“L’amico del popolo”, 15 maggio 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

KAZDY DEN ODVAHU (Il coraggio quotidiano, Cecoslovacchia, 1964), regia di Evald Schorm. Sceneggiatura: Antonín Mása. Fotografia: Jan Curík. Montaggio: Josef Dobrichovsky'. Musiche: Jan Klusak. Con: Jan Kacer, Josef Abrhám, Vlastimil Brodský, Emma Cerná, Jan Cmíral, Jirina Jirásková, Jan Libícek.

“Il protagonista della nostra storia, è un militante comunista sui trent’anni, funzionario dell’Unione della Gioventù, operaio modello, e uomo seriamente impegnato nella vita pubblica. La cornice è quella di una cittadina industriale cecoslovacca in cui, nonostante la pressione delle istituzioni, vi è ormai ampiamente diffuso, anche se in forma sotterranea, il senso di disagio di una generazione (quella cresciuta immediatamente dopo la fine dello stalinismo), sostanzialmente impreparata a confrontarsi con le contraddizioni del nuovo corso politico sempre più degradato e pieno di lotte intestine e di evidenti abusi di potere. Cominciano così a serpeggiare irrequietezze e dubbi che non trovano più adeguate risposte nella monolitica società costruita dai loro padri (il conflitto fra generazioni e ideologie, è dunque un altro di temi centrali della pellicola) E’ soprattutto Jarda a non riuscire a stare ancora al passo col presente nel suo non essere capace di svendere le proprie idee in cambio del successo come vede fare agli altri, e questo lo mette profondamente in crisi perché lede dal profondo la sua fede (sempre meno intonsa). Cerca di trovare confronto a queste sue prime delusioni politiche, fra le braccia di Vera, la sua ragazza (anch’essa vittima di una nevrosi dilagante che coinvolgerà l’intera sua generazione) che cerca inutilmente di ridargli fiducia col suo amore. Ben presto infatti il giovane si rende conto che nemmeno lei capisce fino in fondo i dilemmi etici e morali che lo dilaniano e che dunque può solo contare sulla propria forza e determinazione per cercare di risolverli e dare così nuovamente un senso alla sua esistenza. La crisi politica di Jarda raggiungerà il suo punto culminante in occasione di uno spettacolo in un teatrino di provincia dove il giovane è chiamato a fare un discorso sulla responsabilità pubblica delle nuove generazioni al termine del quale viene reso particolarmente esplicito l’abissale distanza ormai esistente fra ciò che dice quasi per forza di inerzia, e il suo attuale comportamento sfiduciato, il che genererà una reazione che lo porterà a picchiare a sangue un giocoliere-illusionista (Borek, un giovane “borderline” che vive di espedienti e sogna impossibili evasioni verso paesi lontani), che l’aveva coinvolto in un innocuo gioco di prestigio. Non sarà però questo l’unico atto violento della sua crescente disperazione poiché provocherà anche una rissa furibonda in una taverna all’interno della quale accuserà i pacifici clienti intenti a bere, di aver tradito la rivoluzione. Dopo un’occasionale avventura con la moglie dei giornalista vendutosi al sistema per convenienza politica, troverà il “coraggio” necessario per dare una soluzione alle sue crisi davvero irreversibile (non so quanto condivisibile poiché potrebbe apparire - e forse lo è anche - come un imperdonabile atto di rinuncia e di sconfitta) che, se vogliamo proprio fare una questione di lana caprina, rimane il punto più discusso, e discutibile, dell’intera pellicola o almeno quello sul quale è necessario fare una seria riflessione”.

(Film TV)

“Le disillusioni di un operaio (Jan Kacer), comunista convinto, che vede intorno a sé i coetanei "arrivati" e burocratizzati, non sa più bene per che ideali sta lottando, non capisce più i giovani, e questa crisi investe anche i suoi rapporti sentimentali con la ragazza (Jana Brejchová). Un film disperato e complesso, in cui Schorm non ha saputo rinunciare a parti naturalistiche e simbolistiche, ma la cui sincerità, la cui disperazione, la verità più profonda dei problemi che affronta - direttamente o no - ne fanno una delle migliori opere del cinema cèco, e una delle più indicative dello stato di confusione e crisi che attraversa la classe operaia dei paesi socialisti dopo la destalinizzazione. Il film portava in apertura una citazione dì Kafka, eliminata dalla censura, la cui allusione allo stalinismo (il nero uccello che se ne è andato, lasciando però dissanguato l'uomo su cui si era accanito) dava la chiave più seria di comprensione del film. Nel cinema "quel che importa è l'atteggiamento etico degli autori e la loro volontà di penetrare fino alla verità della vita (...). Nel mio film, è nel momento in cui l'eroe perde tutto che egli ha la possibilità di tutto conquistare. Ed è in questa forza che risiede la speranza, e attraverso questa si intravede uno spiraglio di ottimismo".

(Georges Sadoul, da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968)

“Un dramma davvero di grande qualità: la materia è molto forte (lo spinoso tema del tradimento degli ideali trotskisti della Rivoluzione) così come l’atmosfera, particolarmente idonea a rendere palese il senso di spaesamento che il soggetto richiede, merito di una regia che ha saputo dare il giusto ritmo a tutte le azioni coordinate della storia. Le qualità registiche del cecoslovacco Evald Schorm (Praga, 15 dicembre 1931 - Praga, 14 dicembre 1988) ci furono rivelate grazie al Festival di Locarno del 1966 dove fu proiettato con successo (vinse il premio assegnato dalla giuria dei giovani) questo suo Kazdy den odvahu (da noi Il coraggio quotidiano) considerato poi dai critici del tempo come una delle più interessanti sorprese di quella stagione. Chi avrà modo di approcciarsi a questa pellicola, troverà sicuramente conferma dell’indubbio talento, ancora in formazione, del regista all’epoca poco più che trentenne, e soprattutto della sua serietà di approccio alla particolare materia che viene sviluppata nel film (dolorosa e sofferta parabola esistenziale sulla caduta delle utopie e del conseguente brusco risveglio dal sogno vissuta in prima persona da un uomo che all’improvviso è costretto suo malgrado, a fare i conti con la triste realtà che lo circonda). Le premesse erano state infatti talmente in positivo, da farci sperare in una possibile apertura di credito incondizionata nei suoi confronti per successivi impegni altrettanto importanti. Si poteva insomma immaginare per lui un più che luminoso futuro in divenire (inteso come una carriera in crescendo anche sul piano internazionale che purtroppo invece non c’è stata poiché il sistema gli ha subito e inopinatamente voltato le spalle e tarpato le ali). Qui in Italia in particolare, siamo stati addirittura privati del piacere di poter verificare dal vivo quello che - in veste di regista - ha realizzato dopo (sappiamo che Schorm è stato pure un valente sceneggiatore e un discreto attore, ma anche di questo ci rimangono soltanto poche e sporadiche testimonianze), poiché dopo questo interessantissimo exploit (una specie di “romanzo giallo dell’esistenza” come fu definito all’epoca), il suo nome è rimasto quello di un perfetto sconosciuto (una specie di “Carneade, chi era costui?” di manzoniana memoria) a causa della miopia congenita della nostra distribuzione cinematografica che non ci ha offerto altre occasioni di confronto (e all’epoca purtroppo non c’era nemmeno la rete a supportarci per poter colmare certe inammissibili inadempienze). Ci sono giunte pochissime notizie anche dalla sua patria però poiché di fatto sappiamo soltanto che nemmeno lì è stato molto prolifico, sicuramente a causa dell’ostracismo messo in atto da un regime teso a impedire ogni libera espressione culturale che non fosse inquadrata negli schemi autoritari e ossequienti imposti dal Partito (e a questi totalmente asservita), non solo nei suoi confronti (questo suo film contiene una critica feroce al culto della personalità e alla prepotenza coercitiva esercitata dalle autorità statali in una società di stampo comunista come quella che teneva sotto il pugno di ferro la Cecoslovacchia di quegli anni) ma in quelli di tutta la corrente “Nová Vina” alla quale aveva aderito, così invisa al potere esecutivo, da essere prima mal tollerata, poi censurata in ogni modo possibile e alla fine totalmente emarginata. I dati che ci sono pervenuti, circoscrivono infatti in un numero abbastanza limitato - addirittura inferiore a dieci - le opere che ha potuto realizzare nella sua abbastanza breve vita, ma delle quali abbiamo solo la conoscenza certa dell’episodio da lui diretto nell’opera collettiva Perlicky na dne [Perline sul fondo] ispirata ai racconti di Bohumil Hrabal girata nel 1966 insieme a Jiri Menzel, Vera Chytilova, Jan Nemec e Jaromil Jires).

(@sasso67 - www.filmtv.it)

Le rivoluzioni passano, ma la condizione umana rimane sempre la stessa.
Dovendomi basare giocoforza su questa unica pellicola, non posso dunque che sottolineare la potenza espressiva del regista e il suo sostanziale pessimismo, quasi che avesse inteso lanciare un messaggio aspro ed accorato nel mettere in scena (con toni in cui ci si potrebbe ritrovare persino qualche sotterraneo riferimento alla poetica kafkiana) la parabola esistenziale di questo giovane funzionario comunista che all’inizio della storia crede di aver trovato il senso della propria vita (e ne è addirittura fiero) nel personale impegno al servizio totalizzante del regime, ma che dovrà però ricredersi amaramente fino a disconoscere questa sua fedeltà ideologica al partito, quando si troverà a scontrarsi con una realtà ben diversa da quella immaginata che lo porterà a scoprire il marcio che c’è dietro ai processi tutti politici delle epurazioni dei primi anni ’50 e sarà di conseguenza costretto a fare i conti con una profonda crisi morale che lo segnerà profondamente e dalla quale gli sarà impossibile uscirne fuori indenne. Perché Jarda (questo è il suo nome) è tutt’altro che un soldatino di piombo che accetta tutto a prescindere, ma è al contrario un giovane piuttosto problematico (così ci viene presentato fino dall’inizio) che pur con una fede intonsa in quell’ideale utopico di uguaglianza (mai però del tutto allineata al pensiero comune), si pone sempre domande su ogni cosa, pretende risposte chiare e convincenti e ama andare in fondo alle questioni. Un uomo insomma che ha connaturato nel suo carattere più intimo una profonda contraddittorietà che lo porta a discutere persino con se stesso su ciò che gli sembra essere giusto o meno senza fermarsi alle sole apparenze o a quello che sembra essere l’orientamento della maggioranza. Il suo è quindi un percorso (anche umanamente parlando) molto travagliato che genera conflitti sempre più articolati e che finiranno inevitabilmente per modificare radicalmente il suo posizionamento di pensiero fino alla tragica risoluzione conclusiva. Kafka certamente dunque, ma solo per il senso di smarrimento e di angoscia di fronte all'esistenza che prova il protagonista della storia, poiché le problematiche che troviamo disseminate in questo film (non dissimili da quelle che si riscontrano in molte altre opere cinematografiche realizzate in Cecoslovacchia in quel periodo) sono talmente piene di idee, di motivi, di fermenti, di interessanti contenuti e di interrogativi, da non permetterci in alcun modo di liquidare frettolosamente il tutto rimandando semplicemente lo spettatore alla letteratura mitteleuropea del primo novecento con lo scrittore praghese in testa, che può evidentemente essere utilizzata, ma solo per comprendere meglio la crisi psicologica che pervade il nostro giovane “eroe” (si fa per dire) e lo costringe a fare un'attenta analisi introspettiva su se stesso e il suo percorso formativo che lo porterà a decreare più che il suo personale fallimento, quello dell’intero schema sociale comunista. Dentro a Il coraggio quotidiano c’è evidentemente anche tutto questo, ma dal contesto emerge soprattutto la complessa realtà del preciso momento storico di riferimento (gli anni ’60 e la dominazione sovietica degli stati satellite diventata ancora più pressantemente soffocante nei dieci anni trascorsi dai tragici fatti di Ungheria). Sintetizzando quindi, Evald Schorm con questo film attraverso il sofferto percorso di un uomo che prende coscienza degli abusi e della corruzione del sistema, ci ha raccontato l’inevitabile, insanabile scontro dei teorici ideali comunisti gonfiati dalla propaganda, con la cruda realtà della loro realizzazione pratica, una scoperta talmente sconvolgente, che lo porterà a scrollarsi dalle spalle il retaggio di convinzioni ormai stratificate ma non più convincenti per chi mantiene una coscienza autonoma, e arrivare così alla fine, al rifiuto totale del conformismo ideologico imposto dal partito per aprirsi invece a una nuova visione della vita in relazione al sorgere e al maturare di nuove e più complesse problematiche non solo economiche e sociali, ma anche di natura esistenziale. Una presa di coscienza insomma non più condizionata da una concezione dottrinale da accettare ciecamente come fosse vangelo, che diventa una costante, tenace, coraggiosa e sofferta ricerca personale (il coraggio quotidiano appunto) tesa ad individuare senza più certezze preconfezionate, la direzione più giusta da seguire e smascherare così, buttandoli alle ortiche, i limiti condizionanti delle fallaci promesse “messianiche” subdolamente suggerite dal sistema. In questo contesto, il casting è davvero di lusso e la regia opportunamente cupa e avvincente. Non ci rimane dunque altro che da apprezzare elogiandola, la solidità della rappresentazione, l’invidiabile rigore narrativo che non scade mai nell’insincerità (o peggio ancora nell’insidioso vezzo di voler fare “poesia ad ogni costo”) con cui Schorm riesce a condurre mirabilmente in porto una vicenda fortemente conflittuale come questa evitando totalmente la trappola della retorica dei sentimenti. Un ammiratore convinto del film fu Lindsay Anderson che, pur nella diversità delle tematiche di fondo trattate, ci aveva trovato dentro molte analogie con il suo This Sporting Life (Io sono un campione) che lo precede appena di qualche anno. Secondo il regista inglese, in entrambi, viene posto al centro della storia una figura che cerca di sfuggire alle forze repressive di una società contro cui si ribella, ma che alla fine riuscirà - purtroppo - ad avere la meglio e a uscire vincitrice nonostante l’impegno e la dedizione posti al servizio della “verità”.

(FilmTV.itOnline Film)


Una poesia al giorno

Jsou-li tam žáby taky? (Esistono anche là le rane? 1878), del poeta boemo Jan Neruda (1834-1891). È questa la poesia n. 22 della sua raccolta di "Canti Cosmici" (Písně kosmické)

Le rane allo stagno erano assise
I cieli su in alto intente osservando,
La rana maestra la conoscenza
Dell'universo a loro inculcando.

Trattava con esse dei vasti cieli,
Delle faci che vediam lì bruciare
E che gli "astronomi", uomini curiosi
Come talpe scavan per imparare.

Ma se le stelle vanno a disegnare
Ciò che è grande assai piccolo diviene
Venti milioni di miglia per noi
Sono per loro un piede, se conviene.

Così, come quelle talpe scoprirono
(Se creder potete al loro modello)
Nettuno è trenta piedi a noi distante
Venere sol un piede, o men di quello.

Diss'anche che se il Sole frantumiamo
(Fissavan lo sguardo le rane soltanto)
Otteniamo trecento mila Terre
E ne resta ancora in avanzo alquanto.

Il Sole ci aiuta all'uso del tempo,
Lui ruota intorno alla celeste sfera
E divide in turni il nostro lavoro
Per ogni anno dalla mattina a sera.

Cosa sian le comete è arduo a dire,
Son assai strane manifestazioni
Ma non è questa una buona ragione
Per partire in vuote speculazioni.

Non son segni maligni, noi speriamo,
Non c'è motivo per un gran temere,
Come nella storia che raccontò
Lubyenyetsky, quel grande cavaliere:

Apparve un dì nel cielo una cometa,
E allor che ognuno vide il suo splendore,
i ciabattini dentro una taverna,
iniziarono un indegno clamore.

La maestra spiegò lor che le stelle
Che vediamo così tante lassù
Sono in realtà solo lontani Soli
Alcuni verdi, o rossi, ma anche blu.

Se con lo spettroscopio poi osserviamo,
La loro luce altresì ci dimostra
Che quei lontani Soli hanno la stessa
Composizione della Terra nostra.

La maestra tacque. Le rane intorno
Gli occhi di rana roteavan stremate.
"Quali altre cose su quest'universo
Vorreste che vi vengan raccontate?"

"Soltanto un'altra cosa, per piacere"
Chiese una rana, "E' la verità?
Ci son creature vive come noi
Invero, esistono le rane anche là?"

 

Un fatto al giorno

15 maggio 1252: papa Innocenzo IV emana la bolla “Ad Extirpanda” (Per estirpare). “La procedura dell’Inquisizione medievale, non fissata in alcun testo ufficiale, presenta nelle varie epoche difformità spesso notevoli. Nello stadio finale di tale evoluzione, l’inquisitore era coadiuvato da un vicario, alcuni commissari, alcuni probi viri, ufficiali subalterni (in parte forniti dal signore laico), guardiani della prigione (se l’Inquisizione ne aveva una propria), notai, ecc. A fianco dell’inquisitore o del suo vicario sedeva il vescovo o il suo delegato. Prima di procedere venivano emanati due editti: uno di fede, che imponeva a tutti di denunciare gli eretici e i loro complici; l’altro di grazia, che stabiliva un termine (un mese) durante il quale l’eretico che si fosse presentato spontaneamente avrebbe ottenuto il perdono. Tutti coloro che la voce pubblica, l’inchiesta segreta d’ufficio, una denuncia, la deposizione di testimoni ecc. designavano come eretici erano citati a comparire davanti all’inquisitore. Interrogato, il convenuto poteva confessare subito e in tal caso la causa era già istruita. Se negava, si ricercava la confessione con mezzi vari, dalla prigione alla tortura, usata in alcuni processi dell’Inquisizione già nella prima metà del XIII sec. e definitivamente autorizzata da Innocenzo IV”.

(Enciclopedia Treccani)

«Ad extirpanda de medio Populi Christiani haereticae pravitatis zizania...» (Per estirpare la maligna diffusione della pravità eretica da mezzo al popolo Cristiano...). La bolla concede, per la prima volta, all'inquisitore la possibilità (praeterea Potestas) di avvalersi di un servizio personale di uomini e con la sua promulgazione lascia ad esso libera competenza e territorialità, nonché la scelta degli strumenti a disposizione, per estorcere la confessione eretica, fra cui la tortura. La decisione papale segue di pochi giorni l'assassinio dell'inquisitore generale di Milano, Pietro da Verona, ad opera dei catari nel bosco di Farga, a Seveso, il 6 aprile dello stesso anno, nel sabato successivo alla Pasqua, prima della domenica In Albis. Pietro da Verona, o Pietro Martire, al secolo Pietro Rosini (Verona, 1205 circa - Seveso, 6 aprile 1252), è stato un predicatore appartenente all'Ordine dei domenicani ed è venerato come santo dalla Chiesa cattolica".

(Wikipedia)

 

Una frase al giorno

“Risalta meravigliosamente bene dai lavori mirabili ai quali Keplero ha consacrato la sua vita, che la conoscenza non può derivare dall'esperienza sola, ma che occorre il paragone fra ciò che lo spirito umano ha concepito e ciò che ha osservato”.

(Albert Einstein)

 

Un brano al giorno

Albert Einstein: Sonata per violino in si bemolle maggiore KV 378

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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