghiaccio sui carboni ardenti e sbatte le porte contro le facciate, del bricco di latte che rovina sul pavimento, l'apocalissi, la sua perfidia, è nella puerilità insensata di quel canto che si alza nel silenzio sin dalla prima premonizione. Vedere per Tarkowskij è sempre stato qualcosa di tremendo e cruciale, stavolta, come non mai, esso è il vedere e il sentire di un personaggio e di un epoca.
Ma se Sacrificio è il film più trasparente di Tarkovskij, è anche quello che contiene i suoi momenti più passionali. Dalla invocazione del sacrificio, alla scena d'amore con la domestica strega, impossibile grazia materna, alla sequenza finale in cui coinvolge direttamente il sapere dello spettatore con cui condivide esclusivamente il segreto della sua follia. Ultima figurazione della tragicità assoluta del sentire e vedere il mondo perdendo la protezione dei ruoli sociali, le garanzie della propria conoscenza, le difese dell'identità psicologica. Risultato di un rigore linguistico e morale in cui narcisismo e martirio, sofferenza e pietà, infelicità e salvezza, angoscia e bellezza si donano per l'ultima volta, disperatamente e senza riserve nel cinema. Al suo, Tarkowskij, non poteva rinunciare il quest'ultimo film. L'immancabile Bach (la Passione secondo Matteo), l'immancabile Leonardo (presente praticamente in tutti i film). Il bosco (più vicino a quello della casa dell'infanzia di Lo specchio che a quello di betulle di L'infanzia di Ivan), il fuoco (l'incendio finale, ma anche le vampe dei carboni sotto il ghiaccio, il cui ritorno di fiamma ha affascinato più di un inquadratura degli altri suoi film), l'alternanza di bianco e nero e colore. E naturalmente l'acqua. Più che nelle pozze e negli acquitrini, è concentrata in quell'oceano in lontananza che circonda l'isola, Gotland, terra di Dio così vicina alla Russia”.
(Mario Sesti, Cineforum n. 265)
“Nonostante il male che lo avrebbe ucciso e strappato al suo paese, Tarkovskij ha fatto del suo ultimo film un'opera sconvolgente. Si Può parlare di serenità della regia, di dolcezza nei movimenti della macchina da presa che gira intorno a una casa isolata in un'isola svedese, mentre si tratta invece dell'angoscia dell'apocalisse nucleare, degli sconvolgimenti del mondo, in una dolorosa meditazione. Ed il film potrebbe chiudersi con la follia del vecchio che guarda, senza una parola, bruciare la propria casa, oggetto di tutte le sue cure, che lui stesso ha scelto di incendiare.”
(Georges Sadoul)
“Opera di un poeta, malato e lontano, lettera indirizzata al figlio «con speranza e fiducia» nelle generazioni che verranno, parabola sulla necessità del sacrificio e sul dovere di non mutilarsi nello spirito, invito a reagire personalmente (religiosamente) alla rassegnazione, il nuovo film di Tarkovskij, Sacrificio, già campeggia nobile fiero e magari irritante (la poesia non è mai carezzevole). Si sa cos'è stato il peso dell'esilio volontario per Tarkovskij: l'impossibilità di espatriare idealmente nella bellezza (Nostalghia), la battaglia per avere dall'Urss i familiari, certe delusioni laiche, l'avvicinamento al gruppo integralista cattolico di Comunione e Liberazione, il lavoro in Svezia, con capitali svedesi e francesi, per dare voce al Sacrificio”.
(Stefano Reggiani)
- Il film: The Sacrifice - Offret, 1986, di Andrey Tarkovski, 720p Bluray
- Tarkovskij Andrej, Sacrificio, 1986, ITA: www.youtube.com
15 giugno 1923 nasce Erland Josephson, attore e regista svedese (morto nel 2012)
Una poesia al giorno
Portrait, di Hector de Saint-Denys Garneau (Montréal, Canada, 13 giugno 1912 - Sainte-Catherine-de-la-Jacques-Cartier, Canada, 24 ottobre 1943)
C’est un drôle d’enfant
C’est un oiseau
Il n’est plus là
Il s’agit de le trouver
De le chercher
Quand il est là
Il s’agit de ne pas lui faire peur
C’est un oiseau
C’est un colimaçon.
Il ne regarde que pour vous embrasser
Autrement il ne sait pas quoi faire avec ses yeux
Où les poser
Il les tracasse comme un paysan sa casquette
Il lui faut aller vers vous
Et quand il s’arrête
Et s’il arrive
Il n’est plus là
Alors il faut le voir venir
Et l’aimer durant son voyage.
Ritratto
È uno strano bambino
È un uccello
Non c’è più
Devi trovarlo
Cercarlo
Quando c’è
Non devi fargli paura
È una chiocciola
Un uccello
Non aspetta che abbracciarvi
Non fa altro coi suoi occhi
Dove posarli
Li tormenta come un contadino il cappello
Deve venirvi incontro
E quando si ferma
E se arriva
Non c’è più
Allora devi vederlo venire
E amarlo durante il suo viaggio.
“A meno di un accecamento, d’un oscuramento dello spirito al quale forse potrebbe condurre il rifiuto della grazia, credo che questa certezza dimorerà intera nel mio spirito. [...] Mi porta gioia, questa certezza, una gioia imprevidente, fiduciosa, del tutto calma, e che mi impegna sempre di più a spogliarmi di tutte le mie piccole menzogne che le sono d’ostacolo”.
Così scriveva sul suo diario il 5 febbraio del 1935 il ventiduenne Hector de Saint-Denys Garneau al termine di una profonda crisi interiore: pochi mesi dopo, nell’agosto dello stesso anno, avrà la luce la sua prima e unica raccolta poetica pubblicata in vita, Regards et jeux dans l’espace, pubblicata nel 1937. La letteratura poteva sembrare lo sbocco naturale per chi, come lui, vantava tra i propri avi lo storico François-Xavier Garneau e un poeta, il nonno Alfred Garneau. Iniziata a Montréal il 13 giugno 1912 e conclusa il 24 ottobre 1943, la breve vita di questo artista canadese è segnata dalla battaglia tra lo slancio intellettuale e il peso della malattia, priva in apparenza di eventi di rilievo. Basti guardare la spoglia bibliografia, composta perlopiù da opere postume: poesie, racconti, lettere e un diario che ben testimonia la profondità di un’esistenza risolta in attenzione.
L’esperienza della pubblicazione si rivelò disastrosa per Garneau, che non progettò altre edizioni; le sue poesie inedite furono raccolte postume nella raccolta Les Solitudes, pubblicata con i Regards nel volume Poésies complètes nel 1949, anno d’inizio della fortuna critica dell’autore. I frutti della sua attività poetica (accompagnata da un profondo interesse per le arti figurative e per la filosofia) sono concentrati in soli tre anni (1935-1938) e hanno ancora, nella storia della letteratura canadese, un’eco vivissima. Innanzitutto, per un’inedita libertà formale unita a un raro equilibrio espressivo, unione che rende i Regards un’opera lontana sia dalla sponda accademica che da quella avanguardistica: l’assenza di rime e di schemi metrici regolari, la sintassi spezzata e l’uso libero della punteggiatura sono alcuni dei tratti formali più evidenti. Il libro colpisce inoltre per un equilibrio raro tra purezza e ironia, una semplicità mai ingenua e il desiderio di infinito, tradotto nel gusto per il paradiso di chi ha ben conosciuto la caduta. Nella crisi del ’35, oltre che con la poesia, Garneau si ritroverà a fare i conti con la morte e la propria salute precaria, a causa delle implicazioni a livello cardiaco di una malattia reumatica, insorta all’età di sedici anni.
Sole e ombra, uccello e prigione, bambini e morte: sono solo alcune coppie inscindibili di temi/personaggi che popolano le pagine di questa raccolta, dove l’ambivalenza, più che apparire come indecisione o dubbio, rispecchia la presa di coscienza sulla condizione umana. Nel mondo di Hector de Saint-Denys Garneau anche i simboli sono provvisori, influenzati dagli sguardi sul mondo del poeta-bambino. Ad esempio, gli uccelli, incarnazioni dei sogni innocenti che allontanano dalla gravità terrestre ma anche segno della fragilità e della morte stessa. In mezzo a questi due mondi paralleli (dove è la vita, e non l’uomo, a essere duplice) emerge forte il tema dell’accompagnare: il poeta cammina a fianco della gioia in un percorso che, attraverso la solitudine, lo porta all’ascolto dell’altro e dell’universo.”
(Stefano Serri)
Un fatto al giorno
15 giugno 2001: I leader della Repubblica popolare cinese, della Russia, del Kazakistan, del Kirghizistan, del Tagikistan e dell'Uzbekistan hanno formato l'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai.
“Il Gruppo di Shanghai (o Gruppo dei Cinque) fu fondato nel 1996 a Shanghai e suggellato con la firma del Trattato per il rafforzamento dell'appoggio militare nelle regioni di confine da parte dei capi di Stato di Kazakistan, Cina, Kirghizistan, Tagikistan e Russia. Nel 1997, a Mosca, gli stessi paesi firmarono il Trattato per la riduzione delle forze militari nelle regioni di confine.
I successivi incontri si sono tenuti nel 1998 ad Almaty (Kazakistan), nel 1999 a Bishkek (Kirghizistan) e nel 2000 a Dushanbe nel (Tagikistan).
Nel 2001 la Cina, e precisamente Shanghai, tornò ad ospitare l'incontro annuale. Fu durante questo incontro che i cinque stati membri optarono per l'inclusione dell'Uzbekistan, dando vita così al Gruppo dei Sei. Quindi, il 15 giugno 2001, i sei capi di Stato firmarono la Dichiarazione della Shanghai Cooperation Organization, con la quale, oltre ad esprimere un sentito encomio nei confronti dell'operato del Gruppo di Shanghai, veniva espressa la volontà di poter trasformare i meccanismi e gli accordi che legavano i sei stati membri in una forma di cooperazione ben più ampia ed articolata. Nel luglio del 2001 Russia e Cina, le due maggiori rappresentanti dell'Organizzazione, firmarono il Trattato per i buoni rapporti tra stati confinanti e per una cooperazione amichevole.
Nel giugno del 2002, i capi dei paesi aderenti all'Organizzazione si incontrarono in Russia, a San Pietroburgo. Qui firmarono lo statuto, nel quale venivano enunciati gli scopi, i principi, le strutture e le linee d'azione dell'organizzazione, consolidandone ufficialmente la struttura anche sotto l'aspetto del diritto internazionale.
Il 2 dicembre 2004 le è stato riconosciuto lo status di osservatore dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite”.
(Wikipedia)
Una frase al giorno
“Godiamoci il papato, poiché Dio ce l'ha dato”
(Papa Leone X, in latino: Leo X, nato Giovanni di Lorenzo de' Medici, Firenze, 11 dicembre 1475 - Roma, 1º dicembre 1521)
Leone X è stato il 217° papa della Chiesa. “Exsurge Domine è una bolla papale emessa da papa Leone X il 15 giugno 1520 in risposta sia alle 95 tesi sulle indulgenze del 1517 che agli scritti successivi del teologo tedesco Martin Lutero. Il Papa esige che Martin Lutero ritratti 41 errori specificati desunti dalle sue 95 tesi o negli scritti successivi, entro un periodo di sessanta giorni dalla pubblicazione.
Sebbene la bolla non criticasse direttamente tutti i punti toccati da Lutero, essa vietava in tutti i paesi cattolici la stampa, la vendita e la lettura di qualsiasi libro contenente gli errori e le eresie contenuti negli scritti luterani e si richiedeva alle autorità secolari (tutti i principi tedeschi) di far rispettare la bolla nei loro domini. Il frate teologo attese sei mesi, ma alla scadenza del 10 dicembre 1520 bruciò pubblicamente la sua copia della bolla assieme a volumi di diritto canonico. Questo fu l'inizio della rivolta antiromana che avrebbe portato alla scomunica con la bolla Decet Romanum Pontificem”.
(Wikipedia)
- La bolla si legge in: www.pul.it
Un brano musicale al giorno
Franz Danzi, Concerto per Violoncello in Mi-minore
“Franz Ignaz Danzi (15 giugno 1763 - 13 aprile 1826) fu un violoncellista, compositore e direttore d'orchestra tedesco, figlio del noto violoncellista italiano Innocenz Danzi. Nato a Schwetzingen, Franz Danzi ha lavorato a Mannheim, Monaco, Stoccarda e Karlsruhe, dove è morto.
Danzi viveva in un momento significativo nella storia della musica da concerto europea. La sua carriera, che attraversa il passaggio dal tardo Classico ai primi stili romantici, ha coinciso con l'origine di gran parte della musica che vive nelle nostre sale da concerto ed è familiare al pubblico contemporaneo di musica classica. Da giovane conosceva Wolfgang Amadeus Mozart, che riveriva; era un contemporaneo di Ludwig van Beethoven, per il quale, come molti della sua generazione, aveva sentimenti forti ma contrastanti; ed è stato un mentore per la giovane Carl Maria von Weber, la cui musica ha rispettato e promosso ".
Concerto per Violoncello in Mi-minore
Mov.I: Allegro 00:00
Mov.II: Larghetto 15:14
Mov.III: Allegretto 20:08
Violoncellista: Thomas Blees
Orchestra: Berlin Symphony Orchestra
Direttore: Carl-August Bünte
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org
UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.
È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.
Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.
“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”
(Wikipedia)
“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”
(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)
“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.
(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)
“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”
(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)
“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)
“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.
(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)
Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/
Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0
https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs
https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4
https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk
Una poesia al giorno
Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l'anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
Nous serons
N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents
N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.
Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.
Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible
Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.
Unis par le plus fort et le plus cher lien,
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.
Sans nous préoccuper de ce que nous destine
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?
Un fatto al giorno
17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.
(da Focus)
Una frase al giorno
“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”
(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)
Un brano al giorno
Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k