L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
UN HOMME QUI CRIE (Ciad, Francia, Belgio, 2010) scritto e diretto da Mahamat-Saleh Haroun. Fotografia: Laurent Brunet. Montaggio: Marie-Hélène Dozo. Musica: Wasis Diop. Con: Youssif Djaoro, Diouc Koma, Emil Abossolo M’Bo, Hadjé Fatimé N’Goua. Marius Yelolo, Djénéba Koné. Il film ha vinto il Premio della giuria al 63º Festival di Cannes.
“Il cinema ha fatto della guerra uno dei suoi topoi più frequentati: il coraggio, la paura, la solidarietà, le relazioni tra gli uomini che cambiano come conseguenza dei conflitti. Ma l'orrore assoluto della guerra non può essere compreso se non vivendolo. Mahamat-Saleh Haroun l'ha vissuto. Ferito nel 1980 durante la guerra civile in Chad, costretto a lasciare il suo paese per rifugiarsi in Camerun, 26 anni dopo, mentre girava Darat (Premio speciale della giuria alla Mostra di Venezia 2006), i ribelli hanno invaso N'Djaména. Sei ore di combattimento causarono 300 morti”.
(Camillo de Marco)
“Quattro anni fa, portando a Venezia DARATT, Mahamat-Saleh Haroun si era segnalato tra i migliori di quella competizione. Si trattava di una storia semplice (un giovane uomo va lontano a vendicare il padre) ma che riuscivamo a capire davvero soltanto alla fine, a giochi fatti. Prima, restavamo in balia di una sorta di sospensione; anche dal punto di vista registico, ci si concentrava sul dato immediato della situazione (i suoi personaggi, i suoi luoghi) senza che davvero nulla di tutto questo trovasse qualcosa come uno “sviluppo”. E il pathos ne guadagnava grandemente.
Con questo nuovo UN HOMME QUI CRIE, Haroun ripropone in buona parte questo schema. Dal punto di vista narrativo, abbiamo quasi un rovesciamento dell’asse padre-figlio del film precedente. Protagonista è Adam, ex campione di nuoto sessantenne ora impiegato in un hotel nel Ciad. Con l’arrivo della nuova direzione cinese, deve lasciare il posto al figlio Abdel, e la prende malissimo: la piscina era tutto per lui, la sua vita stessa. Nel frattempo, dalla radio arrivano notizie della guerra civile che sta devastando la nazione tutt’intorno. Il capo del quartiere intima ad Adam di versare l’obolo per rafforzare la repressione dei ribelli. Ma Adam, un po’ perché non ha i soldi e un po’ per debolezza e desiderio (inconfessabile e inconfessato) di riprendere la vecchia vita, gli cede il figlio, che dunque viene forzato ad andare al fronte. In seguito se ne pente, tenta di rimediare, ma è troppo tardi.
La risoluzione sarà dunque propriamente tragica: le azioni dei personaggi hanno conseguenze la cui fatalità negativa oltrepassa loro e le loro intenzioni. Nel finale, in due splendide scene in riva al fiume, si assiste dunque al “rilascio” del pathos trattenuto lungo tutto il film. Perché prima di quel momento, la regia si concentra soprattutto su Adam. Non nel senso che “sviluppa un personaggio”, ma nel senso che lo mostra semplicemente “consistere”, camminare, fissare il vuoto. Lo mostra insomma nella propria impotenza, in preda alla contraddizione che lo attanaglia e che lo trova incapace di fare scelte adeguate. Ci si limita in effetti a seguirlo mentre “macera” nella propria impasse. Haroun gira aderendo a un ideale di asciuttissima essenzialità. Trattiene solo i dati essenziali dell’azione, fino a renderla scheletrica e quasi inumana, in modo da rendere l’impressione che l’azione non sia vissuta e agita dai personaggi, ma che “fluttui” sempre da qualche altra parte, a prescindere da essi. In effetti, questo è letteralmente il caso della Guerra civile, che sentiamo solo alla radio, e che percepiamo inevitabilmente solo in lontananza.
Ma poi la guerra arriva. E Adam paga fino in fondo la sua presunzione di poterne stare fuori. Come dice la citazione sul cartello finale, “non possiamo illuderci di essere spettatori, perché una cosa è un uomo che grida, un'altra cosa un orso che balla”. Il che ci dice anche che non possiamo relegare quella guerra a quel luogo. Perché l’illuderci vanamente di poter stare in un’oasi, in una “piscina” di lusso al riparo dai conflitti, ci colpisce tutti.”
(Marco Grosoli)
“Chad, Adam (Youssouf Djaoro), 60 anni, ex campione di nuoto (?), lavora alla piscina di un hotel di N’Djamena. Quando la gestione passa ai cinesi, deve “dare” il proprio impiego al figlio Abdel (Diouc Koma) e passare a fare il custode: ma la ferita brucia, l’umiliazione sociale lo tiene digiuno e insonne. Nel frattempo, la guerra civile infuria: si cercano soldi e giovani per combattere i ribelli. Adam i soldi non li ha, ha un figlio... E’ questo il primo film del Chad in lizza per la Palma d’Oro nella storia di Cannes: Un homme qui crie di Mahamat-Saleh Haroun, già premio speciale della giuria a Venezia nel 2006 con Daratt.
Quarto lungometraggio del 50enne regista, Un homme può piacere, anche convincere per la storia, non per il racconto: la regia è elementare, povera, scolastica, al più illustra, e con qualche difficoltà. Per esempio, l’amore e l’onore di Adam (bel nome simbolico, come Abdel...) per la piscina non lo si riesce mai a mostrare: si può solo dirlo, con opportuna annotazione didascalica.
E così via, il conflitto d’interessi tra amore filiale e egocentrismo professionale, ragioni private e status pubblico, individuo e famiglia, financo guerra e pace, viene frullato in un’opera senza palpiti di scrittura, meramente descrittiva anche nelle pause e nei silenzi. E che, quando approda al simbolico come nel finale lustrale, dichiara tutta la sua incapacità a gestire l’ineffabile, l’umano troppo umano: al netto di simpatie terzomondiste, un onesto ritratto di famiglia in cornice elementare”.
(Federico Pontiggia)
Una poesia al giorno
E il disco infuocato del sole, di Léopold Sédar Senghor
E il disco infuocato del sole declina nel mare vermiglio.
Ai confini della foresta e dell’abisso, mi perdo nel dedalo del sentiero.
L’odore m’insegue forte e altero, a pungere le mie narici
Deliziosamente. Mi insegue e tu mi insegui, mio doppio.
Il sole si immerge nel’angoscia
In una messe di luci, in un’esultanza di colori e di grida irose.
Una piroga sottile come un ago nella ferma intensità del mare,
Uno che rema e il suo doppio.
Sanguinano le rocce di Capo Nase, quando lontano si accende il faro
delle Mamelles.
Al pensiero di te, così mi trafigge la malinconia.
Penso a te quando cammino e quando nuoto,
seduto o in piedi, penso a te mattina e sera,
La notte quando piango e sì, anche quando sono felice
Quando parlo e mi parlo e quando taccio
Nelle mie gioie e nelle mie pene. Quando penso e non penso,
Cara penso a te.
Un fatto al giorno
16 marzo 1978: Aldo Moro è rapito in un agguato a Roma in Via Fani dalle Brigate Rosse che uccidono i cinque uomini della scorta. Alle ore 9:00 circa in Via Mario Fani, quartiere Trionfale, l'auto dell'onorevole Aldo Moro e quella della scorta furono bloccate all'incrocio con Via Stresa da un gruppo di terroristi che aprirono immediatamente il fuoco, uccisero in pochi secondi i cinque uomini della scorta e sequestrarono Moro. I terroristi ripartirono subito su diverse auto e fecero perdere le loro tracce. In Via Fani rimasero la Fiat 130 targata "Roma L59812" dell'onorevole Moro con i cadaveri dell'autista, appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, 42 anni, e del responsabile della sicurezza, maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, 52 anni, e l'Alfa Romeo Alfetta targata "Roma S93393" degli agenti di scorta con a bordo il cadavere della guardia di Pubblica Sicurezza Giulio Rivera, 24 anni, e il vicebrigadiere di Pubblica sicurezza Francesco Zizzi, 30 anni, gravemente ferito ma ancora in vita; riverso supino sul piano stradale, vicino all'auto, rimase anche il corpo della guardia di Pubblica sicurezza Raffaele Iozzino, 25 anni. Davanti alla Fiat 130 dell'onorevole Moro rimase un'auto Fiat 128 familiare con targa del corpo diplomatico "CD 19707", ferma all'incrocio e abbandonata dai suoi occupanti.
Una frase al giorno
“Il partito vuole aderire alla realtà, per orientarla e plasmarla secondo la sua intuizione, alla luce dei suoi ideali umani. Perché un partito, e soprattutto un partito come il nostro, è un punto di passaggio obbligato dalla società allo Stato, dal particolare all'universale, dal fatto alla legge. Esso è chiamato alla comprensione della realtà, ma anche a dare un giudizio su di essa e un principio di orientamento. Esso parte da posizioni individuali, ma già le amalgama, ma già opera una sintesi nella quale comincia ad esistere lo Stato. Il partito, ben lungi dall'esaurire il suo compito in una cristallizzazione realizzata una volta per tutte, tiene aperto un dialogo permanente il quale verifica costantemente la validità della costruzione giuridica e ne garantisce il continuo adeguamento alle vive esigenze della vita sociale e perciò ad un criterio di sostanziale giustizia”.
(Aldo Moro)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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web www.brusaporco.org