L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
LA PROVINCIALE (Italia, 1953), regia Mario Soldati. Soggetto dall'omonimo romanzo breve di Alberto Moravia, pubblicato nel 1937 e inserito nella raccolta L'imbroglio. Sceneggiatura: Giorgio Bassani. Sandro De Feo. Jean Ferry. Mario Soldati. Produttore: Carlo Ponti, Dino De Laurentiis. Casa di produzione: Electra Compagnia Cinematografica. Fotografia: Aldo Graziati. Montaggio: Leo Catozzo. Musiche: Franco Mannino.
Cast: Gina Lollobrigida, Gemma Foresi. Gabriele Ferzetti, Franco Vagnuzzi. Franco Interlenghi, Paolo Sertori. Nanda Primavera, madre di Gemma. Marilyn Buferd, Anna Sartori. Barbara Berg, Vannina. Alda Mangini, Elvira Coceanu. Renato Baldini, Luciano Vittoni. Alfredo Carpegna, conte Fabrizio Sertori.
“La popolana Gemma è innamorata di un ricco giovane, Paolo Sartori. Non può tuttavia sposarlo in quanto è il suo fratellastro illegittimo. Superata la delusione, si rassegna a sposare il professor Franco Vagnuzzi, per il quale non prova un vero affetto. Ricattata dalla contessa Elvira, Gemma diviene l’amante di un certo Vittoni. Franco non sospetta di nulla. Quando Elvira minaccia di seguire i due sposi a Roma, dove Franco sta per essere trasferito, Gemma, esasperata, si scaglia contro la donna e la ferisce. Riesce così ad allontanarla e a riconciliarsi con Franco.
A ripercorrere il passato della nostra cinematografia si prova sempre un certo particolare piacere nel collegare piccoli pezzi mancanti per scoprire che, in fin dei conti, in quel formidabile periodo del nostro cinema che va all’incirca da Roma città aperta a Todo modo, tutto si teneva, tutto era in qualche modo contiguo e in comunicazione, contribuendo ad alimentare un sistema virtuoso. Così, La provinciale di Mario Soldati, diretto nel 1953 e proiettato in 35mm al Torino Film Festival per l’omaggio al regista e scrittore torinese, ci parla ancora oggi per tutta una serie di motivi. Il primo è quello di vedere Gina Lollobrigida in un ruolo già anomalo per la sua carriera di diva lanciatissima in quell’inizio degli anni ’50; d’altronde La provinciale è di pochi mesi precedente a Pane, amore e fantasia, il film più celebre con la Lollo, e qui - nel film di Soldati - la vediamo nella parte di una giovane donna già invecchiata, la cui esuberanza e la cui connaturata carnalità vengono man mano represse dall’esistenza piccolo-borghese cui è condannata.
Il secondo motivo di collegamento riguarda la carriera di Soldati che, dopo aver ritratto delle stratificate e dolenti figure femminili alla fine degli anni Trenta (da Dora Nelson a Malombra a Piccolo mondo antico), torna al femminino proprio con questo film, aggiornando dunque il tema nella mutata Italia degli anni Cinquanta, ma senza abbandonare il contesto isolato e cupo e soffocante e claustrofobico della provincia, che è elemento essenziale dello sguardo che il Soldati regista e scrittore ha posato sul nostro paese lungo i decenni.
Il terzo è inevitabilmente collegato al precedente e apre però il campo alle collaborazioni, alle contiguità, a quel sistema virtuoso che si citava all’inizio. La provinciale, infatti, è tratto da un racconto di Moravia, e i film adattati dalle pagine dello scrittore romano furono tanti e decisivi nella storia del cinema italiano; basti pensare che, appena nel ’54, vi sarà La romana che, diretto da Zampa, avrà di nuovo protagonista la Lollobrigida, in un ruolo tra l’altro molto simile a questo: anche qui, come ne La provinciale, la chioma fluente e aggressiva dell’attrice verrà imbrigliata per aiutare la caratterizzazione di un personaggio sofferente, contrastato. Ma La provinciale non è solo un film moraviano, è anche un film bassaniano, vale a dire che la presenza di Giorgio Bassani in sede di sceneggiatura è ben riconoscibile - a posteriori - soprattutto nella descrizione di quell’alta borghesia che nella prima parte del film organizza serate e feste e che va a giocare a tennis, come poi lo scrittore ferrarese celebrerà in maniera definitiva ne Il giardino dei Finzi Contini. Un Bassani, tra l’altro, che nel ’53 ancora non aveva raggiunto il riconoscimento che poi gli verrà tributato, a partire dal Premio Strega del ’56 per Cinque storie ferraresi.
Ma a questo motivo, a questo frammento del complesso schema del cinema italiano di quegli anni, ne va aggiunto un altro, e cioè la straordinaria prossimità tra La provinciale e il cinema di Antonio Pietrangeli, che proprio nel ’53 esordiva alla regia con Il sole negli occhi. Allo stesso modo di Pietrangeli, Soldati infatti ritrae gli umori di una donna che vuole emanciparsi dalla società patriarcale, che rifugge la noia di una vita piccolo-borghese, che cerca di realizzarsi al centro del mondo conosciuto - quella Roma che non vedrà mai - e non in un buco di periferia, quella casa alla fine della cittadina - Lucca - in cui è costretta ad abitare, una casa che segna proprio il confine tra l’abitato e il nulla, per una sapiente scelta di location che allude già all’imminente boom edilizio. E ne La provinciale è pietrangelesco anche Gabriele Ferzetti, presente ne Il sole negli occhi ma anche in Nata di marzo, che qui incarna il consueto ruolo del maschio apparentemente moderno ma in fin dei conti ancora ottusamente patriarcale, come poi verrà definitivamente certificato ed eternizzato da Antonioni ne L’avventura.
Il punto, però, non è che questo ritratto de La provinciale si possa dire tipico di Pietrangeli, di Bassani, di Moravia o di Soldati, vale a dire che non è appannaggio di uno solo di loro, quanto piuttosto appartiene a ciascuna di queste figure, ciascuna di loro vi ha contribuito, direttamente o meno. Ed è questa una delle fondamentali ricchezze del nostro cinema di quegli anni, un umore e un sentire comune.
Va detto anche che, ovviamente, pur appartenendo a questo macro-genere che si è cercato di descrivere, La provinciale ha delle sue singolari caratteristiche ben definite, ed è questo che lo rende comunque unico, preciso, solo, pur all’interno delle prossimità sopra descritte. Vi è, ad esempio, quella vicina di casa che si esercita al pianoforte e che fa da colonna sonora in strada e nelle palazzine circostanti; essa rappresenta una ingegnosa trovata che gioca sulla diegesi del commento musicale, puntando così a un effetto di minimalismo e di leggera ironia. Vi è poi una costruzione narrativa a flashback vagamente da noir francese, un po’ alla Clouzot, che appare anche un po’ meccanica nel modo in cui si dispiega - lo stesso Pietrangeli ne avrebbe poi perfezionato il funzionamento in un film come La visita - ma che appare sempre essenziale nel dispiegamento drammaturgico, tanto da permettere di descrivere di ogni personaggio le debolezze e le motivazioni che lo hanno indotto ad agire male, a sbagliare. Vi è infine il vero guizzo soldatiano nella figura della nobile decaduta rumena che irretisce il personaggio della Lollobrigida; la donna, che spinge sostanzialmente la protagonista a prostituirsi, è un chiaro aggiornamento del cinema dei telefoni bianchi, di cui Soldati era stato un rappresentante; questa donna a caccia di denaro, perversa, ossessiva, logorroica, rappresenta la degradazione definitiva dell’illusorio mondo aristocratico e fiabesco est-europeo spesso descritto nel cinema italiano degli anni Trenta.
Tutto torna e tutto si lega, dunque, e quel finale in cui i personaggi di Ferzetti e della Lollobrigida si affacciano sul balcone e guardano con malinconia quel nulla che è il loro futuro merita senz’altro di essere citato per asciuttezza e intensità, non così lontano, in fin dei conti, proprio dal finale de L’avventura.”
(In quinlan.it)
«Questo è il primo film tratto da un’opera di Moravia, ed è il primo film serio che realizzo dal 1946 a oggi. Ho scritto tutta la sceneggiatura di mio pugno, con la collaborazione di Giorgio Bassani, e posso dire di essermi impegnato a fondo. Mi è stato spesso rimproverato di fare cose non serie, cose non vere, nelle quali non credo. Ora mi si è presentata una buona occasione, ho voluto realizzare questo film senza concessioni e senza compromessi, e ciò ha significato molte discussioni soprattutto con i produttori»
(Mario Soldati)
“Secondo Soldati, è il suo miglior film. In un periodo in cui è impegnato sul versante del cinema di genere (commedie con Walter Chiari, film di pirati), il regista riesce a realizzare un suo progetto di qualche anno prima, primo adattamento in assoluto di un romanzo di Alberto Moravia (che Soldati conosceva già da bambino). Il copione, scritto insieme a Giorgio Bassani, stravolge la struttura narrativa con una complessa costruzione a flashback: a partire da un eclatante avvenimento iniziale, la vita di una donna borghese insoddisfatta viene raccontata da più punti di vista, secondo l’ottica di diversi personaggi che, ciascuno a suo modo, non l’hanno capita. Un altro grande ritratto femminile che trasporta il realismo di Moravia in un classico meccanismo soldatiano di suspense, e si inserisce in una ricca compagnia di mélo ‘modernisti’ del periodo: i primi fim di Antonioni, certi titoli di Vittorio Cottafavi, Antonio Leonviola, Claudio Gora, Mario Monicelli. Alla modernità narrativa corrisponde uno stile elaborato, con ampi piani-sequenza, un uso sofisticatissimo della musica e una profondità di campo che mette sullo stesso piano Gemma e i suoi ‘narratori’, rendendo impossibile giudicare l’una senza gli altri. Come dichiarò all’epoca Jean Cocteau: “L’insieme del film è un po’ Maupassant e addirittura Marcel Proust. Ma l’abilità del narratore cinematografico, l’economia dei dialoghi e dei gesti salvano tutto. Ogni secondo ha forza senza ricorrere a una ‘trovata’, con una maestria davanti alla quale ci si inchina”. Forse la migliore interpretazione drammatica di Gina Lollobrigida.”
(In festival.ilcinemaritrovato.it)
“Ridurre Moravia per lo schermo è un arduo compito perché al cinema solo la favola pura o la pura realtà hanno diritto di vita e tutti sanno quanto, nella loro dilatata e inasprita verità, i personaggi di Moravia siano spesso lontani dalla verosimiglianza. Mario Soldati ha affrontato egualmente l’impresa, nonostante la sua ispirazione letteraria, al cinema, si fosse fatta guidare fino a ieri dalla musa fogazzariana, e il film di oggi, con la sua solida tessitura narrativa, la sua rigorosa cornice provinciale, il suo straziato personaggio protagonista ne è il risultato concreto.”
(Gian Luigi Rondi, Il Tempo)
“The Wayward Wife (Italian: La provinciale) is a 1953 Italian melodrama film directed by Mario Soldati. It was entered into the 1953 Cannes Film Festival. In 2008 the film was selected to enter the list of the 100 Italian films to be saved.”
(La provinciale è un film melodrammatico italiano del 1953 diretto da Mario Soldati. È stato inserito nel Festival del cinema di Cannes del 1953. Nel 2008 il film è stato selezionato per entrare nell'elenco dei 100 film italiani da salvare).
Il film:
- La Provinciale, 1953, Italia, Film Completo, Gina Lollobrigida
- La Provinciale - Film Completo
Un attore: il 17 marzo 1925 nasce Gabriele Ferzetti (morto nel 2015).
"Pasquale Ferzetti, detto Gabriele (Roma, 17 marzo 1925 - Roma, 2 dicembre 2015), attore italiano. Attivo dal 1948, si segnalò in teatro nel repertorio contemporaneo, da Pirandello a Tennessee Williams, e si affermò nel cinema con personaggi sottilmente ambigui o comunque insicuri: il marito tradito da Gina Lollobrigida in La provinciale (1953) di Mario Soldati, i rarefatti ritratti dell'incomunicabilità e del disagio esistenziale nei due film di Michelangelo Antonioni Le amiche (1955) e L'avventura (1960), il ladro gentiluomo in Parola di ladro (1957) di Nanni Loy e Gianni Puccini, la rievocazione di un momento tragico dell'ultima guerra in La lunga notte del '43 (1960) di Florestano Vancini. Tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio del decennio successivo si segnala per la partecipazione ai film dei grandi registi del momento: A ciascuno il suo (1967) di Elio Petri, Grazie zia di Salvatore Samperi e C'era una volta il West di Sergio Leone (1968), Un bellissimo novembre (1969) di Mauro Bolognini, Bisturi - La mafia bianca (1973) di Luigi Zampa, Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani.
A prova del riconoscimento del suo grande talento - anche a livello internazionale - nel 1969 fu scelto come interprete di Marc Ange Draco, boss della malavita organizzata dell'Unione Córsa, nel sesto film della saga dedicata a James Bond: Agente 007 - Al servizio segreto di Sua Maestà. In questo film, il boss - potenzialmente nemico dell'agente segreto, qui interpretato da George Lazenby - sarà invece clamorosamente alleato di 007, poiché diventerà suo suocero, in quanto nell'unico - e fatalmente breve - matrimonio della sua vita, James Bond ne sposerà la figlia, Teresa "Tracy" Draco, vedova Di Vicenzo, interpretata da Diana Rigg.
Tra le sue ultime interpretazioni si ricordano Grog (1982) di Francesco Laudadio, Porzûs (1997) di Renzo Martinelli, L'avvocato De Gregorio (2003) di Pasquale Squitieri, Perduto amor (2003) di Franco Battiato e Concorso di colpa (2005) di Claudio Fragasso. Muore a 90 anni, il 2 dicembre 2015."
(In wikipedia.org)
Una poesia al giorno
Un poemetto, una poetessa da conoscere! (non esistono traduzioni in italiano)
Divided, di Jean Ingelow
I
An empty sky, a world of heather,
Purple of foxglove, yellow of broom;
We two among them wading together,
Shaking out honey, treading perfume.
Crowds of bees are giddy with clover,
Crowds of grasshoppers skip at our feet,
Crowds of larks at their matins hang over,
Thanking the Lord for a life so sweet.
Flusheth the rise with her purple favor,
Gloweth the cleft with her golden ring,
‘Twixt the two brown butterflies waver
Lightly settle, and sleepily swing.
We two walk till the purple dieth
And short dry grass under foot is brown,
But one little streak at a distance lieth
Green like a ribbon to prank the down.
II
Over the grass we stepped unto it,
And God He knoweth how blithe we were!
Never a voice to bid us eschew it:
Hey the green ribbon that showed so fair!
Hey the green ribbon! we kneeled beside it,
We parted the grasses dewy and sheen;
Drop over drop there filtered and slided
A tiny bright beck that trickled between–
Tinkle, tinkle, sweetly it sung to us,
Light was our talk as of faëry bells–
Faëry wedding-bells faintly rung to us
Down in their fortunate parallels.
Hand in hand, while the sun peered over,
We lapped the grass on that youngling spring;
Swept back its rushes, smoothed its clover,
And said, “Let us follow it westering.”
III
A dappled sky, a world of meadows,
Circling above us the black rooks fly
Forward, backward; lo, their dark shadows
Flit on the blossoming tapestry–
Flit on the beck, for her long grass parteth
As hair from a maid’s bright eyes blown back;
And, lo, the sun like a lover darteth
His flattering smile on her wayward track.
Sing on! we sing in the glorious weather
Till one steps over the tiny strand,
So narrow, in sooth, that still together
On either brink we go hand in hand.
The beck grows wider, the hands must sever.
On either margin, our songs all done,
We move apart, while she singeth ever,
Taking the course of the stooping sun.
He prays, “Come over”–I may not follow;
I cry, “Return”–but he cannot come:
We speak, we laugh, but with voices hollow;
Our hands are hanging, our hearts are numb.
IV
A breathing sigh, a sigh for answer,
A little talking of outward things:
The careless beck is a merry dancer,
Keeping sweet time to the air she sings.
A little pain when the beck grows wider;
“Cross to me now–for her wavelets swell:”
“I may not cross”–and the voice beside her
Faintly reacheth, though heeded well.
No backward path; ah! no returning;
No second crossing that ripple’s flow:
“Come to me now, for the west is burning;
Come ere it darkens;”–“Ah, no! ah, no!”
Then cries of pain, and arms outreaching–
The beck grows wider and swift and deep:
Passionate words as of one beseeching–
The loud beck drowns them; we walk, and weep.
V
A yellow moon in splendor drooping,
A tired queen with her state oppressed,
Low by rushes and swordgrass stooping,
Lies she soft on the waves at rest.
The desert heavens have felt her sadness;
Her earth will weep her some dewy tears;
The wild beck ends her tune of gladness,
And goeth stilly as soul that fears.
We two walk on in our grassy places
On either marge of the moonlit flood,
With the moon’s own sadness in our faces,
Where joy is withered, blossom and bud.
VI
A shady freshness, chafers whirring,
A little piping of leaf-hid birds;
A flutter of wings, a fitful stirring,
A cloud to the eastward snowy as curds.
Bare glassy slopes, where kids are tethered;
Round valleys like nests all ferney-lined;
Round hills, with fluttering tree-tops feathered,
Swell high in their freckled robes behind.
A rose-flush tender, a thrill, a quiver.
When golden gleams to the tree-tops glide;
A flashing edge for the milk-white river,
The beck, a river–with still sleek tide.
Broad and white, and polished as silver,
On she goes under fruit-laden trees;
Sunk in leafage cooeth the culver,
And ‘plaineth of love’s disloyalties.
Glitters the dew and shines the river,
Up comes the lily and dries her bell;
But two are walking apart forever,
And wave their hands for a mute farewell.
VII
A braver swell, a swifter sliding;
The river hasteth, her banks recede:
Wing-like sails on her bosom gliding
Bear down the lily and drown the reed.
Stately prows are rising and bowing
(Shouts of mariners winnow the air),
And level sands for banks endowing
The tiny green ribbon that showed so fair.
While, O my heart! as white sails shiver,
And crowds are passing, and banks stretch wide
How hard to follow, with lips that quiver,
That moving speck on the far-off side!
Farther, farther-I see it-know it-
My eyes brim over, it melts away:
Only my heart to my heart shall show it
As I walk desolate day by day.
VIII
And yet I know past all doubting, truly-
A knowledge greater than grief can dim-
I know, as he loved, he will love me duly-
Yea, better-e’en better than I love him
And as I walk by the vast calm river,
The awful river so dread to see,
I say, “Thy breadth and thy depth for ever
Are bridged by his thoughts that cross to me.”
Una prova di traduzione, solo una prova, per non offendere la poesia di una grande poetessa, ignorata in Italia
I
“Un cielo senza nubi, un mondo di erica,
Rosso di digitale purpurea, giallo di ginestre;
E noi due tra esse, quasi guadando insieme,
Spargendo miele, calpestando profumo..
Sciami di api s’inebriano di trifoglio,
Frotte di cavallette schivano i nostri piedi,
Stormi di allodole sopra di noi recitano la preghiera del mattino,
Ringraziando il Signore per una vita così dolce.
Arrossisce l'ascesa con il suo favore viola,
Splende la spaccatura con il suo anello d'oro,
tra le due farfalle marroni ondeggia
Leggermente per stabilirsi, e sonnolentemente oscilla.
Noi due camminiamo fino alle diete viola
E l'erba secca corta sotto i piedi è marrone,
Ma una piccola striscia a distanza rimane
Verde come un nastro per scherzare sul piumino.”
"Jean Ingelow (17 marzo 1820 - 20 luglio 1897) poetessa e scrittrice inglese, che divenne improvvisamente popolare nel 1863..."
(Leggi tutto in wikipedia.org)
Un fatto al giorno
17 marzo 1948: Regno Unito, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburg firmano il Trattato di Bruxelles, un precursore del trattato del Nord Atlantico che istituisce la NATO.
“Il Trattato di Bruxelles era un patto di autodifesa collettiva firmato da Regno Unito, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo il 17 marzo 1948. Esso venne successivamente modificato dagli Atti internazionali firmati a Parigi il 23 ottobre 1954, che diedero vita all'Unione europea occidentale (UEO) Nel 1948 era ancora reale il timore che i disastri causati dalla Germania nazista potessero riprendere e, al contempo, si guardava con sospetto all'Unione sovietica. Perciò si sentì l'esigenza di stabilire un'alleanza che prevedeva la reciproca garanzia di un aiuto politico e militare, e l'impegno alla concertazione sulle misure da adottare nel caso di un'aggressione da parte della Germania o di qualsiasi situazione che minacciasse la pace in Europa. Era un trattato nato dal problema della sicurezza nei confronti della Germania ma che in realtà si riferiva all'Unione Sovietica. Il trattato nacque quando ormai la divisione dell'Europa in due blocchi era un dato di fatto. L'Unione Sovietica cercava di avere l'egemonia sull'Europa orientale, e l'Europa occidentale cercava di risollevarsi dalle ceneri della Seconda guerra mondiale. La rinascita dell'Europa occidentale muoveva da volontà di europeismo come progetto politico ed economico.
Sembrava che l'interesse statunitense nei confronti dell'Europa occidentale fosse prettamente economico, e c'era il timore, un timore radicato nelle masse, che il Piano Marshall potesse essere messo in crisi dal diffondersi dell'influenza sovietica che si stava consolidando nel Cominform (derivata da "Communist Information Bureau"). La paura nei confronti di idee sovversive o filosovietiche causò una certa pressione dagli Stati europei nei confronti degli Stati Uniti perché non si limitassero ad un impegno europeo solamente economico ma che si impegnassero anche nella difesa cosicché l'Unione Sovietica ne risultasse intimorita. Il 30 agosto 1954 il Parlamento francese respinge il trattato CED che era stato firmato nel maggio 1952 dai sei Paesi membri della CECA. In tal modo il progetto della Comunità Europea di Difesa (CED) fu accantonato definitivamente. I ministri di Francia, Gran Bretagna e Benelux riconsiderarono il trattato di Bruxelles, lo modificarono, in occasione dell'adesione dell'Italia e della Repubblica Federale Tedesca, con gli Accordi di Parigi (da cui la dizione trattato di Bruxelles modificato), così si diede vita ad un'Organizzazione che assumeva l'attuale nome di UEO.
Elemento fondamentale del trattato di Bruxelles è l'art. 5, che prevede la mutua assistenza di tutti gli Stati membri in caso di aggressione nei confronti di uno di essi in Europa, e consultazioni in caso di aggressione in un altro continente o in caso di minaccia della Germania. Era inoltre prevista una cooperazione economica, sociale e culturale fra le nazioni partecipanti. Il presidente statunitense Truman manifestò grande apprezzamento per questo trattato. Il 24 marzo la delegazione USA presentò un memorandum che sosteneva l'idea di un patto di sicurezza per l'area nord atlantica (il futuro "patto atlantico") in cui il "governo statunitense considererebbe un attacco contro una delle potenze del trattato di Bruxelles come un attacco contro gli Stati Uniti, da affrontare da parte degli Stati Uniti conformemente all'articolo 51 dello statuto dell'ONU che salvaguardava il diritto dei membri dell'ONU 'all'autodifesa individuale o collettiva'".”
(In wikipedia.org)
“Il Trattato di Bruxelles, firmato il 17 marzo 1948, pur non creando ancora una organizzazione internazionale diede vita a un patto di autodifesa collettiva tra Francia, Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. A seguito del fallimento del progetto della Comunità Europea di Difesa (CED), il Trattato di Bruxelles venne modificato dagli Accordi di Parigi del 23 ottobre 1954 (da cui la dizione Trattato di Bruxelles modificato), che permisero l'adesione dell'Italia e della Repubblica Federale Tedesca e la nascita dell'Organizzazione che assumeva l'attuale nome di UEO.
(Leggi tutto in www.ispionline.it)
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Da vedere:
Una frase al giorno
“Se si prova stanchezza e fatica ballando, e se ci si siede per lo sforzo, se compatiamo i nostri piedi sanguinanti, se rincorriamo solo la meta e non comprendiamo il pieno ed unico piacere di muoverci, non comprendiamo la profonda essenza della vita, dove il significato è nel suo divenire e non nell'apparire”
(Rudolf Nureyev, 17 marzo 1938 - 6 gennaio 1993)
“Per Rudolf Nureyev, il «tartaro volante» che molti chiamavano ormai affettuosamente Rudy, è giunto il momento del volo più lungo. E’ uscito di scena definitivamente con un «gran eté» alla sua maniera, da grande danzatore, per non tornare mai più sulla ribalta della vita lui che sembrava sprigionare energie cinetiche e muscolari, simbolo stesso della danza e del movimento.
Era nato il 17 marzo 1938 nei pressi di Irkutsk, ai confini con la lontana Mongolia. E, quasi preannuncio di una vita girovaga, tutta genio e sregolatezza, era nato su un treno alla volta di Vladivostok, dove la madre tentava di raggiungere il marito trasferito insieme con il suo battaglione di artiglieria. Figlio di contadini tartari che avevano trovato un relativo benessere dopo la rivoluzione russa e poi patito tutte le difficoltà della guerra, si era trasferito ancor bimbo ad Ufa, nella Repubblica Bakhsira, sugli Urali.
Freddo e fame furono all’ordine del giorno (la madre fu quasi sbranata dai lupi selvaggi), ma il ragazzo si forgiò alla fatica, rivelando un amore per la musica e una predisposizione per la danza ed esibendosi in spettacoli improvvisati per i soldati russi reduci dal fronte. Ma fu verso gli otto anni che decise di intraprendere professionalmente la carriera di ballerino e ad undici cominciò a prendere le prime lezioni di danza da una vecchia signora che aveva fatto parte della compagnia di Diaghilev, poi da una ex-solista del Kirov di Leningrado. Entrò cosi a far parte del balletto del Teatro di Ufa e prese conoscenza del grande repertorio russo-sovietico.
Nonostante l’ostilità della famiglia, lasciata la scuola, Nureyev volò a Leningrado per seguire i corsi della prestigiosa Accademia di danza fondata da Agrippina Vaganova; che già aveva formato e laureato «stelle» di prima grandezza come la Pavlova, Nijinski e la Ulanova. Ammessovi nel 1955, già tre anni dopo Rudy si metteva in luce a Mosca in un concorso internazionale, finendo con l’essere richiestissimo dai più importanti teatri sovietici. Nureyev scelse il Kirov, col quale si esibì inizialmente accanto alla più anziana Dudinskaja, suscitando grandi consensi.
Ma il gran salto Rudy lo compì durante una «tournée» del Kirov a Londra e Parigi nel fatidico 1961, rifiutandosi di tornare in patria e suscitando cosi, negli anni della guerra fredda, un clamoroso caso internazionale intorno al suo nome.
Ad aprirgli inizialmente le braccia in Occidente furono l’International Ballet del Marchese di Cuevas, dove lavorò con Rossella Hightower, e il Balletto Reale Danese di Erik Bruhn. Ma fu col Royal Ballet di Londra e accanto alla straordinaria Margot Fonteyn che Nureyev trovò un’intesa produttiva continuativa. E accanto a lei che nel 1962 comincia ad apparire anche in Italia (Festival di Nervi in Lago dei cigni).
Da allora le sue apparizioni in Europa si moltiplicarono: Spoleto, Vienna, Londra, Parigi ma anche New York in un repertorio comprendente le grandi opere ottocentesche (ma anche moderne creazionidi Ashton, Roland Petit, Mac Millan, Béjart, Taylor) e tutti i massimi autori di danza del nostro secolo.
Negli ultimi vent’anni era apparso più volte in Italia, specialmente alla Scala ma talvolta anche a Roma con sue interpretazioni e sue coreografie di base rigorosamente accademica. Ultimamente, chiamato a ruoli di responsabilità all’Opera di Parigi, Nureyev non aveva praticamente mai abbandonato il palcoscenico, sin oltre la fatidica soglia dei cinquant’anni. Anche nell’età del declino fisico, la danza era per lui un bisogno innato, una necessità del corpo e dello spirito.
Come uomo e come artista Nureyev era una persona riservata, magari diffidente, sensibile ma riservato, dotato di senso dell’umorismo, ma soprattutto orgoglioso. Instancabile nel lavoro e curioso nelle cose d’arte, si concedeva raramente agli amici. Ma quando lo faceva era in modo totale.
Pregevole è stato il lavoro di Nureyev come coreografo. Indubbiamente non ebbe certo la statura dei grandi autori di balletto del nostro tempo, tuttavia la sua straordinaria esperienza di interprete gli consentì sia di riprodurre grandi balletti di repertorio che di aggiornarli con piccoli tocchi per renderli più vicini al gusto ed alla sensibilità d’oggi. Così accadde per Il lago dei cigni, Don Chisciotte, La bella addormentata, Raymonda, Schiaccianoci, Romeo e Giulietta. Senza tradire le trame originali, Nureyev spesso vi apportava quel tanto che bastava a rendere meno anacronistiche le fiabe dei nostri bisnonni.
Sapeva infatti, prima come interprete e poi come coreografo, infondere nuova vita negli eroi talvolta poco credibili del balletto romantico e ciò senza mai tradire lo stile inconfondibile del balletto e senza deformare l’integrità del significato di fondo.
Ma Nureyev, straordinario interprete classico-romantico, sapeva essere al contempo ballerino duttile, aperto alle nuove conquiste del moderno linguaggio, mettendosi a disposizione di grandi coreografi come Béjart, Petit, Tetley in opere coreografiche di grande valore storico e compositivo. Sicché oggi non lo ricordiamo solo nei panni di un trepido Romeo, di Iames ne La Sylphide, di Sigfrido nel Lago dei cigni, di Drosselmeyer in Schiaccianoci, ma anche in Chant d’un compagnon errant di Béjart, nel Calligrafico Apollon di Balanchine, in The Moor’s Pavane del messicano Iosé Limòn o in Aureole di Paul Taylor.
Diverso dall’elegante Erik Bruhn «Danseurnoble» per eccellenza, cosi come da Vassiliev, danzatore eroico per antonomasia, Nureyev rifuggì da prestabilite etichette di ruolo, spaziando dalla danza narrativa a quella concertante e astratta, desideroso di affrontare ogni sfida artistica. Per lui la danza era la vita stessa, l’unico, primo mezzo essenziale per comunicare col mondo circostante.
Fiumi d’inchiostro sono stati versati su di lui. Preferiamo ricordarlo giovane e incontenibile, come nel leggendario passo a due de Le Corsaire all’inizio degli anni ’60. Salti e giri che mai più abbiamo visto in palcoscenico.
Con lui scompare un grande della danza, un indiscusso protagonista. Basterà averlo visto anche una sola volta in scena per portarlo per sempre nel cuore. Se ne è andato malinconicamente, ma per noi resterà sempre l’illusione di ritrovarlo dietro le quinte pronto di nuovo a galvanizzarsi e galvanizzare sotto l’occhio dei riflettori ed il calore degli appalusi per far grande la danza cui ha sacrificato la vita intera. L’ultimo applauso sia anche il più sincero.
Simile ad un raggio di luce ha calcato le scene dei più celebri teatri, emozionando le platee di tutto il mondo per quel suo straordinario silenzio. Avvolta nel silenzio è stata la sua morte, L’eterno esule, che per patria aveva scelto la scena è stato stroncato da una complicazione cardiaca.”
(In www.iltempo.it)
“Rudolf Hametovic Nureyev nasce il 17 marzo 1938 su un treno, in una regione del lago di Baikal, durante un viaggio che la madre aveva intrapreso per raggiungere il marito a Vladivostock.
A diciassette anni, entra nella scuola di ballo del Teatro Kirov di Leningrado, dopo aver studiato con la maestra Udeltsova, che aveva fatto parte dei “Ballets Russes” di Serghej Diaghilev. Fa alcune esperienze al Teatro dell’Opera di Ufa. Fin da subito, inizia a partecipare ad alcuni spettacoli della scuola di ballo del Kirov.
Fra il 1957 e il 1959 danza con la compagnia del Kirov nel repertorio del Teatro che prevede tutti i principali titoli del repertorio classico e romantico, fra cui “Il lago dei Cigni“.
Danza insieme alle più grandi ballerine del Kirov fra cui Natalia Dudinskaya, Alla Shelest, Irina Kolpakova, Alla Sizova.
Nel 1959 danza per la prima volta in “Giselle“, balletto che forse più di ogni altro ne esalta le caratteristiche tecniche ed artistiche.
Un’altra data fondamentale nella sua vita è il 17 giugno 1961, quando, al termine di una tournée parigina del Teatro Kirov, invece di imbarcarsi a bordo dell’aereo che avrebbe dovuto riportarlo in Unione Sovietica, riesce a fuggire dall’aeroporto e ottenere asilo politico in Francia. Ha così inizio la sua carriera in occidente. Appena una settimana dopo esordisce ne “La Bella Addormentata” allestita dall’International Ballet del Marquis de Cuevas. Interpreta anche il ruolo da protagonista ne “La Sylphide”, e in “Infiorata a Genzano” di Auguste Bournonville.
(Leggi tutto in www.informadanza.com)
- Immagini: Cinderella by Rudolf Nureyev
(129 min. Available from 24/12/2019 to 21/05/2020)
Questa scintillante produzione della classica fiaba ha aperto i festeggiamenti per i 350 anni dell'Opera di Parigi. Con musiche di Sergei Prokofiev e coreografie del defunto, grande ballerino russo Rudolf Nureyev.
Un brano musicale al giorno
Élisabeth-Claude Jacquet de La Guerre (1665-1729): «Le Sommeil d'Ulysse»
«Le Sommeil d'Ulysse», 1715
Cantate for Soprano, Flute, Strings and Harpsichord [dedicated to Maximilian II Emanuel, Elector of Bavaria]
Judith van Wanroij [soprano]
Les Talens Lyriques
Christophe Rousset [direction]
“Élisabeth-Claude Jacquet de La Guerre (1666 - Parigi, 27 giugno 1729) compositrice e clavicembalista francese. Figlia di Claude, clavicembalista e organista presso la chiesa di Saint-Louis-en-l'Île a Parigi, imparentata con la famiglia Daquin, Élisabeth Jacquet nel 1673 venne presentata dal padre alla corte di Versailles e incantò il sovrano Luigi XIV con le sue precoci doti di cantante e clavicembalista.
Crebbe presso la corte del Re Sole e la sua educazione fu curata da Madame de Montespan, favorita del re. Ciò le diede accesso a vari privilegi professionali negati ad altri musicisti: essa acquisì una profonda cultura, eccezionale per una donna di quell'epoca, godette degli insegnamenti dei più celebri musicisti della corte e ricevette un'educazione sociale di alto livello.
Le sue prime composizioni, perdute, risalgono al 1680, ma sappiamo di una pastorale eseguita nel 1685 negli appartamenti del Delfino, di fronte al re, che la apprezzò molto e ne chiese più volte la replica nei giorni successivi. Il sovrano continuò ad incoraggiare la sua carriera e le consentì di dedicargli le sue pubblicazioni.
Lasciò la corte nel 1680 e nel 1684 sposò il valente organista e clavicembalista Marin de La Guerre. In questo stesso anno si stabilì sull'Île-Saint-Louis. È del 1687 la prima pubblicazione della musicista: il primo libro di Pièces de clavecin, contenente quattro suites per il clavicembalo. Per celebrare la conquista di Mons, nel 1691 compose il balletto Les Jeux de l'honneur de la victoire, mentre tre anni dopo mise in scena la tragédie-lyrique Céphale et Procris presso l'Académie Royale, su libretto del Duca di Vancy, segretario del Duca di Noailles e professore a Saint-Cyr. Questo lavoro di notevole impegno consolidò la sua reputazione. L'opera venne ripresa nel 1698 a Strasburgo e probabilmente vi assistette anche Sébastien de Brossard. Costui era un profondo conoscitore e sostenitore della musica italiana e la Jacquet, che stava sperimentando la forma sonata, di derivazione italiana, ancora sconosciuta all'ambiente musicale francese dell'epoca, nel 1695 gli inviò quattro sonate in trio e due sonate per violino e basso continuo, ancora inedite, che il Brossard mostrò di apprezzare molto.
Trovatasi sola, dopo che nel giro di poco tempo erano morti l'unico figlio, il padre ed il marito, a partire dal 1704 intensificò il suo impegno nell'ambito musicale. Oltre a continuare la sua frequentazione della corte, presso il proprio domicilio dava concerti semi-privati in cui si riunivano e si esibivano alcuni tra i musicisti più in vista dell'epoca. Essa acquistò una grande notorietà sia come virtuosa che come insegnante di clavicembalo. Nel 1707 apparve una seconda raccolta di Pièces de clavecin raggruppati in due suites che, secondo le indicazioni dell'autrice, possono anche essere eseguiti sul violino - sottinteso: con aggiunta del basso continuo - ed inoltre furono pubblicate 6 sonate per violino e clavicembalo (basso continuo).
Nel 1708 e nel 1711 furono pubblicate due serie di Cantates françaises sur des sujets tirés de l'écriture (Cantate in francese su soggetti presi dalle sacre scritture). Si tratta di cantate non liturgiche, dove le storie sacre vengono "messe in azione", attraverso il testo poetico di Antoine Houdar de la Motte: una forma già utilizzata con successo in Italia ma totalmente inedita nell'ambiente francese. Come tutte le pubblicazioni precedenti, anche queste sono dedicate al re. Tuttavia, il I settembre 1715 morì il Luigi XIV, il grande protettore di Élisabeth, e da questo momento abbiamo notizie sempre più scarse di lei. Sempre nel 1715 appare una raccolta comprendente tre cantate profane con strumenti, dedicate a Massimiliano II Emanuele, principe Elettore di Baviera, grande amante della musica e dilettante di viola da gamba, che visse a Parigi dal 1709 al 1715 . Oltre a queste cantate, ella compose alcune arie pubblicate dall'editore Ballard nei Recueils d'airs sérieux et à boire de différents auteurs. Morì il 27 giugno 1729 a Parigi.
Élisabeth, nonostante abbia sempre perseguito la carriera di musicista indipendente, ebbe senza interruzioni il sostegno e l'ammirazione del re Luigi XIV. Nella cerchia di donne intellettuali che marcò la corte del Re Sole, tra cui le letterate Madame de Scudéry, Madame de La Fayette o Madame de Sévigné, essa era la sola compositrice. Godette di una grande notorietà in Francia ed in tutta Europa come virtuosa del clavicembalo e compositrice per tutto il XVIII secolo, mentre il suo nome cadde nell'oblio nel XIX.”
(In wikipedia.org)
E perché non ascoltare una sua opera completa? Eccola:
- E.-C. Jacquet de la Guerre: «Céphale et Procris» [Musica Fiorita - D. Dolci]
«Céphale et Procris» Tragedia in musica, 1695.
Libretto: Joseph-François Duché de Vancy
Ensemble Musica Fiorita. Direttore Daniela Dolci.
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.
È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.
Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.
“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”
(Wikipedia)
“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”
(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)
“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.
(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)
“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”
(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)
“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)
“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.
(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)
Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/
Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0
https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs
https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4
https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk
Una poesia al giorno
Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l'anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
Nous serons
N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents
N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.
Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.
Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible
Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.
Unis par le plus fort et le plus cher lien,
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.
Sans nous préoccuper de ce que nous destine
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?
Un fatto al giorno
17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.
(da Focus)
Una frase al giorno
“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”
(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)
Un brano al giorno
Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k