“L’amico del popolo”, 19 settembre 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

THE CIRCUS (USA, 1928) scritto, diretto, montato e prodotto da Charlie Chaplin. Fotografia: Roland Totheroh. Musiche: Charlie Chaplin, Eric James, Günter Kochan (1969). Cast: Charlie Chaplin: il vagabondo. Merna Kennedy: la figlia del padrone del circo. Allan Garcia: il padrone del circo. Harry Crocker: Rex l'acrobata. Henry Bergman: clown. John Rand: clown. Armand Triller: clown. Stanley Sandford: capo attrezzista. George Davis: l'illusionista. Betty Morriseey: la donna fantasma. Steve Murphy: il borsaiolo. Bill Knight: il poliziotto. Jack P. Pierce: l'attrezzista alle corde.

Una tranquilla visita del vagabondo alla fiera rischia di trasformarsi in un mare di guai. Un borsaiolo, vistosi scoperto dalla sua vittima, si disfa della refurtiva nascondendola nelle tasche di un ignaro Charlot. Questi tenta di discolparsi ma poi è costretto a fuggire dai poliziotti, entrando dapprima in un labirinto degli specchi, poi sostituendosi a degli automi, dei quali imita alla perfezione i movimenti meccanici, ed infine irrompendo al centro della pista di un circo durante l'esibizione di un improbabile e maldestro illusionista. Con la propria comparsa e la goffaggine del suo comportamento Charlot provoca le fragorose risate del pubblico, piacevolmente sorpreso dall'improvviso sviluppo comico del numero di magia.

THE CIRCUS (USA, 1928) scritto, diretto, montato e prodotto da Charlie Chaplin

Lo scarso livello qualitativo degli artisti e la conseguente precaria condizione economica del circo suggeriscono al proprietario di assumere l'artefice del ritrovato entusiasmo degli spettatori, cioè Charlot. Egli viene iniziato ai rudimenti dell'arte del clown, ma con risultati assolutamente deludenti e controproducenti che decretano la sua mancata assunzione. L'improvviso sciopero degli inservienti del circo vale il reintegro del vagabondo nell'organico in qualità di attrezzista. In questo modo egli ha l'occasione, involontariamente, di rivelare nuovamente la sua capacità di far ridere il pubblico con il proprio comportamento sconclusionato. Lo scaltro proprietario, accortosi della sua comicità inconsapevole, decide di sfruttare Charlot come buffone per risollevare le sorti del suo circo, ma senza riconoscergli nulla.

Charlot stringe amicizia con la bella figlia del padrone e se ne invaghisce. Sarà la ragazza ad aprirgli gli occhi sulla situazione del suo impiego sottopagato e ad incoraggiarlo a rivendicare dignità e salario. L'arrivo di un nuovo artista, l'equilibrista Rex, e gli sguardi languidi lanciatigli dalla ragazza destano la gelosia del vagabondo che prova ad emulare di nascosto il rivale alla corda sospesa, fin quando non sarà sorpreso dal principale. La disillusione amorosa azzera il potenziale del vagabondo, il cui numero non fa più divertire il pubblico, ma soltanto arrabbiare il padrone.

L'occasione di rivalsa gli si offre quando deve sostituire l'equilibrista, temporaneamente introvabile, nel suo spettacolo alla corda. La sfortuna, l'imperizia e l'accanimento di alcune scimmiette dispettose, che quasi provocano la sua caduta, compromettono la riuscita del numero che il vagabondo aveva furbamente preparato con la complicità di un addetto alla corda, il quale avrebbe dovuto sostenerlo in sicurezza durante le evoluzioni acrobatiche. Il venir meno di questo accorgimento e - soprattutto - un litigio con il principale, decretano definitivamente il licenziamento del vagabondo.

La ragazza, continuamente vessata dal padre, fugge dal circo raggiungendo Charlot il quale, consapevole dei sentimenti di lei, predispone un piano affinché Rex la sposi e la sottragga alle angherie paterne. La condizione perché i due artisti ora sposi riprendano il loro posto nella compagnia del padre di lei, che non può rinunciare alle loro esibizioni, è la riassunzione del vagabondo che, però, declina l'offerta e in solitudine assiste alla partenza dei carrozzoni circensi. Una volta scomparsi all'orizzonte egli si avvia mestamente, ma dignitosamente, incontro ad una nuova avventura.

THE CIRCUS (USA, 1928) scritto, diretto, montato e prodotto da Charlie Chaplin

“(...) nel successivo The Circus (...) Chaplin dà ampio risalto, forse per la prima volta, al suo antagonista istituzionale, il Padrone. La figura del Direttore del Circo è tutt'altro che comica: è questi che maltratta Merna, con modi che rimandano a certe descrizioni dickensiane; è questi che, quando Charlot fa il "numero" sul filo e un inserviente mormora «Si ucciderà», risponde «Niente paura. L'ho assicurato». Figura tutta d'un pezzo, essa chiarisce i limiti ideologici del discorso chapliniano, il suo scivolare verso tentazioni idealistiche; se in The Gold Rush il Capitale o, meglio, il denaro trovava una significativa convergenza di significanti con la Natura, configurando in questo modo l'altro come totalità extrastorica, qui l'altro si identifica con il Potere: non un meccanismo sociale, ma un'entità assoluta - alla quale si oppone la libertà naturale di Charlot (questi infatti non ha coscienza del proprio ruolo subordinato, accetta la situazione nella misura in cui questa gli permette di sopravvivere). Quando si ribella, lo fa per uno di quei gesti folli che lo contraddistinguono: rifiutato implicitamente da Merna, che ama l'equilibrista Rex, la aiuta a realizzare il suo "sogno d'amore". Da questo momento il timido, introverso, pauroso Charlot si trasforma in un uomo cosciente dei propri diritti, battagliero, generoso. Ciò non toglie che la trasformazione rimanga chiusa in un ambito individualistico: Charlot è colui che può aiutare gli altri, ma non è mai colui che si unisce agli altri. E The Circus si chiude ancora una volta sulla sua solitudine.

Il film si sviluppa, contrariamente a The Gold Rush, su un filo poco omogeneo, frequentemente frammentato, come «un meccanismo frenato, sorto per combinazioni successive, pezzo per pezzo» (Baldelli). Tutta la sequenza iniziale (il furto e l'inseguimento nel Luna Park) potrebbe costituire una comica a sé, di tipo keystoniano - tosi come alla tradizione Keystone appartengono i numerosi gag con gli animali che costellano il film: il mulo che perseguita Charlot; Charlot chiuso nella gabbia del leone; il cane che abbaia svegliando il leone; il gatto che impaurisce Charlot appena sfuggito al pericolo; le scimmie. Essi diventano però autentici portatori d'incubo. L'ambiente del circo è un universo assurdo, dominato dall'irrazionale e dalla violenza: irrazionale (gli animali) e violenza (il direttore) sono le facce complementari della stessa mostruosità. Nella struttura di apparenza tradizionale dei gag è sempre in gioco qualcosa che esce dalla connotazione specifica dei rapporti umani; la stessa lotta per la sopravvivenza, che nel primo incontro con Merna restituisce a Charlot la sua misura di egoismo e perciò di umanità, viene successivamente dilatata; nella lunga sequenza sui filo (nel finale) il pericolo assume dimensioni apocalittiche; il filo oscillante e le scimmie si traducono in lancinante (e non più comica) parafrasi della vita, che attraverso il comico viene restituita alla sua naturale tragicità. La scelta di Charlot di essere equilibrista, malgrado gli infantili tentativi di proteggersi dai rischi di una caduta disastrosa, diventa immagine virtuale di un suicidio, negazione della vita contenuta in ogni gesto della vita stessa. Forse Chaplin non è mai stato (e non sarà mai più) così pessimista: da questo pessimismo nasce la solitudine come orgogliosa vittoria dell'individuo, che lascia che la società (il circo) proceda da sola - non senza dolore, certo, ma con la convinzione che in fondo sia meglio così.

Questo procedere per concetti astratti fa di The Circus una delle opere chapliniane più istintive e immediate, disperate e vaghe, precorritrice di Limelight e della vittoria (solo in parte mediata dall'ironia) del "cuore" sulla "mente". E non è un caso che, proprio come Limelight, The Circus sia uno dei film in cui l'autobiografia sia più trasparente. Innanzitutto entrambi sono discorsi sul comico: qui Chaplin ne sottolinea le esigenze di spontaneità (durante le prove Charlot è un disastro, solo nell'improvvisazione di fronte al pubblico riesce a far ridere); poi non deve portare dentro di sé la tristezza, ma usarla come una molla nascosta (il pathos come molla del comico e non come compresenza). Entrambi i film hanno come protagonista un attore, con i suoi problemi, il recupero del sentimento come sola forma esternata dell'arte; entrambi si chiudono con una rinuncia, che ha il tono della sconfitta solo in quanto la sconfitta è una misura costante della vita e si può quindi, rovesciando la prospettiva, uscirne paradossalmente vincitori.

The Circus racconta inoltre dell'arrivo di Chaplin negli USA (il circo) e i suoi esordi cinematografici. Egli giustifica se stesso di fronte alle mediocrità imposte da Sennett e si attribuisce il ruolo di rinnovatore del cinema comico americano (il circo torna ai suoi splendori solo grazie alla freschezza delle "trovate" di Charlot). Ma la condizione dell'artista è sempre solitudine e lotta: egli gioca su un filo, aggredito convulsamente da scimmie che vogliono farlo cadere e può salvarsi solo rifiutandosi a chi in fondo non ha saputo accoglierlo. Il film nasce probabilmente in un periodo particolare della vita di Chaplin, in cui le vicende sentimentali hanno un peso non trascurabile. L'autobiografismo diventa così autogiustificazione, moto compassionevole verso se stesso e ribellione presuntuosa e sprezzante. Questo Charlot non ha più molto del piccolo uomo debole e indifeso di altre opere: Chaplin lo trasforma, pur conservandone gli aspetti patetici del perseguitato, del timido, dell'introverso, in una sorta di genio incompreso cui non è riservata quella libertà individuale e quella serie di privilegi che avevano sostenuto i surrealisti in Hands of Love. Ma The Circus nasce soprattutto in un momento particolare della storia del cinema, mentre si comincia ad affermare clamorosamente il sonoro. Per il momento Chaplin sembra semplicemente accantonare il problema del nuovo medium, ma sia The Gold Rush che The Circus ribadiscono l'appartenenza del cinema chapliniano al mondo del muto e della pantomima. (...)”

(Giorgio Cremonini in “Charlie Chaplin”, Il Castoro Cinema, 1978)

Lo stesso Cremonini, anni dopo nel 1995 scriverà su una riedizione del Castoro: "The Circus è una delle opere chapliniane più istintive e immediate, disperate e vaghe, precorritrici di Limelight (Luci della ribalta) e della vittoria (solo in parte mediata dall'ironia) del "cuore" sulla "mente". E non è un caso che, proprio come Limelight, The Circus sia uno dei film in cui l'autobiografia sia più trasparente. Innanzi tutto entrambi sono discorsi sul comico: qui Chaplin ne sottolinea le esigenze di spontaneità (durante le prove Chaplin è un disastro, solo nell'improvvisazione di fronte al pubblico riesce a far ridere); poi non deve portare dentro di sé tristezza, ma usarla come una molla nascosta. ... Entrambi i film si chiudono con una rinuncia, che ha il tono della sconfitta solo in quanto la sconfitta è una misura costante della vita e si può quindi, rovesciando la prospettiva, uscirne paradossalmente vincitori."

Il film:

19 settembre 1952: Gli Stati Uniti impediscono a Charlie Chaplin di rientrare nel paese dopo un viaggio in Inghilterra.

THE CIRCUS (USA, 1928) scritto, diretto, montato e prodotto da Charlie Chaplin

 

Una poesia al giorno

Febbraio (1 febbraio 1842), di Harthley Coleridge

Un mese è passato, un altro è cominciato
Da quando allegre campane festeggiarono l’anno morente,
E germogli di molto raro verde cominciarono a spuntare,
Come impazienti di un sole più caldo;
E benché le lontane colline siano brulle e spoglie di colore,
Il virgineo bucaneve, come un guizzante fuoco,
Penetra la fredda terra con la sua verde screziata cuspide
E nei boschi oscuri il piccolo vagabondo
Può trovare una primula.

Hartley Coleridge (David Hartley Coleridge, 19 settembre 1796 - 6 gennaio 1849)

Hartley Coleridge (David Hartley Coleridge, 19 settembre 1796 - 6 gennaio 1849) fu un poeta, un biografo, un saggista e un insegnante inglese, il cui talento ribelle ha trovato espressione nei suoi sonetti, abili e sensibili. Era il figlio maggiore del poeta Samuel Taylor Coleridge. Sua sorella Sara Coleridge era poetessa e traduttrice e suo fratello Derwent Coleridge era uno studioso e un autore. Entrò a Oxford nel 1815 e nel 1819 ottenne una borsa di studio Oriel, ma dopo un anno la perse per un consumo incontrollato e la mancanza di applicazione. Nel 1820 iniziò il lavoro letterario a Londra e contribuì alla Rivista di Londra, ma di nuovo l'instabilità interruppe una carriera promettente. Nel 1833 Coleridge tornò al Lake District a Grasmere, dove, con due brevi intervalli di insegnamento a Sedbergh, visse fino alla sua morte.

(In www.britannica.com)

 

Un fatto al giorno

19 settembre 1868: La Gloriosa inizia in Spagna. “La Rivoluzione spagnola o La Gloriosa, conosciuta anche come La Settembrina, fu un'agitazione spagnola che avvenne nel settembre del 1868, che comportò la detronizzazione della regina Isabella II e l'inizio del periodo denominato Sessennio democratico.

Il governo provvisorio

A metà degli anni 1860, il malcontento contro il regime monarchico di Isabella II era evidente tra gli ambienti popolare, politico e militare. Il moderatismo spagnolo, al potere dal 1845, si trovava di fronte ad una forte crisi interna e non era stato in grado di risolvere i problemi del paese. La crisi economica era ancora più grave dopo la sconfitta nella Guerra ispano-sudamericana e le rivolte, come quella condotta da Juan Prim nel 1866 e la rivolta dei sergenti di San Gil, si moltiplicavano. Durante l'esilio, liberali e repubblicani si accordarono con il Patto di Ostenda (1866) ed a Bruxelles (1867) in modo da creare maggiori disordini per ottenere un drastico cambiamento di governo, non tanto per sostituire il presidente Narváez, quanto con l'obiettivo ultimo di destituire la stessa Isabella II e bandirla dal trono spagnolo. La Regina e lo stesso regime monarchico erano divenuti bersaglio delle critiche scaturite dai principali problemi del paese. Alla morte di O'Donnell nel 1867, si verificò un'importante migrazione di simpatizzanti dell'Unione Liberale, che propugnava la destituzione di Isabella II e la sua sostituzione con un governo più favorevole alle loro posizioni. A settembre 1868 la sorte della corona era già decisa. Le forze navali con base a Cadice, comandate da Juan Bautista Topete y Carballo, si ammutinarono contro il governo di Isabella II. La rivolta avvenne nello stesso luogo in cui cinquant'anni prima il generale Riego si era rivoltato contro il padre della regina, Ferdinando VII.

Diverse forze erano in gioco: mentre i militari si manifestavano monarchici e pretendevano solo di sostituire la Costituzione ed il monarca, le Giunte, più radicali, mostravano la loro intenzione di raggiungere una vera rivoluzione borghese, basata sul principio della sovranità nazionale. Partecipavano anche gruppi contadini andalusi, che aspiravano alla Rivoluzione Sociale.
Sia il presidente Ramón María Narváez sia il suo ministro capo Luis González Bravo abbandonano la regina. Narváez morirà lo stesso anno, facendo penetrare la crisi nei settori moderati. I generali Prim e Francisco Serrano denunciarono il governo e gran parte dell'esercito disertò, passando dalla parte dei generali rivoluzionari al loro rientro in Spagna.

Il movimento iniziato in Andalusia si estese velocemente ad altri luoghi del paese, senza che le truppe del governo facessero seriamente fronte alle ribellioni. L'appoggio di Barcellona e di tutta la zona mediterranea fu decisivo per il successo della rivoluzione. Nonostante la dimostrazione di forza della Regina nella Battaglia di Alcolea, i fedeli del generale Manuel Pavía vennero sbaragliati dal generale Serrano. Isabella si vide quindi obbligata all'esilio ed attraversò la frontiera della Francia, dalla quale non tornerà più.
A partire da questo momento e per sei anni (1868-1874) si cercherà di creare in Spagna un sistema di governo rivoluzionario, conosciuto come Sessennio democratico, finché il fallimento finale (che rischiava di costare l'esistenza della Spagna come nazione) portò di nuovo al potere i moderati....”

(Articolo completo in Wikipedia.org)

 

Una frase al giorno

“Nell’estate del ’41, amici della conceria mi fecero mangiare per la prima volta carne di cane senza dirmi cosa fosse. Dopo di che, lo feci consapevolmente”.

(Witold Pilecki, Olonec, 13 maggio 1901 - Varsavia, 25 maggio 1948, in “Il volontario di Auschwitz”)

Witold Pilecki (Olonec, 13 maggio 1901 - Varsavia, 25 maggio 1948)

Witold Pilecki è stato un militare polacco. Durante la seconda guerra mondiale è stato uno degli organizzatori della resistenza ad Auschwitz. Nel settembre 1940, con il permesso dei suoi superiori, si fece arrestare dalla Gestapo e fu internato nel campo di concentramento di Auschwitz per organizzarvi una rete di resistenza e inviare un rapporto sulla situazione nel campo. Un anno dopo Pilecki riuscì a far filtrare il suo rapporto all'esterno. Il 18 marzo 1941 giunse sui tavoli dell'Ufficio VI dello Stato maggiore dell'esercito polacco in esilio, che lo girò immediatamente agli inglesi. Essi però giudicarono il documento “esagerato”. Pilecki rimase ad Auschwitz quasi mille giorni...”

(Wikipedia)

Il Volontario di Auschwitz

“Se vi aspettate di leggere un romanzo avvincente, ben scritto, con una trama e dei colpi di scena immersi in una narrazione fluente, allora non è al Volontario di Auschwitz che dovete rivolgervi.
La frase riportata sul retro del libro rende esattamente merito a quello che vi troverete: un documento di enorme importanza. Frasi, pagine scritte non col pensiero di avere un pubblico davanti da intrattenere, ma con l’idea di tramandare nel Tempo qualcosa che pericolosamente potrebbe essere altrimenti cancellato dal Tempo stesso. Il 19 settembre 1940 Witold Pilecki si fa arrestare volontariamente per essere mandato ad Auschwitz: questo libro è il rapporto dei circa 1000 giorni trascorsi nel campo.
Riassumerlo sarebbe riduttivo. Probabilmente chiunque stia leggendo queste righe ha notizia di nozioni come “camere a gas”, “rappresaglie”, “SS” o “forni crematori”. Ma abbandonare queste parole ad un qualunque libro di storia rischia di renderle ripetibili e banali nelle nostre menti, perlomeno di chi non ha vissuto davvero quell’epoca, al pari di “centurioni”, “triumvirato” o altri termini cui attribuiamo l’etichetta di “passato” e accumuliamo da qualche parte. Leggere il rapporto di qualcuno che ha vissuto ad Auschwitz ed è riuscito a fuggirne cambierà sicuramente almeno una parte della prospettiva che fino ad oggi vi siete fatti su quello che poteva accadere lì dentro.
“Si mettevano d’accordo e ognuno metteva una banconota su un mattone. Poi seppellivano un detenuto a testa in giù nella sabbia [...] e, controllando gli orologi, contavano per quanti minuti le sue gambe continuavano a muoversi” (p. 103). “Nell’estate del ’41, amici della conceria mi fecero mangiare per la prima volta carne di cane senza dirmi cosa fosse. Dopo di che, lo feci consapevolmente” (pag. 137). “Furono fatti dei tentativi di produrre sperma maschile artificiale, ma i risultati furono del tutto negativi. Iniettando il surrogato di sperma prodotto artificialmente si causavano delle infezioni. Le donne sule quali si effettuavano quegli esperimenti venivano poi eliminate col fenolo” (pag. 253).

Sì, è effettivamente molto diverso dal leggere un libro di storia.

Le prime 200 pagine del libro sono di una crudezza impressionante. Ripeto, non pensate di trovarvi di fronte a un romanzo. Lo stile del rapporto è evidente: frasi brevi, persone chiamate per numero e non per nome, dettagli tecnici sull’organizzazione gerarchica del campo. E, costantemente, tutto è circondato da Morte. Si può leggerne una parte, poi appoggiare il libro e magari sbagliare pagina quando lo si riapre; poco importa, si è sicuri che comunque si leggerà di Morte. Quella che accadeva ogni giorno, quella che qualcuno iniziava addirittura ad invocare, piuttosto di subire la non-Vita del campo. Poi, incredibilmente, nelle ultime 50 pagine, e a partire dall’inizio del ’43, emergono anche note di... buonumore.

“Nei blocchi si svolgevano incontri di pugilato e serate culturali... (pag. 246); “ora che il regime del campo era meno rigido i detenuti cominciarono ad avere rapporti con le donne” (pag. 279). Si assiste a un cambiamento nella gestione del campo: non più Vernichtunsglager, campo di sterminio, ma arbeitslager, campo di lavoro. Ciò nonostante, “il numero di individui portati quotidianamente alla camera a gas arrivava a 8000” (pag. 274), OTTOMILA, come fosse la normalità. E’ incredibile leggere come l’uomo sappia adattarsi e ricercare qualche motivo di contentezza anche in situazioni cosi estreme. Sul motivo del cambiamento Pilecki non si esprime; inizio di una sorta di aiuto al negazionismo venuta da alti livelli? Non ci è dato saperlo. Ma quello che avrete letto fino a quel momento non riuscirete più a cancellarlo, qualunque cambiamento incontrerete nelle pagine successive.

La fuga da Auschiwtz, sulla cui possibilità prima di leggere questo libro non avevo mai riflettuto, è il primo e unico e ultimo momento del rapporto in cui sembra tramutarsi in un romanzo. Non più numeri ma nomi dei compagni di avventura, non più morte ovunque, ma speranza di vita. Uscendo dal campo Pilecki e i suoi compagni riacquistano la dimensione del Tempo che era sempre mancata dentro ad Auschwitz e che non aveva permesso di narrare, ma solo di annotare.

Il tono del rapporto libera da ogni autocelebrazione un uomo che a buon diritto è stato successivamente definito un eroe. Un libro che sconvolge, che parla anche da chiuso, un libro da far leggere soprattutto a chi, a scuola, sta affrontando per la prima volta il tema, rischiando di relegare nella stessa parte di pensiero dove ammucchierà “triumvirato” e “centurioni”. Ma un libro che in realtà dovrebbero leggere tutti. Per non dimenticare.”

(In www.gliamantideilibri.it)

 

Un brano musicale al giorno

Robert Casadesus (1899-1972), Suite per orchestra No. 2 in Mi bemolle maggiore (1939). Cleveland Orchestra. Direttore: George Szell

1- Overture (3.32)
2- Nocturne (4.34)
3- Scherzo (2.25)
4- Choral I (1.45)
5- Dance (4.17)
6- Choral II (2.00)

Robert e Gaby Casadesus

Robert Casadesus (7 aprile 1899 - 19 settembre 1972) è stato un rinomato pianista e compositore francese del XX secolo. Era il membro più importante di una famosa famiglia musicale, essendo il nipote di Henri Casadesus e Marius Casadesus, marito di Gaby Casadesus e padre di Jean Casadesus. Studiò al Conservatoire de Paris con Louis Diémer, ottenendo il Premier Prix nel 1913 ed il Prix Diémer nel 1920. Entrò poi a far parte della classe di Lucien Capet, che ebbe una grande importanza nella sua formazione di pianista. Capet fondò un famoso quartetto che portava il suo nome, nel quale suonarono gli zii di Robert, Henri e Marcel.
I componenti del quartetto provavano spesso a casa di Robert e fu così che egli si interessò presto alla musica da camera. I quartetti di Beethoven non avevano segreti per lui, visto che li conosceva profondamente prima ancora di averli suonati.
A partire dal 1922, Casadesus collaborò con il compositore Maurice Ravel, nella stesura del catalogo delle sue opere, ed eseguì concerti, dividendo il palcoscenico con l'amico, in Francia, Spagna ed Inghilterra.
Casadesus girò il mondo per la sua attività di pianista, spesso in duo con la moglie Gaby, che aveva sposato nel 1921.
Dal 1935 Casadesus insegnò all'American Conservatory di Fontainebleau. Passò, assieme alla sua famiglia, il periodo della seconda guerra mondiale interamente negli Stati Uniti. Egli visse a Princeton nel New Jersey. Insegnò ad un grande numero di futuri pianisti, in tutta Europa, fra i quali si ricordano Claude Helffer e Monique Haas.
Il suo stile esecutivo ricalcava quello classico con un delicato approccio alla linea melodica delle composizioni. Egli fu un fine interprete delle musiche di Mozart. Fra le sue molte incisioni si ricordano opere di Ravel, e la sonata per violino e pianoforte a Kreutzer di Beethoven da lui eseguita con il violinista Zino Francescatti e riproposta poi in DVD.
Casadesus eseguì, assieme a sua moglie Gaby ed al loro figlio Jean i concerti di Mozart per 2 e 3 pianoforti. Registrarono questi concerti con la Columbia Symphony e la Cleveland Orchestra dirette da George Szell oltre che con l'Orchestra Sinfonica di Filadelfia diretta da Eugene Ormandy per la Sony Classical.»

(Wikipedia)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k