L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
MOURIR À MADRID (Francia, 1962), regia di Frédéric Rossif. Sceneggiatura: Frédéric Rossif e Madeleine Chapsal. Fotografia: Georges Barsky. Montaggio: Suzanne Baron. Musiche: Maurice Jarre.
“Frédéric Rossif è un cineasta di origine montenegrina, francese d'adozione, che ha lavorato finora soprattutto alla TV. Straordinario conoscitore del linguaggio filmico, ex collaboratore della Cineteca francese, si era già imposto all'attenzione con un'opera di montaggio sulle atrocità naziste, Vincitori alla sbarra.
Per Morire a Madrid Rossif ha riunito un gran numero di documenti cinematografici, in parte inediti e spesso poco noti, sulla guerra civile; ha anche filmato, con il pretesto di realizzare un film turistico, un certo numero di scene sulla Spagna attuale, cercando di individuarne poeticamente soprattutto la tremenda immobilità. Le immagini nebbiose del colle di Somosierra, dove si combattè la prima battaglia per Madrid, ci sembrano eloquenti prima che suggestive.
Come spesso accade il commento parlato risulta inferiore alle immagini. Nell'edizione originale le voci erano quelle di Suzanne Flon, Germaine Montéro, Jean Vilar, Pierre Vaneck e Roger Vallien; nella copia italiana i lettori sono soltanto tre: Giorgio Albertazzi, Arnoldo Foà e Anna Proclemer, molto puntuali ed efficaci. Madeleine Chapsal ha scritto un testo elegante, esatto, ma forse troppo incline a compiacimenti di carattere letterario che mascherano talune ambiguità. Non ci consideriamo fautori di una storiografia obbiettiva, che è un'astrazione impossibile, e siamo d'accordo che ogni autore proietti sull'evocazione del passato la sua ideologia presente. Vi sono tuttavia dei fenomeni storici, come la guerra di Spagna, intessuti di eventi complessi e contraddittori che andrebbero portati alla luce senza remore di nessun genere.
Se i trentadue mesi di lotta per la Repubblica rappresentarono il tragico "prossimamente" della storia mondiale, ciò accadde anche perché la sinistra rivelò proprio allora la sua spaccatura. In terra di Spagna il contrasto fra il comunismo stalinista, sorretto dalla forza dei contributi sovietici alla causa repubblicana, e gli altri raggruppamenti politici del settore governativo sfociò in episodi di repressione dei movimenti anarchici e trotzkisti. Di tutto il sangue versato durante la guerra civile (e fu molto, un milione di morti), quelle dei libertari catalani accusati di collusione con i ribelli appartiene ad un capitolo oscuro.
Per anni si è risposto alle vigorose testimonianze di parte, come l'Omaggio alla Catalogna di George Orwell, con argomenti dialettici e imperativi machiavellici. Oggi, archiviata l'ipoteca stalinista, sarebbe il caso di portare alla luce quei fatti senza sottintesi. Rossif e la Chapsal, come molti "gauchistes" anche in buona fede, non se la sentono di andare oltre un rapido accenno: "Il POUM, partito socialista d'ispirazione trotzkista, vuole contemporaneamente la vittoria e la rivoluzione. Gli anarchici della CNT e della FAI, che raccolgono la maggioranza dei lavoratori, vogliono la vittoria senza disciplina, il popolo senza lo Stato. Il partito socialista e il partito comunista detengono il potere effettivo: il partito socialista grazie al numero dei suoi deputati, il partito comunista grazie al suo dinamismo e alle armi russe. Purtroppo questi conflitti politici si risolvono con i fucili alla mano e con la mobilitazione nelle piazze". Il terreno scotta, ogni parola di più significherebbe compromettersi nell'una o nell'altra direzione. Ma lo storico, sia pure di estrazione giornalistica, non può lavarsi le mani dei problemi più scottanti, allontanare il calice amaro.”
(Tullio Kezich, Il film sessanta, Ed. Il Formichiere, Milano 1979)
“Si tratta di un film di montaggio realizzato a partire da materiale d'archivio inedito proveniente dalla Sovexportfilm, dal Filmarchiv der Deutsche Demokratische Republik, dalla Visnews Movietone, dalla Pathé, dalla Gaumont e dal Governo basco in esilio. Il film, della durata di 85 minuti, ha una chiara impronta impressionista e si colloca in quella corrente cinematografica francese di inizio anni Sessanta, contemporanea e parallela alla Nouvelle Vague, detta Cinéma-vérité, e della quale i massimi esponenti, oltre a Frédéric Rossif, regista francese di origine montenegrina, sono l'etnografo e cineasta Jean Rouch, Chris Marker, Bertrand Blier (figlio dell'autore Bernard).
Si tratta di un cinema fatto di interviste, di inchieste, spesso raffinato e “diretto”. In particolare in Morire a Madridviene ricordata la Guerra civile spagnola attraverso numerose immagini dei fatti più significativi di quell'evento quali il bombardamento devastante della cittadina basca di Guernica, oppure i bombardamenti su Madrid e Barcellona o, ancora, l'addio della “Pasionaria” Dolores Ibarruri alle Brigate Internazionali.
Tuttavia, il carattere di guerra ideologica che caratterizzò la Guerra civile, nonché il fatto che, come detto in precedenza, il cinema fosse utilizzato da ambo le parti esclusivamente come strumento di propaganda, senza tentare di filmare il reale, rese Rossif impossibilitato a reperire materiale effettivamente realizzato laddove si sta narrando un determinato fatto. È il caso, ad esempio, del bombardamento di Madrid. Nel documentario si vede una donna che cade a terra mentre tenta di raggiungere irifugi antiaerei. Questa scena, sicuramente di grande effetto, fu in realtà girata a Bilbao. Inoltre per mostrare l'effetto dei bombardamenti, Rossif si avvale di molte immagini girate dopo, mentre non compaiono immagini girate durante gli attacchi aerei. Queste, ad esempio, vengono sostituite con l'immagine di una cannonata. Si può quindi affermare che il film di Rossif, sicuramente molto valido e coinvolgente dal punto di vista emotivo, va considerato soprattutto un'opera politica contro Franco, piuttosto che un “pezzo” di guerra civile, in quanto per poter realizzare il film si è dovuto far ricorso a stratagemmi per sopperire alla carenza di immagini reali.”
(In www.cineforumdelcircolo.it)
Il film è stato fortemente censurato in Italia.
Il film:
- Mourir à Madrid (1963) Frédéric Rossif
- Morir En Madrid (Frédéric Rossif,1962) Documental_Guerra Civil
Una poesia al giorno
Les Fenêtres, di Stéphane Mallarmé (Vers et Prose, 1893)
Las du triste hôpital et de l’encens fétide
Qui monte en la blancheur banale des rideaux
Vers le grand crucifix ennuyé du mur vide,
Le moribond, parfois, redresse son vieux dos,
Se traîne et va, moins pour chauffer sa pourriture
Que pour voir du soleil sur les pierres, coller
Les poils blancs et les os de sa maigre figure
Aux fenêtres qu’un beau rayon clair veut hâler,
Et sa bouche, fiévreuse et d’azur bleu vorace,
Telle, jeune, elle alla respirer son trésor,
Une peau virginale et de jadis ! encrasse
D’un long baiser amer les tièdes carreaux d’or.
Ivre, il vit, oubliant l’horreur des saintes huiles,
Les tisanes, l’horloge et le lit infligé,
La toux ; et quand le soir saigne parmi les tuiles,
Son œil, à l’horizon de lumière gorgé,
Voit des galères d’or, belles comme des cygnes,
Sur un fleuve de pourpre et de parfums dormir
En berçant l’éclair fauve et riche de leurs lignes
Dans un grand nonchaloir chargé de souvenir !
Ainsi, pris du dégoût de l’homme à l’âme dure
Vautré dans le bonheur, où ses seuls appétits
Mangent, et qui s’entête à chercher cette ordure
Pour l’offrir à la femme allaitant ses petits,
Je fuis et je m’accroche à toutes les croisées
D’où l’on tourne le dos à la vie, et, béni,
Dans leur verre, lavé d’éternelles rosées,
Que dore la main chaste de l’Infini
Je me mire et me vois ange ! et je meurs, et j’aime
— Que la vitre soit l’art, soit la mysticité —
À renaître, portant mon rêve en diadème,
Au ciel antérieur où fleurit la Beauté !
Mais, hélas ! Ici-bas est maître : sa hantise
Vient m’écœurer parfois jusqu’en cet abri sûr,
Et le vomissement impur de la Bêtise
Me force à me boucher le nez devant l’azur.
Est-il moyen, ô Moi qui connais l’amertume,
D’enfoncer le cristal par le monstre insulté,
Et de m’enfuir, avec mes deux ailes sans plume
— Au risque de tomber pendant l’éternité?
Le Finestre (traduzione in www.rodoni.ch)
Stanco del triste ospizio e del fetore oscuro
Che sale tra il biancore banale delle tende
Verso il gran crocifisso tediato al nudo muro,
Sornione un vecchio dorso vi raddrizza il morente:
Trascina il pelo bianco e l'ossa magre, lento,
Alle vetrate che un raggio chiaro indora,
Meno per riscaldare il suo disfacimento
Che per vedere il sole sopra le pietre ancora.
E la bocca, febbrile e d'azzurro assetata,
(Essa così aspirava, giovane, il suo tesoro,
Un corpo verginale e d'allora) ha lordato
D'un lungo amaro bacio il caldo vetro d'oro.
Ebbro, vive, ed oblia la condanna del letto,
L'orologio, la tosse, le fiale, l'ora estrema,
E allorquando la sera sanguina sopra il tetto,
Con l'occhio all'orizzonte, nella luce serena,
Vede galere d'oro, splendide come cigni,
Dormire sopra un fiume di porpora e d'essenze,
Cullando il fulvo e ricco lampo dei lor profili,
Ricolme di ricordo, di vasta indifferenza!
Così, colto da nausea dell'uomo, anima dura,
Che s'imbraga felice, per gli appetiti soli
Mangiando, ed ostinato cerca questa lordura
Per offrirla alla donna che gli allatta figliuoli,
Io fuggo e mi attacco a tutte le vetrate
Dove si volge il dorso alla vita e al destino,
E nel vetro, lavato dall'eterne rugiade,
Che l'Infinito indora col suo casto mattino,
Mi contemplo e mi vedo angelo! e muoio, e torno
- Che il cristallo sia l'arte o la mistica ebbrezza -
A nascer, col mio sogno diadema al capo intorno,
Dove, in cieli anteriori, fiorisce la Bellezza.
Ma ahimè il Quaggiù impera: fino a questo sicuro
Rifugio esso perviene talora a nausearmi,
E la Stupidità, col suo vomito impuro,
Mi fa turar le nari innanzi ai cieli calmi.
Non tenteremo, o Me che sai amare pene,
D'infrangere il cristallo cui insulta l'Averno,
E di fuggire infine, mie ali senza penne,
A volo - con il rischio di cadere in eterno?
Stéphane Mallarmé (Parigi, 18 marzo 1842 - Valvins, 9 settembre 1898) poeta, scrittore e drammaturgo francese.
“Mallarmé è il poeta che in un secolo di suffragio universale, in un’epoca di lucro, viveva separato dal mondo delle lettere; protetto dal proprio sdegno dalla stupidaggine che lo circondava, appagandosi, lungi dal mondo, delle sorprese dell’intelletto, delle visioni del suo cervello, raffinando pensieri già in se stessi speciosi, intarsiandoli di finezze bizantine, proseguendoli in deduzioni appena accennate collegate da un impercettibile filo.
(Joris-Karl Huysmans)
Stéphane Mallarmé è uno dei massimi esponenti del simbolismo francese. Considerato il padre della poesia moderna per il modo in cui il proprio linguaggio poetico ha saputo influenzare il panorama artistico e lirico delle epoche successive, Mallarmé credeva fortemente nel potere evocativo della poesia. Questa non doveva essere spiegata, ma immaginata, assaporata, compresa con gli occhi del cuore e della mente, tramite allusioni, scenari suggeriti, mai imposti: una poesia fatta di immagini e non di parole, una poesia dove il lettore è costretto ad una pura contemplazione.
Mallarmé ebbe un’infanzia difficile, travagliata, segnata da due grandi lutti, la morte della madre e della sorella. Non particolarmente interessato agli studi, fu costretto a impieghi umili, poco allettanti, finché non intraprese la carriera di insegnante. Ogni professione gli andava stretta, toglieva tempo al suo bisogno di scrivere, di essere libero nella scrittura. Inizia quindi a scrivere di notte, le uniche ore che davvero gli appartengono. Sono anni di profonda crisi, viene trasferito da una scuola all’altra, sente la costrizione dell’ambiente provinciale in cui è costretto a vivere. In questo periodo intrattiene però numerose corrispondenze, tra cui Paul Verlaine, e scrive le sue prime poesie, pubblicate poi nel 1866 sulla rivista Parnasse contemporaine.
Appartengono a questo periodo alcune tra le sue poesie più famose Il suonatore, Le finestre, L’azzurro, Brezza marina. Il rifiuto della vita, la voglia di evasione: l’influenza di Baudelaire, a cui Paul Verlaine lo accosterà nella sua antologia sui poeti maledetti, si sente già dalle prime strofe, ma Mallarmé se ne distacca già qui con un linguaggio più profondo e criptico, teso anch’esso alla ricerca del bello al di là della viltà del mondo in cui è costretto. La sua è una lirica di “tensione”, nella quale convolano tutte le frustrazioni per la propria esistenza.
Nel 1866 Stéphane Mallarmé inizia a scrivere Herodiade, poema di transizione in cui si sente la proiezione verso una poetica nuova, che si distacca del tutto da quella decadentista dei poeti maledetti. Con il racconto Igitur, pubblicato l’anno successivo, la transizione al simbolismo risulta totale.
Nei primi anni ’70 dell’800 riesce ad ottenere il trasferimento nella sua amata Parigi e lì inizia ad intraprendere rapporti con l’ambiente intellettuale dell’epoca. Risale a questo periodo l’incontro con Rimbaud e Manet. Nel 1875 diventa famoso con la pubblicazione de Il meriggio di un fauno, il monologo, a tratti onirico, di un fauno che rievoca un incontro con le ninfe, ritenuto il suo più grande capolavoro, nonché emblema del simbolismo francese. Il linguaggio ricercato, puro, le immagini scelte con cura, simboli che colpiscano il lettore nel profondo della sua interiorità: Mallarmè piega la poesia ai suoi voleri, ne fa strumento per attingere alla verità, quella al di là delle cose.
Nel 1897 con ll-innovativa poesia Un colpo di dadi mai abolirà il caso il simbolismo di Mallarmè si fa più “aspro”. Il linguaggio logico-sintattico lascia totalmente la strada ad un linguaggio lirico-evocativo. Persino i versi non si collocano più in maniera tradizionale nello spazio, ma “giocano” a rincorrersi, a spargersi per la pagina, come segni su uno spartito musicale.
Mallarmè si spegnerà prematuramente il 9 settembre del 1898 a causa di uno spasmo faringeo. Il giorno prima aveva chiesto, invano, che ogni suo scritto fosse distrutto.”
(Alessia Aiello per MIfacciodiCultura in www.artspecialday.com)
Immagini:
- Stéphane Mallarmé - Portrait convenu (Documentaire, 1960)
- Stéphane Mallarmé - Cher Mallarmé… (Documentaire, 1993)
- Stéphane MALLARMÉ - Film exceptionnel d'Éric Rohmer (1968)
Un fatto al giorno
18 marzo 1937: Guerra civile spagnola. Le forze repubblicane spagnole sconfiggono gli italiani nella battaglia di Guadalajara.
“La battaglia di Guadalajara (8 - 23 marzo 1937) fu una delle più propagandate battaglie della guerra civile spagnola. Fu combattuta tra le forze della Seconda Repubblica Spagnola e delle brigate internazionali da una parte, e i nazionalisti di Francisco Franco della Divisìon Soria, affiancati al Corpo Truppe Volontarie (CTV), che sostenne il peso principale dello scontro, dall'altra. La battaglia si concluse con il successo difensivo dei repubblicani, che fermarono la branca settentrionale della manovra di accerchiamento di Madrid.
La battaglia iniziò con un'offensiva italiana l'8 marzo che si spinse fino al borgo di Trijueque il giorno 13. Tra il 12 e il 14 le forze italiane si assestarono sulle posizioni raggiunte, respingendo i primi contrattacchi repubblicani, in attesa che la branca meridionale della manovra d'accerchiamento (fronte dello Jarama) si mettesse in moto. Il 15 marzo i repubblicani, forti dell'inattività del fronte sud, riuscirono a far affluire forze fresche assieme a un'intera brigata di carri armati sovietici e pianificarono una controffensiva.
Il 18 marzo grazie a una puntata in massa di carri T26-B contro le linee italiane i repubblicani forzarono il ripiegamento dello schieramento nazionalista, recuperando circa la metà del terreno perso dall'inizio dell'offensiva. Sulle nuove posizioni i due schieramenti si affrontarono fino al 23 marzo senza più modifiche di rilievo del fronte, quando il CTV venne avvicendato da truppe nazionaliste spagnole, poiché di fronte all'inattività delle forze di Franco sul fiume Jarama, il generale Roatta, comandante delle forze italiane, ritenne inutile proseguire l'offensiva dopo aver perduto il vantaggio numerico.
La battaglia venne così considerata dai fascisti una battuta d'arresto e dai repubblicani una vittoria, il cui valore simbolico e propagandistico superò di gran lunga quello meramente strategico. Nella battaglia si affrontarono anche per la prima volta italiani fascisti del CTV e antifascisti del Battaglione Garibaldi inserito all'interno della XII Brigata internazionale in quella che fu definita "una guerra civile nella guerra civile". …
18 marzo
All'alba, Mera guidò la 14ª divisione oltre il ponte galleggiante sul fiume Tajuña. Il nevischio gli garantì una certa copertura, ma ritardò anche le operazioni. Dopo mezzogiorno, il tempo era migliorato abbastanza da permettere all'aviazione repubblicana di attaccare. Intorno alle 13:30, Jurado diede l'ordine di attacco. Líster, dopo un'iniziale avanzata su alcuni reparti italiani della 1ª Divisione CC.NN. Dio lo Vuole coi carri della Brigata Pavlov, fu rallentato dalla divisione italiana Littorio. Proprio mentre le truppe di Lìster venivano costrette a ritirarsi (con il battaglione Thaelmann in prima linea con difficoltà e il Nannetti fortemente ridotto di organici), il Generale di divisione Edmondo Rossi (soprannome Arnaldi) fu informato di essere stato accerchiato dai carri sovietici. Consapevole della inadeguatezza tecnica dei mezzi blindati italiani, ordinò la ritirata immediata, scoprendo il fianco sinistro della Littorio. Per le formazioni italiane si aprì la possibilità di un disastro completo che in effetti si produsse.
19-23 marzo
Le truppe repubblicane impiegarono 24 ore a riorganizzarsi dalle perdite subite il 18 e a rendersi conto che gli italiani avevano ripiegato. Avanzarono riconquistando i borghi di Gajanejos e Villaviciosa de Tajuña. Il 20 e 21 tentarono nuovi assalti coi carri di Pavlov, fermati dalla divisione Littorio. La controffensiva fu fermata definitivamente sulla linea Valdearenas–Ledanca–Hontanares. Il 23 marzo l'ultimo attacco repubblicano si arrestò, per esaurimento dello slancio, sulle linee italiane e iniziò nei giorni successivi l'avvicendamento delle divisioni del CVT con truppe franchiste.
Significato
La battaglia di Guadalajara, militarmente non decisiva, ebbe grande risonanza internazionale; il fascismo aveva infatti subito il primo chiaro arresto ad opera di forze popolari di cui erano parte anche volontari antifascisti italiani. L'evento assunse importanza politica e inferse un duro colpo al prestigio del fascismo e di Mussolini personalmente...”
(Leggi tutto l’articolo di Valentina Catelan in journals.openedition.org)
Immagini:
- Great Battles Of The Spanish Civil War - Ep. 6 - The Battle Of Guadalajara
- Guerra civil española - Batalla de Guadalajara - Brigadas internacionales
Una frase al giorno
“The successful revolutionary is a statesman, the unsuccessful one a criminal.” (Il rivoluzionario che ha avuto successo è un uomo di stato, quello che non ha avuto successo è un criminale.)
(Erich Fromm da Escape from Freedom, 1941, I edizione, cap. 7.)
Erich Seligmann Fromm (Francoforte sul Meno, 23 marzo 1900 - Muralto, 18 marzo 1980) psicologo, sociologo, filosofo, psicoanalista ed accademico tedesco.
“...Erich Fromm è considerato uno dei maggiori rappresentanti della psicologia post-freudiana . La sua posizione propositiva è stata definita "Socialismo umanistico", utopia di un mondo umano che sappia realizzare le istanze sociali e superare l'alienazione dell'uomo, le spinte a fuggire dalla libertà, che sappia vivere l'amore per la vita. Le opere più importanti di Fromm sono : " Fuga dalla libertà " (1941); " Psicoanalisi e religione " (1950); " Il linguaggio dimenticato " (1951); " Psicoanalisi della società contemporanea " (1955); " L'arte di amare " (1956); " Buddismo, zen e psicoanalisi " (1960); " Marx e Freud " (1962); " Il cuore dell'uomo " (1964 ); " La rivoluzione della speranza " (1968); " Anatomia della distruttività umana " (1973); " Avere o essere " (1976); " Grandezza e limiti della psicoanalisi di Freud "(1979).
Fromm insieme a Adorno, Horkheimer e Marcuse diventa uno dei maggiori esponenti della Scuola di Francoforte , che nei primi anni del secondo dopoguerra si afferma nella cultura tedesca. La nuova corrente di pensiero, fortemente influenzata dal marxismo, si ispira a diverse matrici culturali: la dialettica e la fenomenologia hegeliana, il nichilismo di Nietzsche e di Heidegger, la psicoanalisi di Freud. La Scuola con il marxismo ha un rapporto tormentato e complesso per motivi sia teorici che pratici poiché respinge il concetto cardine del marxismo del progresso sociale che conduce al consumismo e alla tecnocrazia.
La Scuola si oppone ai regimi totalitari di ispirazione marxista degli anni Cinquanta e Sessanta. Il nucleo originario si costituisce a partire dal 1922 presso l'Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, destinato a diventare particolarmente importante quando, nel 1931, ne prende la direzione Max Horkheimer.
Dopo l'avvento del nazismo i componenti della Scuola sono costretti a trasferirsi all'estero, soprattutto negli Stati Uniti d'America e solo alcuni di loro torneranno in Germania alla fine della guerra. Il compito che la Scuola si prefigge è quello di svolgere ricerche collettive e interdisciplinari, tenendo presenti i metodi della sociologia, della ricerca storica, dell'economia politica e del marxismo. Oggetto di studio sono le società industriali e i modi di vivere che in esse tendono a realizzarsi. L'indagine è volta ad analizzare l'autoritarismo, il conformismo, l'alienazione che si presentano in forma più o meno latente nelle società industrializzate ed è condotta prendendo in considerazione anche le manifestazioni culturali e in particolare le avanguardie artistiche del Novecento.
La contestazione giovanile del 1968 sembra ispirarsi alla Scuola di Francoforte che in questo periodo suscita pertanto un rinnovato interesse nel mondo della cultura. Di orientamento socialista e materialista, la Scuola ha elaborato le sue teorie e svolto le sue indagini alla luce delle categorie di totalità e dialettica: la ricerca sociale non si dissolve in indagini specializzate e settoriali; la società va indagata come un tutto nelle relazioni che legano gli ambiti economici con quelli culturali e psicologici. E' qui che si instaura il nesso tra Hegelismo, Marxismo e Freudismo che tipicizzerà la Scuola di Francoforte. La teoria critica si prefigge di far emergere le contraddizioni fondamentali della società capitalistica e punta ad uno sviluppo che conduca ad una società senza sfruttamento.
Con la presa del potere da parte di Hitler il gruppo francofortese emigra prima a Ginevra, poi a Parigi e infine a New York.
Dopo la seconda guerra mondiale Marcuse, Fromm, Lowenthal e Wittfogel restano negli Stati Uniti, mentre Adorno, Horkheimer e Pollock tornano a Francoforte, dove nel 1950 rinasce L'Istituto per la ricerca sociale.
Nella scuola di Francoforte si propone e sviluppa la teoria critica della società che avversa il tipo di lavoro della sociologia empirica americana...”
(Leggi tutto l’articolo in http://www.filosofico.net/erichfromm.htm )
- Immagini: Erich Fromm, il coraggio di essere, di Guido Ferrari, 1980
Erich Fromm è stato celebre psicoanalista e sociologo, autore di libri famosi. Questa sua intervista è una sorta di testamento. In essa Fromm ripercorre la sua vita di studioso. Un documento prezioso.
Il 18 marzo 1980 muore Erich Fromm.
Un brano musicale al giorno
Gian Francesco Malipiero, Sesta Sinfonia "degli archi" (1947)
I. Allegro
II. Piuttosto lento
III. Allegro vivo
IV. Lento ma non troppo
Orchestra nazionale Artes / Direttore: Andrea Vitello
“Gian Francesco Malipiero (Venezia, 18 marzo 1882 - Treviso, 1 agosto 1973) compositore italiano. Figlio di Luigi e di Emma Balbi, proveniva da una famiglia di musicisti: il padre era pianista e direttore d'orchestra, a sua volta figlio di Francesco, operista apprezzato da Gioachino Rossini. Dopo la separazione dei genitori, nel 1893, seguì il padre a Trieste, Berlino e Vienna; nel conservatorio di quest'ultima città, nel 1898, studiò armonia, ma non venne ammesso ai corsi di violino che studiava privatamente da otto anni. Tornato dalla madre a Venezia, tra il 1899 e il 1902 frequentò le lezioni di composizione al liceo musicale "Marcello" sotto la guida di Marco Enrico Bossi; quando questi passò al liceo musicale "Martini" di Bologna, proseguì gli studi da autodidatta.
Nel 1908 si reca alla Hochschule di Berlino per seguire alcuni corsi, mentre a Parigi entra in contatto con gli ambienti culturali, incontrando Casella, Ravel e D'Annunzio.
Dal 1921 al 1924 insegna al conservatorio di Parma. I suoi interessi per la musica antica italiana culminano nell'edizione completa delle opere di Claudio Monteverdi (16 voll. Asolo 1926-1942). Si ritira quindi per la prima volta ad Asolo per dedicarsi esclusivamente alla composizione.
Nel 1932 è insegnante nel Liceo musicale di Venezia (poi Conservatorio Statale), che dirigerà dal 1939 al 1952. Svolge anche attività didattica dal 1936 all'Università di Padova, città dove dirige l'Istituto Musicale Pollini.
Nel 1939 avviene la prima rappresentazione nel Teatro dell'Opera di Roma della sua commedia musicale in 1 atto "Il finto Arlecchino", su libretto del compositore, diretta da Tullio Serafin, con Tito Gobbi; nel 1941 la prima assoluta della tragedia lirica in 3 atti Ecuba, su libretto del compositore, diretta da Serafin, con Maria Carbone, Benvenuto Franci, Gobbi, Giuseppe Taddei ed Italo Tajo, per la regia di Corrado Pavolini, a Roma.
Nel 1952 si ritira nuovamente ad Asolo per dedicarsi alla composizione. Cessa definitivamente di comporre nel 1971. La morte sopraggiunge il 1º agosto del 1973 in un ospedale di Treviso.
Opere principali della sua prima fase creativa sono: Sinfonia degli eroi (1905), Sinfonia del mare (1906), Sinfonie del silenzio e della morte (1908) e l'opera Canossa (composta nel 1911, rappresentata a Roma nel 1914).
Le Impressioni dal vero per orchestra (I-III 1910, IV-VI 1915, VII-IX 1922) mostrano un orientamento verso una espressione più libera, analoga a quella che egli conobbe nelle opere di Debussy e Ravel, durante un suo lungo soggiorno a Parigi.
Malipiero è stato anche un ottimo prosatore, fine polemista, critico musicale, autore di raffinate memorie.
La sua produzione abbraccia i più diversi generi musicali, dalle sinfonie (undici numerate, oltre ad altre sei), ai concerti (sei per pianoforte, due per violino, uno per violoncello, uno per flauto, uno per trio con pianoforte), alla musica da camera, nella quale emergono gli stupendi otto quartetti per archi, che sono da annoverare tra le più insigni pagine del Novecento che siano state scritte per tale formazione, assieme a quelli di Béla Bartók e Dmitrij Šostakovič. Nel fittissimo corpus dell'opera di Malipiero spiccano anche gli otto Dialoghi, composti tra il 1955 e il 1957, destinati alle più differenti formazioni, dal semplice duo all'orchestra sinfonica con strumento solista.
Nella sua immensa produzione teatrale spiccano L'Orfeide (1925), che comprende le Sette Canzoni (1920 al Palais Garnier di Parigi come Sept chansons), il Torneo notturno (1931), I Capricci di Callot (1942), Le metamorfosi di Bonaventura (1966). Fu inoltre autore prolifico di musica corale e vocale da camera e di molti pezzi da camera per complessi diversi. In un catalogo così ampio, non mancano pagine di secondaria importanza.
Malipiero curò inoltre la pubblicazione dell'opera omnia di Claudio Monteverdi e contribuì alla valorizzazione dell'opera di Antonio Vivaldi, del quale, dal 1947, diresse l'edizione dell'opera omnia strumentale. Diede alle stampe libri sull'orchestra, sul teatro musicale, su Stravinskij e memorie. Il linguaggio musicale di Malipiero è caratterizzato da un'estrema libertà formale; egli, infatti, ripudiò sempre la disciplina accademica della variazione a favore dell'espressione più anarchica e fantastica del canto, oltre a evitare fortemente il rischio di cadere nel descrittivismo della musica a programma. Fino alla metà degli anni cinquanta Malipiero rimase legato a una scrittura diatonica e ampia, rifacentesi allo strumentalismo italiano pre-ottocentesco e alla melopea gregoriana, per spostarsi progressivamente verso territori espressivamente più inquieti e tesi, che lo avvicinarono al totale cromatico, senza però che avvenisse in lui la conversione verso la pratica dodecafonica (i suddetti Dialoghi sono una testimonianza di tale sperimentazione). Più che abbandonare del tutto il proprio stile precedente, l'autore fu capace di reinventarlo in maniera personalissima e con grande spirito di aggiornamento. Non è difficile intravedere, in alcune pagine tarde, suggestioni provenienti dagli allievi Luigi Nono o Bruno Maderna.
Nonostante il suo isolamento artistico, Malipiero ebbe contatti con i massimi compositori del '900, come Igor' Fëdorovič Stravinskij, Ernest Bloch, Charles Ives, Luigi Dallapiccola (che lo riconobbe come maggior genio musicale dopo la morte di Giuseppe Verdi), Hindemith, Sessions, Luciano Berio e, pur senza dar vita a una vera e propria scuola, ha lasciato un segno profondissimo e inconfondibile nella cultura musicale italiana. Fu zio del compositore Riccardo Malipiero.”
(In wikipedia.org)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.
È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.
Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.
“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”
(Wikipedia)
“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”
(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)
“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.
(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)
“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”
(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)
“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)
“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.
(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)
Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/
Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0
https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs
https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4
https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk
Una poesia al giorno
Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l'anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
Nous serons
N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents
N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.
Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.
Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible
Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.
Unis par le plus fort et le plus cher lien,
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.
Sans nous préoccuper de ce que nous destine
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?
Un fatto al giorno
17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.
(da Focus)
Una frase al giorno
“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”
(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)
Un brano al giorno
Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k