L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno III. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
MATA HARI (USA, 1931), regia di George Fitzmaurice. Prodotto da George Fitzmaurice, Irving Thalberg. Scritto da Benjamin Glazer, Leo Birinsky, Doris Anderson, Gilbert Emery. Musica: William Axt. Fotografia: William Daniels. Montaggio: Frank Sullivan. Cast: Greta Garbo è Mata Hari. Ramon Novarro è Lieutenant Alexis Rosanoff. Lionel Barrymore è General Serge Shubin. Lewis Stone è Andriani. C. Henry Gordon è Dubois. Karen Morley è Carlotta. Alec B. Francis è Major Caron. Blanche Friderici è Sister Angelica (e Blanche Frederici). Edmund Breese è Warden. Helen Jerome Eddy è Sister Genevieve-. Frank Reicher è The Cook-Spy.
Nella Parigi del 1917, durante la Prima guerra mondiale, la danzatrice esotica Mata Hari è una delle maggiori attrazioni della vita notturna, ma anche una delle più abili spie al servizio della Germania, che sfrutta del suo fascino misterioso per intessere relazioni con le importanti autorità militari presenti nella capitale francese, come il generale russo Shubin, con il quale ha maturato una particolare intimità.
Il giovane tenente Rosanoff, appena arrivato in città, si innamora di lei al primo sguardo e Mata Hari non si fa alcuno scrupolo ad approfittarne per sottrargli, a sua insaputa, le importanti informazioni che è incaricato di riportare in volo fino in Russia. Quando però la donna si rende conto di ricambiarne il sentimento, segna il proprio tragico destino.
“In nome del popolo francese, il Terzo Consiglio di Guerra condanna all’unanimità, Marguérite-Gertrude Zeller, conosciuta come Mata Hari, alla pena di morte per spionaggio contro la Francia e la condanna inoltre al pagamento delle spese processuali”. Con queste poche parole si concluse la storia di una donna il cui unico torto, oggi, pare essere stato il troppo amore per gli uomini in divisa. Parigi, prima guerra mondiale: una nota danzatrice esotica, amante di lusso e gioielli, fa la spia per le Potenze Centrali. Cerca di carpire informazioni preziose ai russi e si innamora di un tenente pilota nemico. Finisce appunto davanti al plotone d'esecuzione. Il suo arresto in Francia fu provocato da un messaggio radio inviato a Berlino dall'addetto militare tedesco in Spagna, intercettato dai francesi, in cui si parlava di Mata Hari come di una spia tedesca, con nome in codice H-21. Una coincidenza poco chiara è che questo messaggio fu inviato utilizzando un codice che si sapeva essere già stato decrittato dai francesi.
Le accuse a Mata Hari ebbero luogo in un momento di grande difficoltà per la Francia, dissanguata sul fronte occidentale, una fase in cui al governo francese faceva particolarmente comodo trovare un capro espiatorio su cui riversare tutta la responsabilità dei rovesci militari. Ella fu giudicata colpevole e fucilata il 15 ottobre 1917. Mata Hari svolse probabilmente azioni di spionaggio per conto dei francesi o dei tedeschi, ma tale attività spionistica non è stata mai realmente documentata in modo convincente.
Inadatta alla parte eppure affascinante, nonostante il contesto che spesso sfiora l'imbecillità o il ridicolo, Greta Garbo dà qui un'altra prova del suo potere di irradiazione. Il suo volto è fisso, privo di quei vezzi e di quella mobilità che possiamo ritrovare in altri suoi lungometraggi. Nella sequenza del ballo, un po' lasciva, fu addirittura usata in parte una controfigura.
Ma ancora una volta, tutti gli appassionati della Grande Guerra dovranno ingoiare un altro boccone amaro, in termini di scarsa interpretazione e recitazione minimalista, pur di potersi godere una delle poche trasposizioni cinematografiche di uno dei più misteriosi e senza dubbio affascinanti accadimenti di quell'epoca.”
“È stupefacente vedere come sia ancora forte, dopo un secolo, l’immagine di Mata Hari... Se non esistesse, dovremmo inventarla! Tendiamo subito a pensare a Mata Hari ogni volta che si pronunciano le parole “donna, spia seducente”. La Garbo interpretò Mata Hari nel 1931. Alcune caratteristiche di quel personaggio tornano in Tania Fedorova, La donna misteriosa. La storia è ambientata negli anni che precedono la prima guerra mondiale. Lei è una spia russa che fa di tutto per raccogliere informazioni dagli austriaci. Quello che non ha previsto è di innamorarsi dell’uomo che doveva sedurre. La cosa notevole del film, a parte la sua assoluta bellezza visiva, è che la Garbo si realizza, finalmente, come Garbo. Non è più la tentatrice da fumetto di The Temptress o Flesh and the Devil, ma una donna di avvolgente sensualità, con un cuore vero, che batte. Il regista, Fred Niblo, tratta la sua bellezza da “feticista”, eppure riesce a creare una figura in carne e ossa, ed è impossibile non rimanere a bocca aperta quando siamo seduti a guardarla, ci incanta.”
(In left.it)
- Il film Mata Hari (1931), con Greta Garbo, Ramon Novarro, Lionel Barrymore
“Margaretha Geertruida Zelle (il vero nome di Mata Hari) nacque a Leeuwarden. Dopo il fallimento del suo matrimonio decise di trasferirsi a Parigi. In brevissimo tempo divenne una delle ballerine più ricercate. Si esibì in tutte le maggiori città europee.
In quanto frequentatrice degli ambienti mondani ebbe relazioni con alti ufficiali, politici e molti personaggi influenti. Questi contatti, il fatto di essere olandese e la possibilità di poter attraversare liberamente le frontiere la fece diventare fonte di sospetti durante la Prima Guerra Mondiale. Nel 1917 Mata Hari fu arrestata dai francesi con l'accusa di spionaggio. Sebbene non vi fosse nessuna prova certa, fu trovata colpevole e giustiziata tramite plotone di esecuzione.
Se vuoi saperne di più sulla vita di Mata Hari puoi visitare il Museo Fries a Leeuwarden. Il museo ospita una stanza completamente dedicata alla famosa Mata Hari. La sua vita ha ispirato numerosi produttori cinematografici ed è stata il simbolo del declino dell'Europa di quel periodo”.
“All’apice del successo il Times scriverà di lei: “Un’avvenenza che sconfina nell’incredibile, con una figura dal fascino strano e dalle movenze di una belva divina che si conduca in una foresta incantata”. Intelligente, colta, intraprendente, poliglotta, Mata Hari miete un trionfo dopo l’altro vivendo da protagonista la vita mondana di quegli anni, preceduta dalla sua fama di avventuriera e di cortigiana fatale. Condivide, in tal senso, lo stesso destino di altre due danzatrici leggendarie, Lola Montez e Carolina Otero, che dettano le mode del momento con le loro mise ricercate e che per la loro bellezza ed abilità diventano non solo oggetto di desiderio di uomini famosi o potenti, ma addirittura le favorite di sovrani e imperatori.
Il tramonto di quei giorni spensierati e lussuosi è però dietro l’angolo, e l’avvento della prima guerra mondiale irrompe con violenza sulla scena storica, segnando l’inesorabile fine della Belle Époque. Mata Hari all’inizio non si rende pienamente conto dei cambiamenti in atto, frastornata com’è dai successi, dalla popolarità e dalla vita sfarzosa e solo dopo alcune settimane lascia la Francia per rientrare nella neutrale Olanda, dove resterà per i primissimi tempi del conflitto. Nel 1916 compie 40 anni e, nonostante qualche occasionale serata, comprende che ormai la sua carriera artistica è irrimediabilmente giunta al termine. Tuttavia, fragile, ricattabile, affascinante, amante della bella vita, confidente di molti ufficiali poco inclini alla vita di caserma, Mata Hari non sa che ora cattura un nuovo tipo di interesse, l’interesse come potenziale agente segreto...”
(Articolo completo in www.vanillamagazine.it)
Una poesia al giorno
Тамара, di Михаил Лермонтов (Michail Jur'evič Lermontov)
В глубокой теснине Дарьяла,
Где роется Терек во мгле,
Старинная башня стояла,
Чернея на черной скале.
В той башне высокой и тесной
Царица Тамара жила:
Прекрасна, как ангел небесный,
Как демон, коварна и зла.
И там сквозь туман полуночи
Блистал огонек золотой,
Кидался он путнику в очи,
Манил он на отдых ночной.
И слышался голос Тамары:
Он весь был желанье и страсть,
В нем были всесильные чары,
Была непонятная власть.
На голос невидимой пери
Шел воин, купец и пастух;
Пред ним отворялися двери,
Встречал его мрачный евнух.
На мягкой пуховой постели,
В парчу и жемчу́г убрана,
Ждала она гостя... Шипели
Пред нею два кубка вина.
Сплетались горячие руки,
Уста прилипали к устам,
И странные, дикие звуки
Всю ночь раздавалися там.
Как будто в ту башню пустую
Сто юношей пылких и жен
Сошлися на свадьбу ночную,
На тризну больших похорон.
Но только что утра сиянье
Кидало свой луч по горам,
Мгновенно и мрак и молчанье
Опять воцарялися там.
Лишь Терек в теснине Дарьяла,
Гремя, нарушал тишину;
Волна на волну набегала,
Волна погоняла волну;
И с плачем безгласное тело
Спешили они унести;
В окне тогда что-то белело,
Звучало оттуда: прости.
И было так нежно прощанье,
Так сладко тот голос звучал,
Как будто восторги свиданья
И ласки любви обещал.
Tamara, di Michail Jur'evič Lermontov
Nella profonda gola di Dar’jal,
Dove il Terek fruga nelle nebbie cupe,
Un antico bastione si ergeva,
Nereggiando su una nera nube.
In questa torre alta e angusta
La zarina Tamara viveva:
Assai bella, come angelo celeste,
Come demone, perfida e altera.
E là nella nebbia di mezzanotte
Brillava un lumino dorato,
Attirava l’attenzione dei viandanti,
Chiamava a un riposo incantato.
E si udiva la voce di Tamara:
C’era in essa desiderio e passione,
Una magia onnipotente,
Una inesplicabile persuasione.
Verso la voce dell’invisibile peri
Un mercante o un pastore andava:
Davanti a lui si apriva la porta,
Un tetro eunuco lo invitava.
In un soffice letto di piume,
Vestita di broccato porporino,
Ella aspettava l’ospite...Frizzanti
Eran pronte due coppe di vino.
S’intrecciavano le dita degli amanti,
Le labbra si toccavano ardenti,
La notte intera risonavano là
Assai strani e selvaggi accenti.
Come se in quel vuoto bastione
Cento giovani e cento fanciulle,
Fossero insieme a un banchetto funebre,
O per celebrare nozze notturne.
Ma appena la luce del mattino
Si posava sui picchi montani,
Nella torre buio e silenzio
Di nuovo regnavan sovrani.
Solo il Terek nella gola Dar’jal,
Il silenzio rombando rompeva;
L’onda urtava contro l’onda,
L’onda dietro l’onda correva;
E con pianto il corpo muto
Si affrettavano a portar via;
Alla finestra qualcosa biancheggiava,
E risonava una parola: addio.
Ed era un sì tenero lasciarsi,
La voce era dolce e fremente,
Come se estasi d’incontro e carezze
D’amore promettesse per sempre.
(1841)
“Il grande poeta russo fu un uomo capace di provocare forti emozioni. E non soltanto con i suoi versi. Divenne famoso dalla sera alla mattina: mentre la Russia piangeva a lutto il suo più grande poeta, Aleksandr Pushkin, rimasto ucciso in duello, un ufficiale di cavalleria di 22 anni scrisse un componimento audace e molto commovente che a San Pietroburgo divenne subito un grande successo, tanto che la gente lo copiò e se la passò di mano in mano. In quella composizione Lermontov accusava della morte di Pushkin le autorità e la società alla moda. La reazione fu immediata: il poeta libero-pensatore fu arrestato ed esiliato nel Caucaso, dove era in corso una guerra in apparenza senza fine. Lermontov fu spedito in Georgia e si innamorò di quella regione. Non prese parte ad alcun combattimento, ma tornò dall’esilio pieno di idee e di spunti che alimentarono buona parte delle sue opere più conosciute scritte nei due anni successivi.
In ogni caso, ben presto il poeta attirò di nuovo l’attenzione delle autorità. La seconda volta accadde prendendo parte egli stesso a un duello, all’epoca vietato in Russia. Fu rispedito nel Caucaso, non più in Georgia ma in Cecenia, dove si combatteva davvero. Sul campo di battaglia, e talvolta fuori di esso, Lermontov diede prova di coraggio, anche in modo incosciente e crudele, come avrebbero potuto testimoniare quelli che furono presi di mira dai suoi scherzi. Sin dalla più tenera età, e per molto tempo dopo la sua morte, Lermontov è sempre stato circondato da opinioni discordi. Sua madre era morta lasciandolo orfano a due anni: era una donna disperata e infelicemente sposata, e alcuni suppongono che questa fu la causa della sua morte prematura. Il padre discendeva da una famiglia di origini scozzesi che, secondo una leggenda, risaliva direttamente al poeta medievale Thomas Learmonth (detto anche Thomas the Rhymer).
Il padre era un militare senza ricchezze ma che affascinava le donne: alla morte della moglie, egli abbandonò il figlio con la benestante suocera, sapendo benissimo che, a differenza di lei, egli non sarebbe stato in grado di offrire al bambino un’istruzione decente. La nonna stravedeva per il suo unico nipote, ma quel profondo affetto non fu sufficiente a far rimarginare le ferite inferte da una famiglia spezzata. Lermontov divenne un giovane estremamente sensibile, scoprì l’amore a dieci anni e scrisse le sue prime vere poesie a tredici. Sapeva bene di essere diventato adulto troppo presto e le sue poesie lasciano intuire molto, ma sotto alcuni punti di vista rimase sempre un bambino, per tutta la sua breve vita. Da cadetto alla scuola di cavalleria spesso era l’anima delle feste, e il più delle volte faceva scherzi e battute salaci, non del tutto innocenti.
Dopo la scuola, finiti gli studi, il divertimento continuò: per lui iniziò il tempo di fare esperienze di vita, di raccogliere materiale per le sue composizioni future, e Lermontov vi si dedicò appieno. Secondo quanto racconta un aneddoto risalente a quel periodo della sua vita, un giorno egli si vendicò di una fanciulla che aveva respinto il suo amore: finse di essersi innamorato di lei di nuovo, la conquistò e poi... spedì una lettera anonima ai suoi genitori per denunciare la relazione clandestina che aveva avuto con lui. Rimase molto soddisfatto di questo scherzo e ne parlò nelle lettere che scrisse a tutti i suoi amici. La cosa più strabiliante è che la faccenda non finì lì: riuscì anche a diventare testimone alle nozze della giovane, naturalmente da parte dello sposo. Malgrado il dubbio gusto di alcuni suoi scherzi e del suo comportamento in genere, il suo talento era indubitabile. Lermontov non aveva soltanto il dono delle parole, ma anche un talento musicale e fu un artista eccellente, che scelse la carriera militare soltanto seguendo le consuetudini.
Nell’idea di diventare un ussaro c’era secondo lui qualcosa di affascinante: gli ussari erano considerati coraggiosi e raffinati, e Lermontov lo pensava anche più degli altri perché era sempre insicuro di se stesso. Forse proprio questa è la causa della tragedia che pose fine alla sua vita. Durante il secondo periodo di esilio nel Caucaso, nel 1841, Lermontov si trovava in vacanza a Pyatigorsk: fu lì che affrontò in duello un ex amico, un ufficiale in pensione, Nicolai Martynov, che molti contemporanei ritenevano un semplice assassino. Dopo quell’avvenimento, si sarebbe discusso animatamente per un secolo e mezzo sulla vera causa del duello. Una cosa è certa: lo scontro fu innescato da Lermontov che prendeva continuamente in giro Martynov, uomo di bell’aspetto ma non molto intelligente. Non si sa se il duello ebbe luogo a causa di una donna corteggiata da entrambi (come vuole una teoria) o fu una provocazione da parte della polizia zarista segreta che voleva annientare il poeta e libero pensatore (teoria molto popolare soprattutto in epoca sovietica). Il duello, in ogni caso ebbe luogo, Lermontov rimase ucciso all’età di 26 anni e la Russia perse così il suo poeta più promettente.”
(In it.rbth.com)
Michail Jur'evič Lermontov (Mosca, 15 ottobre 1814, 3 ottobre del calendario giuliano - Pjatigorsk, 27 luglio 1841, 15 luglio secondo la vecchia datazione) è stato un poeta, drammaturgo e pittore russo.
Un fatto al giorno
15 ottobre 1815: Napoleone inizia il suo esilio a Sant'Elena nell'Oceano Atlantico meridionale.
Duecento anni fa lo Spirito della Storia, come lo aveva definito Hegel vedendolo passare a cavallo sotto le sue finestre a Jena, finì in esilio. Non ne sarebbe più tornato, a riprova che anche lo Zeitgest ha i suoi limiti, e c'è qualcosa che lo sovrasta. L'Imperatore lo capì affacciandosi di buon'ora dalla cabina dell'HSM Northumberland, il 15 ottobre 1815. Davanti a sé una piccola baia al centro di una piccola isola, alle sue spalle, l'oceano. Oceano a nord, a sud, a est ed a ovest. Sceso sulla terraferma, sotto l'occhio vigile della piccola flotta inglese spedita da Londra a scortarlo, venne informato che il viaggio non era ancora finito, perché la residenza di Longwood che gli era stata assegnata (una catapecchia di legno tutta da ricostruire, nelle memorie del suo accompagnatore il Conte di Las Cases) era a tre miglia di distanza. Napoleone Bonaparte, a quel punto, sospese temporaneamente di lavorare alle sue memorie e si apprestò a passare a Sant'Elena gli ultimi sei anni di vita. Sul suo esilio è stato scritto di tutto, soprattutto sulla sua morte che sarebbe avvenuta in almeno una mezza dozzina di modi diversi: veleno, soffocamento, malinconia e per cause naturali. Probabile che giocò sia il passare inesorabile del tempo, sia la malinconia, se è vero che l'uomo d'azione si trovò ridotto a passeggiate interminabili lungo un pezzo di terra assediato dalle onde, che misura 16 chilometri in un verso e 11 in un altro. Un'estensione inferiore a quella del terreno dove si combattè la Battaglia delle Nazioni. Almeno all'Elba poteva tenere una pur piccola corte, e affacciarsi al mare per sentire il profumo della Corsica. Poteva organizzare i suoi ricevimenti, ma ne aveva approfittato: la primavera precedente, sfruttando un ballo, si era imbarcato per toccare di nuovo il suolo della Francia e tornare ad imperare, anche se solo per cento giorni. Gli inglesi ora erano intenzionati a non lasciargli respiro, e se dall'Elba a Cannes ci vollero una decina di ore, dalla Francia a Sant'Elena il viaggio durò 69 giorni e 69 interminabili notti. L'ulcera, chissà se aiutata dall'arsenico inglese, col tempo ebbe il sopravvento. Persino troppo facile ricordare che la morte dell'invincibile relegato su uno scoglio atlantico colse di sorpresa, e destò grande impressione, in tutta Europa, e che il Manzoni dedicò proprio a questo evento e a quello stupore la sua poesia più famosa. Poco prima di morire, Napoleone lasciò detto che avrebbe desiderato tornare a Parigi, almeno da morto. Non fu accontentato. Almeno fino al 1840, quando la salma rientrò nella Francia divenuta orleanista, accolta da una folla oceanica per riposare agli Invalidi, in mezzo ai suoi soldati, in un sarcofago di marmo rosso che, come aveva imparato bene in Egitto, era la pietra degli imperatori.
(In www.repubblica.it)
“15 ottobre 1815: Napoleone viene esiliato sull’isola britannica di Sant’Elena. Sbarca, come prigioniero, sull’isola di Sant’Elena l’imperatore francese Napoleone Bonaparte. Senza aver mai subito un processo o condanna, Napoleone fu costretto a scontare l’ergastolo nel villaggio di Longwood, in compagnia di un piccolo seguito di fedelissimi, ma controllato a vista da un contingente militare inglese. In questo luogo lontano e sconosciuto nel mezzo dell’oceano Atlantico, Napoleone dettò le sue memorie che lo consegnarono alla memoria eterna.”
(In www.italnews.info)
Una frase al giorno
“Mi chiedevo cosa ci facessi, perché fossi lì... credevo d'esser vittima di un'allucinazione; ma, ahimè, i vestiti stracciati, infangati, mi riportavano brutalmente alla realtà, gli sguardi di disprezzo che ricevevo mi dicevano troppo chiaramente perché fossi lì.”
(Alfred Dreyfus, Mulhouse, 9 ottobre 1859 - Parigi, 12 luglio 1935)
“1894, Francia. La vicenda ha inizio quando viene trovato un biglietto anonimo in cui un ufficiale di stato maggiore francese comunicava all’addetto militare dell’ambasciata tedesca un elenco di documenti relativi all’organizzazione militare francese. Il colpevole è ben presto trovato: l’ufficiale Alfred Dreyfus. Egli, nato a Mulhouse (Alsazia) il 9 ottobre 1859 da un facoltoso industriale israelita, aveva optato nel 1870 per la nazionalità francese e si era trasferito a Parigi, facendo velocemente carriera militare fino a divenire ufficiale. La sua colpa? Essere ebreo. Ed avere una grafia simile a quella del vero traditore.
Inizia il processo e Dreyfus si dichiara fin da subito innocente, ma lo stato francese necessita di trovare un colpevole e di mettere in scena una pena esemplare per dimostrare la sicurezza del suo sistema politico e militare. La stampa si dichiarò fin da subito favorevole alla condanna dell’ufficiale e anche l’opinione popolare si schierò nettamente contro il Dreyfus che, fino a quel momento, aveva servito fedelmente quella che considerava la propria patria.
Nonostante la totale mancanza di testimonianze, il disaccordo delle perizie calligrafiche (solo 3 su 5 degli esperti dichiararono che la grafia dei documenti incriminati apparteneva al Dreyfus) e le esplicite dichiarazioni della Germania di non aver avuto mai relazioni con l’imputato, il 22 dicembre 1894 Dreyfus venne dichiarato colpevole e condannato alla degradazione ed alla deportazione perpetua all’Isola del Diavolo, in Guyana.
La moglie ed il fratello dell’ufficiale, aiutati dallo scrittore Bernard Lazare, si mobilitarono immediatamente per fare riaprire il caso e per salvare quell’uomo, che loro sapevano innocente, da un’accusa che traeva fondamento solo nella recente ondata di antisemitismo che aveva colpito la Francia. Mentre nelle piazze francesi si gridava “morte agli ebrei!”, all’interno delle mura del tribunale era stato consumato uno dei più grandi errori giudiziali della storia: Dreyfus era benestante, un militare insignito, un padre di famiglia e... un ebreo. E per questo, un traditore.
La svolta del caso si ha nel 1897, quando il nuovo capo dei servizi francesi, Picquart, scoprì il vero autore dei documenti: il comandante francese Esterhazy. Nello stesso anno l’intellettuale Emile Zola pubblicò, sulla prima pagina della rivista L’Aurore, il suo famoso «J’accuse!», una lettera rivolta al Presidente della Repubblica in cui denuncia l’antisemitismo dell’esercito e la condanna senza prove di un uomo innocente. Le conseguenze di questi due avvenimenti non tardano a mostrarsi: Zola venne condannato per diffamazione, ma questo porta ancora maggiore risonanza a quello che ora viene definito “affare Dreyfus”, rendendo palese a tutti l’ingiustizia commessa.
La strada che porterà alla completa riabilitazione dell’ufficiale ebreo, però, è ancora lunga e irta di ostacoli. Infatti, la revisione del processo nel 1899 confermò la colpevolezza di Dreyfus che venne nuovamente condannato a 10 anni di carcere, ma il Presidente gli concesse immediatamente la grazia. L’inchiesta fu riaperta solamente diversi anni dopo e nel 1906 Dreyfus venne finalmente scagionato e reintegrato nell’esercito ed il vero colpevole, Esterhazy, condannato.
L’affare Dreyfus mostra, per la prima volta nella storia (o, perlomeno, con così ampia risonanza), come l’ingiustizia delle ideologie discriminatorie trova sede nelle aule giudiziarie e si riverbera sul processo, istituto che come scopo ha, o dovrebbe avere, la ricerca della verità ed il perseguimento della giustizia. Il potere politico e l’amministrazione giudiziaria spesso vengono piegate dalle idee che serpeggiano tra il popolo e la necessità di individuare un capro espiatorio prevale sul principio di verità e giustizia.
Purtroppo, i secoli passano ma gli errori si ripetono in maniera analoga, soprattutto quando, in tempi come i nostri, lo stato in crisi d’identità vede nell’attacco al nemico comune la strategia per riaffermare la propria forza ed unità. Lo stesso accade oggi, tempo in cui lo straniero, l’extracomunitario, il diverso, viene visto come la minaccia alla sicurezza ed all’ordine pubblico. Come se fosse un elemento che, dall’interno, sarebbe in grado di disgregare l’unità nazionale.
La verità è che abbiamo paura, ed è questa paura che porta le istituzioni al comando ad identificare una comune minaccia da annullare ad ogni costo. Questo successe a Dreyfus nel lontano 1894, quando il “virus” da debellare erano gli ebrei, che minavano la sicurezza dello stato francese (situazione che si sarebbe ripetuta anni dopo nella Germania nazista, sintomo del fatto che simili meccanismi sono comuni a tutti i popoli) ed oggi che avremmo gli strumenti per evitare simili errori giudiziari, non abbiamo ancora imparato dal nostro passato.”
(Veronica Morgagni per MIfacciodiCultura - Associazione culturale)
15 ottobre 1894 Alfred Dreyfus viene arrestato per spionaggio.
Un brano musicale al giorno
Alexander Dreyschock, Piano Concerto in D Minor, Op. 137
I. Allegro ma non troppo (00:00)
II. Andante con moto (10:08)
III. Allegro vivace (16:16)
Orchestra: BBC Scottish Symphony Orchestra
Piano: Piers Lane
Direttore: Niklas Willén
Il concerto per pianoforte in re minore, op. 137 è stato composto nel 1865 e brilla con il tipo di brillantezza di champagne che il pubblico di Dreyschock deve aver amato. Un critico una volta disse: "Lui (Dreyschock) si è dimostrato un vero musicista nella sua interpretazione del Concerto per sol minore di Mendelssohn e altre composizioni serie".
Alexander Dreyschock nacque il 15 ottobre 1818 a Zak, in Boemia. Mentre era ancora un bambino piccolo ha perso suo padre. Era un ragazzo di talento, tuttavia, e i suoi talenti musicali furono mostrati per la prima volta pubblicamente all'età di otto anni. A quindici anni si recò a Praga per studiare pianoforte e composizione con Václav Tomášek. Apparentemente sua madre era piuttosto semplice e diceva alla gente che studiava medicina. All'età di vent'anni, Alexander era un pianista straordinariamente competente e intraprese il suo primo tour professionale nel dicembre 1838, esibendosi in varie città del nord e del centro in Germania.
I tour successivi lo videro visitare la Russia (1840-1842), Parigi (primavera 1843), Londra, Paesi Bassi, Austria e Ungheria (1846), nonché la Danimarca e la Svezia nel 1849. Altrove fece scalpore con prodigiosa esecuzione di terzi, sesti e ottave, oltre ad altri trucchi. Quando fece il suo debutto a Parigi nel 1843, incluse un pezzo per la sola mano sinistra. La mano sinistra di Dreyschock era rinomata, e la sua acrobazia tecnica più famosa era suonare gli arpeggi di sinistra di Revolutionary Étude di Chopin in ottave. Gli osservatori del tempo riferirono di averlo suonato con il tempo corretto, ed è noto che lo aveva programmato in tutti i suoi considerando.
Nel 1862, Dreyschock divenne membro del personale presso il Conservatorio di San Pietroburgo appena fondato su invito di Anton Rubinstein. Fra i suoi studenti, Arkady Abaza. Fu nominato pianista di corte allo zar e direttore della scuola di musica imperiale per il palcoscenico operistico. Mentre mantenne questo doppio incarico per sei anni, la sua salute soffrì del clima russo. Si trasferì in Italia nel 1868, ma il cambio di residenza non servì e morì di tubercolosi, a cinquant'anni, a Venezia. Per volere della sua famiglia fu sepolto nel cimitero di Olšany a Praga.
(In en.wikipedia.org)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.
È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.
Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.
“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”
(Wikipedia)
“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”
(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)
“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.
(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)
“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”
(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)
“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)
“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.
(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)
Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/
Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0
https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs
https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4
https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk
Una poesia al giorno
Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l'anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
Nous serons
N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents
N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.
Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.
Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible
Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.
Unis par le plus fort et le plus cher lien,
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.
Sans nous préoccuper de ce que nous destine
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?
Un fatto al giorno
17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.
(da Focus)
Una frase al giorno
“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”
(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)
Un brano al giorno
Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k