L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
IL FIACRE N. 13 (Episodio I: Il delitto al Ponte di Neuilly; Episodio II: Gian Giovedì; Episodio III: La figlia del ghigliottinaio; Episodio IV: Giustizia! Italia, 1917), regia: Alberto Capozzi, Gero Zambuto. Soggetto: Xavier de Montépin. Sceneggiatura: Giuseppe Paolo Pacchierotti. Casa di produzione: Ambrosio Film. Fotografia: Giovanni Vitrotti. Cast: Alberto Capozzi: l'apache Gian Giovedì. Helena Makowska: Berta Varny. Gigetta Morano: la figlia del ghigliottinato. Fernanda Negri Pouget: la demente. Cesare Gani Carini: Renato Moulin. Vasco Creti: duca George de Latour. Umberto Scalpellini: il vetturino.
Il duca Giorgio de Latour-Vaudier, che ha dissipato tutti i suoi averi nelle sale di gioco, diventa, istigato dalla sua amante Berta Varny, un pericoloso delinquente. Assieme a Berta e l’apache Gian Giovedì, decide di eliminare suo fratello, il duca di Latour, ed il suo bambino. Ma, al momento dell’esecuzione, Gian Giovedì, che cela sotto l’aspetto rude un cuore generoso, invece di uccidere il piccolo, lo nasconde in un fiacre: Il fiacre n° 13.
Giorgio e Berta godranno a lungo il frutto della loro infamia, ma verrà il momento in cui la Nemesi vendicatrice si abbatterà su di loro, che hanno accumulato delitti su delitti: Berta si toglierà la vita, Giorgio diventerà pazzo: il bambino nascosto nel fiacre n° 13, ormai divenuto un uomo, ritornerà in possesso delle ricchezze usurpategli.
“Questo è il sunto del quarto episodio di Il fiacre n. 13, film tratto dall’omonimo romanzo edito nel 1881 da Xavier de Montépin, autore francese di romanzi d’appendice in voga quegli anni. Nel film l’influenza del feuilleton e del genere poliziesco francese c’è e si vede; è inoltre inevitabile non fare un confronto con un altro serial italiano contemporaneo quale I topi grigi di Emilio Ghione: l’ambientazione parigina (in realtà gli studi torinesi della Ambrosio), i costumi, i sotterfugi, la donna da salvare. Insomma, praticamente una versione un po’ più benestante di Za la Mort che, per spostarsi da una bettola all’altra, non potendo permettersi una carrozza, preferiva andare a piedi (come scordarsi gli ultimi, lunghi fotogrammi di Dollari e frack…) o adoperando una più comoda Lancia.
Peccato aver visionato all’archivio audiovisivi della Cineteca di Bologna solamente il quarto episodio Giustizia! (*) l’unico insieme a Gian Giovedì, il secondo, ad essere completamente risparmiato dalle lame della censura (Il delitto al Ponte di Neuilly non venne nemmeno distribuito). Tant’è che vedere un film solo nella sua parte finale comprendendo molto poco di quanto accaduto prima non è proprio il massimo. Se si vuole, l’unico vantaggio che il cinema muto italiano offre (degli anni Dieci almeno) è che mediamente il cast di un lungometraggio comprende sì e no una decina di interpreti; pertanto, grazie anche alla cospicua presenza di didascalie esplicative che danno un ritmo serrato alla narrazione, non è stato così complicato tessere le fila della storia.
Le Fiacre N.13 è il celebre adattamento cinematografico in quattro parti del famoso romanzo di Xavier de Montépin, edito nel 1881. Uno dei massimi esempi di serial poliziesco cinematografico degli anni ’10, avente moltissimi punti in comune con altri prodotti simili di matrice europea, tra cui il serial francese Fantômas di Louis Feuillade e, soprattutto, I Topi Grigi di Emilio Ghione.
Il serial è incentrato sulle vicissitudini del duca Sigismondo de Latour Vaudieu, il quale sposa in segreto la sua amata Ester Derieux per legittimare il bambino nato dalla loro unione. Ma, Giorgio, fratello del duca, e la sua amante, Claudia Varny, tramano per eliminare ogni possibile erede; per questo i due decidono di uccidere il neonato e la madre.
Ambientato in un contesto aristocratico, il duca George de Latour (Vasco Creti), insieme all’amante Berta (Helena Makowska) vuole interrompere una volta per tutte l’agiatezza famigliare del fratello che ha appena avuto un erede, intascandosi così tutti i suoi beni, ingaggiando l’apache Gian Giovedì (Alberto Capozzi). Da qui parrebbe esserci tutto un susseguirsi di sottotrame e personaggi secondari che col passare degli episodi acquisiscono una maggior fisionomia e psicologia, così come certi rapporti svelati solo in Giustizia!
Dico parrebbe per i motivi spiegati sopra. Ho intenzione di approfondire il tutto andando alla ricerca degli altri tre episodi della “carrozza sventurata”: prego i lettori di considerare questo breve articolo come un preludio a quello che verrà, o come input per cercare insieme a me i restanti episodi.”
(In emutofu.com)
- Il film: El coche nº 13 (1917 Italia, Capozzi y Gambuto), Il fiacre nº 13
Un’attrice: 2 agosto 1887 nasce Gigetta Morano, attrice italiana (morta nel 1986)
“Luigia "Gigetta" Morano (Verona, 2 agosto 1887 - Torino, 11 ottobre 1986) attrice italiana. Nata a Verona, seguì giovanissima la famiglia a Torino, dove il padre, veterinario militare, era stato trasferito. A soli 17 anni, contravvenendo ai rigidi principi dell'ambiente di origine che considerava sconveniente l'attività di attrice, iniziò a frequentare compagnie teatrali filodrammatiche, sino a rompere definitivamente i rapporti con la famiglia, imitata in questa sua passione dalla più giovane sorella Cesira che, tuttavia, morirà giovanissima, a soli vent'anni, nel 1913. Entrò poi nella compagnia teatrale di Ermete Novelli, Nel 1908, durante una pausa dell'attività teatrale, incontra Luigi Maggi, che le propone di entrare alla "Ambrosio Film", società di produzione cinematografica costituita tre anni prima ed allora in fase di pieno sviluppo, che reclutava gli attori necessari alla propria attività essenzialmente nell'ambiente delle filodrammatiche torinesi. Nel teatro di posa ancora improvvisato alla barriera Nizza la Morano viene affiancata a Robinet e qui interpreta la sua prima comica, un cortometraggio dal titolo Un signore che soffre il solletico, con esterni girati al Parco del Valentino, in cui impersona una donna di strada che abborda un distinto signore che passeggia nei viali. La prova è convincente e da quel momento la Morano lascia il teatro ed entra a far parte della "Ambrosio" con la quale, in un'epoca caratterizzata da una frenetica mobilità di attori e registi tra le varie aziende, resterà sino al 1920, tranne una breve parentesi nel 1917 alla "Corona Film".
Nel 1910 la "Ambrosio", che in precedenza aveva prodotto ogni anno soltanto una dozzina di comiche, ma senza che fossero incentrate su un particolare interprete, decide di ampliare anche in questo settore la sua produzione, per cui tali pellicole passano dalle 13 del 1909 alle 43 del 1910 per diventare 60 del 1911 e 77 del 1912. Per seguire lo stile della "Itala Film", che nel 1909 aveva creato "Cretinetti" con cui aveva realizzato una ventina di cortometraggi di grande successo, sviluppa analoghi personaggi, cioè "Fricot" e "Robinet" (affidato all'attore spagnolo Marcel Fabre) e, in qualche caso, ricorrendo anche alla bambina Maria Bay (Firulì). L'intuizione della "Ambrosio" è quella di affiancare a quelli maschili già noti anche un personaggio comico femminile ed è così che la Morano diventa, come "Gigetta", la prima attrice comica del cinema italiano.
Ma negli oltre 100 film interpretati dalla Morano per la "Ambrosio" negli anni che precedono l'entrata in guerra dell'Italia, non ci sono solo pellicole di genere comico, bensì anche storico e drammatico. E quanto alle prime non è solo la protagonista assoluta della serie di "Gigetta", ma anche di opere di derivazione teatrale o letteraria come Santarellina (noto anche come Mam'zelle Nitouche e per aver avuto un grande successo di pubblico e di critica a livello internazionale, La Bisbetica domata o Il matrimonio di Figaro.
Alla Morano vengono affidati anche alcuni dei ruoli più importanti in film come Promessi sposi, realizzato in concorrenza con la contemporanea edizione della "Pasquali", il Granatiere Roland e la Gerla di Papà Martin. Partecipa anche ad alcune pellicole dirette da Mario Caserini, nel breve periodo in cui, lasciata la Cines romana, egli si trasferisce a Torino presso la "Ambrosio", e ad altre realizzate da Luigi Maggi, colui che l'aveva convinta a lasciare il teatro per il cinematografo. Ma nella stragrande maggioranza delle sue pellicole ha al suo fianco - anche come regista - Eleuterio Rodolfi. Il successo della loro coppia artistica e professionale (la Morano ha sempre negato che fosse anche sentimentale) era tale che presso la "Ambrosio" vi era una troupe esclusivamente dedicata alla produzione dei loro film.
Del resto la considerazione che Ambrosio aveva nei confronti di questa attrice era tale che fu lei ad essere inviata, sempre con Rodolfi, in Spagna, quando la casa torinese volle rispondere ad una iniziativa della concorrente "Cines" di aprire canali produttivi e distributivi nella penisola iberica. Il gruppo si reca a Barcellona e Siviglia, dove vengono anche girati alcuni film tra cui Il matrimonio di Figaro. Fiducia ricambiata dalla Morano che ricorderà sempre con affetto gli anni del suo lavoro alla "Ambrosio" convinta che fosse «una grande famiglia, tutta di amici», nonché esempio di correttezza anche sotto l'aspetto economico. Così l'attrice non abbandonerà l'azienda neanche quando il suo partner di tante pellicole, Rodolfi, se ne andrà per costituire una sua casa di produzione.
Già in difficoltà durante gli anni della Guerra, la cinematografia italiana entra dopo la conclusione del conflitto in una crisi irreversibile a causa della quale l'attività della "Ambrosio", e con essa la carriera della Morano, si arrestano: parteciperà solo a pochissimi film dal 1917 al 1921, anno del suo ritiro. Tenterà in qualche caso il rientro negli anni del sonoro, due volte con Fellini ne I vitelloni ed in 8½, più altre due pellicole meno note, ma sarà un'esperienza che lei stessa riterrà deludente.
Da tempo ritiratasi presso una casa di riposo per artisti, ha ricevuto in molte occasioni studiosi o critici interessati a registrare le sue testimonianze sul periodo del cinema muto torinese, rievocando gli anni del suo successo con lucidità ed ironia, ma anche con qualche nostalgia perché esso l'avrebbe privata della possibilità di avere una famiglia. Muore poche settimane dopo aver compiuto 99 anni ed è sepolta nel Cimitero monumentale di Torino.
Gli storici del cinema hanno messo in risalto della Morano soprattutto la capacità di primeggiare in un genere, quello comico, lontano dal linguaggio del "divismo" e dai comportamenti da "donne "fatali" che caratterizzavano le attrici cinematografiche di quel periodo. Già negli anni Venti veniva infatti definita come «una donna eccezionale che ha fatto ridere milioni di spettatori». Molti anni dopo i commenti hanno riguardato anche la sua grande versatilità, in quanto «attrice dalla grazia birichina e dalla verve indiavolata, brava sia come effervescente Santarellina che come dolce e tenera Lucia Mondella». Della imponente filmografia della Morano - un totale di circa 150 pellicole mute - non molto si è salvato: sarebbero infatti poco meno di 40 le opere oggi reperibili presso archivi o cineteche, sia italiani che esteri, e tra queste quasi nessuna della serie "Gigetta".
Con il crescere dell'interesse e degli studi relativi al cinema muto, la Morano è stata in diverse occasioni chiamata a portare diretta testimonianza di un periodo della cinematografia, soprattutto torinese, di cui era rimasta l'unica sopravvissuta. Ha inoltre partecipato a rassegne e rievocazioni sulla storia di quegli anni lontani, tra le quali si ricorda un evento organizzato nel 1978 dal Museo nazionale del cinema dove furono proiettati alcuni suoi film ed un programma della Rai I giorni di Cabiria sul cinema muto italiano degli anni dieci. Nel 2009, un secolo dopo quella sua prima lontana comica girata al parco del Valentino, la Cineteca di Bologna, nell'ambito dell'iniziativa Il cinema ritrovato ha dedicato a lei ed al suo partner la rassegna Rodolfi e Gigetta, coppia in commedia.”
(In wikipedia.org)
Una poesia al giorno
Carthusians, di Ernest Dowson
Through what long heaviness, assayed in what strange fire,
Have these white monks been brought into the way of peace,
Despising the world’s wisdom and the world’s desire,
Which from the body of this death bring no release?
Within their austere walls no voices penetrate;
A sacred silence only, as of death, obtains;
Nothing finds entry here of loud or passionate;
This quiet is the exceeding profit of their pain:
From many lands they came, in divers fiery ways;
Each knew at last the vanity of earthly joys;
And one was crowned with thorns, and one was crowned with bays,
And each was tired at last of the world’s foolish noise.
It was not theirs with Dominic to preach God’s holy wrath,
They were too stern to bear sweet Francis’ gentle sway;
Theirs was a higher calling and a steeper path,
To dwell alone with Christ, to meditate and pray.
A cloistered company, they are companionless,
None knoweth here the secret of his brother’s heart:
They are but come together for more loneliness,
Whose bond is solitude and silence all their part.
O beatific life! Who is there shall gainsay,
Your great refusal’s victory, your little loss,
Deserting vanity for the more perfect way,
The sweeter service of the most dolorous Cross.
Ye shall prevail at last! Surely ye shall prevail!
Your silence and austerity shall win at last:
Desire and mirth, the world’s ephemeral lights shall fail,
The sweet star of your queen is never overcast.
We fling up flowers and laugh, we laugh across the wine;
With wine we dull our souls and careful strains of art;
Our cups are polished skulls round which the roses twine:
None dares to look at Death who leers and lurks apart.
Move on, white company, whom that has not sufficed!
Our viols cease, our wine is death, our roses fail:
Pray for our heedlessness, O dwellers with the Christ!
Though the world fall apart, surely ye shall prevail.
“I certosini” di Ernest Dowson (in cartusialover.wordpress.com)
Attraverso quale prolungato carico, seduti a quale
focolare straniero, questi bianchi monaci si sono mossi
alle vie della pace disprezzando del mondo saggezza e
brama che non liberano dalla carcassa di questa morte?
Dentro le austere mura non penetrano voci
solo un silenzio sacrale, come di morte, prevale;
Nulla di forte o passionale qui ha accesso
Questa quiete è l’ulteriore profitto ai loro dolori.
giunsero da terre lontane, per innumerevoli strade di fuoco
ognuno seppe poi la vanità delle gioie terrene.
Uno fu incoronato di spine e uno coronato d’alloro
e alla fine ognuno fu stanco di sciocchi rumori terreni.
Non atti come Domenico a predicare la santa ira divina.
troppo rigorosi per portare l’influenza gentile del dolce
Francesco, la loro era una chiamata più alta e una via
più erta vivere soli in Cristo in meditazione e preghiera.
Una compagnia conventuale, soli, nessuno qui conosce
il segreto del cuore del fratello: sono solo riuniti per
maggiore recesso il cui obbligo è solitudine e silenzio
l’unica parte.
O vita di beatificazione! chi mai può contraddire la
vittoria del vostro grande rifiuto! la vostra poca
rinuncia abbandonare vanità per una via più perfetta
Il più dolce servire la Croce più dolente.
Lanciamo fiori e risa, tra i fumi del vino
Col vino rendiamo le nostre anime ottuse e prudenti le
forme d’arte
Le nostre coppe, lucidi teschi con rose a cerchio intorno
Nessuno ha cuore di guardare Morte che furtiva
c’osserva e attende.
In cammino, bianca compagine, verso chi non basta!
Le nostre viole tacciono, il vino è morto, le rose
appassiscono: Pregate per noi sconsiderati, voi che in
Cristo avete dimora!
Se pur il mondo a pezzi cade, voi soli trionferete
“Ernest Christopher Dowson (Lee, 2 agosto 1867 - Londra, 23 febbraio 1900) è stato un poeta e scrittore inglese esponente della tarda letteratura vittoriana nonché del decadentismo e dell'estetismo inglesi. Nato a Lee, sobborgo di Londra, dopo gli studi lavorò con il padre nell'azienda di spedizioni di famiglia, senza mai smettere di scrivere; divenne un membro del Rhymers club, dove conobbe W. B. Yeats e Lionel Johnson e frequentò i locali della music hall; inoltre scrisse per alcune riviste di tendenza decadente, come il The Yellow Book e The Savoy, e si dedicò alle traduzioni in francese. Fu amico di Oscar Wilde (che Dowson ammirò sempre, tanto da firmarsi a volte "Dorian" nelle sue lettere) e del suo gruppo culturale, e le sue opere, come quelle del collega irlandese, diventarono una tipica espressione del movimento del decadentismo inglese, ultima fase della letteratura vittoriana.
Nel 1889, a 22 anni, conobbe una giovanissima ragazza che aveva la metà dei suoi anni, circa 11 anni e mezzo, Adelaide “Missie” Foltinowicz (1878-1903), figlia di Joseph, proprietario polacco di un ristorante dove lei lavorava come cameriera assieme ai famigliari e a cui dedicò molte poesie. Come costume dell'epoca, decise di chiedere alla famiglia un fidanzamento. Anche se l'età della giovane pare insolita per una promessa di matrimonio anche per l'epoca e alcune allusioni poetiche potrebbero confermarlo, il matrimonio combinato con grande differenza d'età era diffuso per le ragazze e veniva celebrato intorno a 14 anni (ad esempio si vedano i matrimoni di John Ruskin con Effie Gray e quello di Edgar Allan Poe); non si trattava di pedofilia (accusa che graverà invece, sempre in maniera postuma e incerta, nei confronti del contemporaneo Lewis Carroll per il suo rapporto con Alice Liddell di 7 anni), ma al massimo di efebofilia o ebefilia, non illegali nell'Ottocento se eterosessuali. Dowson ebbe con Adelaide un rapporto esclusivamente amichevole (come del resto con la sua famiglia), platonico e occasionalmente poetico-romantico, considerandola la sua musa ispiratrice. Sono note le sue frequentazioni anche con donne adulte, per lo più prostitute. In una lettera del 1891 Dowson afferma la volontà di sposarsi e nel 1893, quando lei era in grado di consumare le nozze (14 anni), chiese ufficialmente la mano di Adelaide alla signora Foltinowicz, madre della ragazza; vedendosi rifiutato dalla famiglia, cadde nello sconforto.
Il padre, deceduto poco dopo, promise invece in sposa lo stesso anno Adelaide ad un sarto che viveva da tempo in affitto sopra il locale della famiglia; questo a causa della pessima situazione finanziaria dei Dowson e la pessima salute di Ernest; le nozze col sarto avverranno nel 1897 al compimento dei 19 anni; Adelaide morirà giovanissima nel 1903 a soli 25 anni, tre anni dopo Dowson. Il poeta cadde dal 1893 in una profonda depressione per il rifiuto subito dai Foltinowicz. Si pensa che Adelaide, assieme ad una prostituta che Dowson frequentava, sia l'ispiratrice della lirica di questo periodo Non sum qualis eram bonae sub regno Cynarae ("Più non siamo quali sotto il regno della bella Cynara"), un'adorazione mistica della giovinezza che svanisce, sotto l'apparenza di un canto per l'amore finito, in puro stile estetista. Il matrimonio di Adelaide fu il colpo finale per la salute mentale del poeta.
Dopo le vicende del mancato idillio d'amore, i disturbi psichici di Dowson peggiorarono, aggravandosi alla morte del padre avvenuta nell'agosto del 1894, per tubercolosi o per overdose da idrato di cloralio che usava come antidolorifico e sonnifero, e il suicidio della madre, anch'ella malata e impiccatasi nel 1895.
Da anni soffriva anche lui di tubercolosi, nonché di disturbo bipolare: alternava un carattere timido e mite, schivo, assai diverso da quello chiassoso e sociale di Wilde almeno prima del processo, e linguaggio delicato, con atteggiamenti irruenti, passioni totali, e anche un pesante gergo da taverna quando era sotto l'effetto di alcol; Dowson cominciò infatti ad abusare in gran quantità di sostanze come hashish, assenzio e altre bevande alcoliche, in un lento declino psicofisico; pur continuando a scrivere, in particolare liriche vicine allo stile dei "poeti maledetti" come Paul Verlaine, la sua vita andò in sfacelo.
Nel 1897 Dowson si recò brevemente in Francia, per visitare Wilde appena uscito di prigione dopo la condanna per omosessualità subita in Gran Bretagna nel 1894 a causa della relazione illecita con Lord Alfred Douglas, e che viveva allora in miseria a Berneval-le-Grand. In questo periodo Dowson visse per la maggior parte del tempo nei dintorni di Parigi, tornando saltuariamente in Inghilterra, e viveva traducendo in inglese opere di Émile Zola, Honoré de Balzac, Voltaire, Verlaine e altri, oltre che scrivendo sul giornale parigino The Savoy.
L'ultimo periodo lo passò in compagnia di Robert Sherard (gli altri suoi amici erano morti o caduti in disgrazia come Wilde), amico comune con Wilde e Douglas e che come Douglas in seguito sarà noto come pubblicista antisemita, che lo trovò senza un soldo e gravemente malato in un wine bar francese e lo riportò a Londra nel 1899, a vivere nel suo cottage alla periferia della capitale; tentò di salvare l'amico come aveva fatto Theodore Watts-Dunton con Algernon Swinburne ma non vi riuscì.
«Ernest Dowson - l'ultimo esteta, ugualmente drogato di prostitute e (platonicamente) di ragazzine, gigli e assenzio - morì, a 32 anni, in casa di un amico a Catford, (a seconda dell'opinione che preferite) o di tubercolosi o alcolismo spinto. (...) è sempre stato uomo di poca ambizione che scriveva per soddisfare il suo gusto puntiglioso con una sorta di fiera umiltà nel suo porsi al pubblico e senza aspettarsi o richiedere riconoscimenti. Morì oscuro, avendo smesso persino di curarsi del dolce sforzo dello scrivere. Morì giovane, consumato da ciò che per lui non fu mai vita, lasciando pochi versi...»
In casa di Sherard, abusando di alcol, Dowson finirà con l'uccidersi, morendo a circa 32 anni. La precisa causa della morte non è chiara dato che non fu eseguita autopsia: alcuni pensano sia morto per la tubercolosi, altri in conseguenza dell'elevato tasso alcoolico nel sangue, quindi per intossicazione da alcol e coma etilico, oppure per epatite alcolica; o ancora per cirrosi epatica, seguita da encefalopatia o rottura di varici esofagee (da cirrosi e tisi); la morte avvenne improvvisa mentre si trovava a casa di Sherard nel quartiere londinese di Catford nel febbraio 1900. Sherard lasciò questa testimonianze della morte di Dowson, riportate dai biografi: «Egli non si rese conto che stava per morire, ed era pieno di progetti per il futuro, quando pensava che le 600 sterline, che avrebbe dovuto ricevere dalla vendita di alcune proprietà gli avrebbero dato una nuova occasione: iniziò a leggere Dickens, che non aveva mai letto prima, con singolare zelo. L'ultimo giorno della sua vita, si mise a sedere parlando animatamente fino alle cinque del mattino. Nel momento stesso della morte, non sapeva che stava morendo. Cercò di tossire senza riuscirci e il cuore si fermò in silenzio».
Alla notizia della sua morte, Wilde, in esilio a Parigi, così commentò amaramente: «Un povero, ferito, meraviglioso compagno, ecco quello che era, una tragica riproduzione di tutta la poesia tragica, come un simbolo, come una scena. Spero che sulla sua tomba vengano lasciate foglie di alloro, ma anche di ruta e mirto, perché sapeva cos'era l'amore».
Essendosi qualche anno prima convertito al cattolicesimo, Ernest Dowson venne sepolto nel settore cattolico del Brockley and Ladywell Cemeteries, a Londra. La sua morte e quelle di poco successive dello stesso Oscar Wilde (deceduto di meningite il 29 novembre 1900 assistito da diversi amici tra cui Robert Ross) e della regina Vittoria (1901) segnarono la fine simbolica e reale dell'epoca e della cultura vittoriana.
Nel 2010 la sua tomba, in stato di abbandono, vandalizzata, coperta di foglie e con una bottiglia di assenzio vuota lasciata da un ammiratore, è stata sostituita da una nuova lapide e da una sepoltura moderna di forma rettangolare con incise tra l'altro due strofe della sua poesia più celebre, Vitae summa brevis; ciò è stato reso possibile da una pubblica sottoscrizione. In seguito alla scopertura della lapide si è svolta una cerimonia religiosa nella cappella del cimitero e una pubblica commemorazione per i 143 anni dalla nascita del poeta vittoriano. Lo stesso anno numerose iniziative nel Regno Unito gli avevano reso omaggio per i 110 anni dalla morte, a febbraio.
L'opera di Dowson è stata rivalutata col tempo, seppur la sua produzione non sia ampia. Al decesso, così aveva commentato Arthur Symons, poeta e critico che lo apprezzava:
«La morte di Ernest Dowson significherà forse poco per il mondo intero, ma significa molto per le poche persone che si interessano con passione di poesia (...) un uomo che era senza dubbio un uomo di genio, non un grande poeta, ma un poeta, uno dei pochissimi autori della nostra generazione a cui quel nome può essere applicato nel suo senso più intimo.»
Influenze culturali
Il titolo di Via col vento (Gone with the wind) di Margaret Mitchell, vincitore del Premio Pulitzer per il romanzo nel 1937, è il verso di una poesia di Dowson (Non sum qualis eram bonae sub regno cynarae), che ricorda molto a sua volta un verso del poeta medievale francese François Villon.
Alcuni suoi celebri versi di Vita summa brevis fanno da titolo al film I giorni del vino e delle rose (The days of wine and roses) di Blake Edwards che ricevette 5 nomination ai Premi Oscar 1963 aggiudicandosi quello per la miglior canzone scritta da Henry Mancini con lo stesso titolo. Il titolo è spesso riutilizzato essendo divenuto proverbiale nel mondo anglosassone.
La graphic-novel I giorni del vino e delle rose di Diego Bertelli e Silvia Rocchi è incentrata anche sugli ultimi giorni di vita dell'autore.”
(Wikipedia)
Un fatto al giorno
2 agosto 1902: Italia, entra in vigore il regio decreto legge che elimina l'obbligo delle catene per i detenuti.
“Da Roma Vittorio Emanuele emana il regio decreto legge che elimina l'obbligo delle catene per i detenuti. Altre leggi promulgate tra 1900 e 1921 nell'ambito della legislazione sociale voluta da Vittorio Emanuele III riguardano: la tutela giuridica degli emigranti (1901), la tutela del lavoro delle donne e dei minori (1902), le misure contro la malaria e per la chinizzazione (1902), l'istituzione dell'Ufficio del lavoro (1902), l'edilizia popolare (1903), gl'infortuni sul lavoro (1904), l'obbligo del riposo settimanale (1907), l'istituzione della Cassa nazionale delle assicurazioni sociali (1907), la mutualità scolastica e l'istituzione della Cassa nazionale per la maternità (1910), l'assistenza a favore dei colpiti da disoccupazione involontaria (1917). Sempre nel 1917, fu istituita l'Opera Nazionale Combattenti.”
(In www.ilmessaggero.it)
L’uso della catena nel sistema dei Bagni penali
Il “Regolamento di disciplina e di interno ordinamento dei Bagni” del 1860 classificava i condannati dei Bagni in quattro Divisioni, distinte dal colore di una striscia di lana apposta sul berretto. I condannati erano incatenati a due per volta, come già prescritto dai bandi del 1826. La lunghezza e il peso delle catene era così stabilito:
- 1a catena: catena di maglie 6 e 1,300 kg
- 2a catena: catena di maglie 9 e 1,700 kg
- 3a catena: catena di maglie 9 e 1,900 kg
Per accoppiare i forzati nuovi giunti e gli incorreggibili erano utilizzate le catene di 18 maglie del peso di 6,000 kg. Il nuovo regolamento disciplinare dei Bagni, emanato con il R.D n. 1328 del 7 marzo 1878, pur non prevedendo le famigerate punizioni corporali contenute nei vecchi bandi del 1826, conteneva un rigido sistema disciplinare basato sull’uso dei ferri e sulla punizione dell’isolamento. Il peso della catena veniva minuziosamente disciplinato nella circolare n. 173 del 26 aprile 1876 emanata dal Ministero dell’Interno: “Nel peso della catena, che ciascun condannato deve portare assicurata al malleolo della gamba sinistra giusto l’art. 22 del Regolamento approvato con Regio Decreto 7 marzo 1878 n. 4328, è compreso ancora il peso dell’anello, perché questo è parte integrante della stessa catena. D’altronde, nel dubbio, le disposizioni che concernono le pene afflittive, debbono sempre interpretarsi nel senso il più favorevole”. L’uso della catena, mantenuto agli antichi condannati ai lavori forzati fu successivamente limitato e disciplinato dall’art. 885 del Regolamento generale per gli stabilimenti carcerari del 1891 e definitivamente soppresso con R. D. 2 agosto 1902, n. 377.”
(In www.museocriminologico.it)
“La legge del 1889 sull’edilizia penitenziaria ed il codice penale Zanardelli costituirono anche il presupposto per l’emanazione del Regolamento generale degli Stabilimenti carcerari e dei riformatori giudiziari avvenuta con regio decreto 1° febbraio 1891 n. 260. Il nuovo regolamento venne considerato un modello da seguire nel suo genere ma il grave stato di degrado degli stabilimenti carcerari, conseguente anche alla cronica carenza di fondi, impedì non solo l’attuazione ma anche la sperimentazione del regolamento.
Presupposto essenziale per l’applicazione del regolamento del 1891 era infatti l’attuazione della legge del 1889 sull’edilizia penitenziaria, che prevedeva lo stanziamento iniziale di 15 milioni, programmando un periodo di dodici anni per il compimento della riforma. A causa di progressive riduzioni di spesa e poi della sospensione totale dei fondi stanziati per l’edilizia penitenziaria, la riforma edilizia non venne attuata. In Italia continuavano a mancare gli stabilimenti necessari per far scontare le pene secondo la normativa dettata dal codice penale e dal regolamento carcerario. Il regolamento prevedeva una minuziosa classificazione dei vari tipi di stabilimenti carcerari che non avrà nessun riscontro pratico, poiché presupponeva un piano di sviluppo edilizio rimasto praticamente inattuato. Anche il problema del sistema carcerario (a segregazione continua o graduale) non assunse particolare importanza nel regolamento del 1891, in quanto da un lato la scelta era stata operata precedentemente dal codice penale Zanardelli del 1889, dall’altro lo stato di grave deficienza degli stabilimenti carcerari impedirà di sperimentare i criteri dell’esecuzione delle pene stabiliti dal codice penale e ribaditi dal regolamento.
A partire da questa fase storica e fino ai primi anni del 1900, la scena architettonica carceraria fu dominata dal modello c.d. a palo telegrafico. Si trattava di uno schema a collegamento lineare, costituito da una sequenza di edifici paralleli collegati da un percorso centrale, disposto, generalmente, in asse con il portone di ingresso al carcere. La scelta di questo modello rispondeva a diverse esigenze: da un lato favoriva la differenziazione dei detenuti per categorie, la facilità dei collegamenti e la rapidità di accesso ai fabbricati in caso di emergenze, oltreché la possibilità di ampliare la struttura anche successivamente con l’aggiunta di nuovi blocchi detentivi ed il prolungamento del percorso centrale; dall’altro, questo schema, rispondeva a preminenti ragioni di sicurezza, esso infatti consentiva di poter isolare, dividere e controllare un numero anche molto elevato di detenuti. Per molti anni, soprattutto in Italia, questo modello architettonico ha continuato, nonostante le critiche, ad essere largamente utilizzato nelle nuove costruzioni carcerarie.
Le dimensioni delle celle vennero fissate nel 1890 dal Consiglio Superiore di Sanità in m. 2,10 x 4 x h 3,30, mentre le dimensioni dei “cubicoli” erano stabilite in m. 1,40 x 2,40 x h 3,30. Solo qualche tempo dopo, con la riforma del 1932 ed a seguito delle vivaci campagne avviate sin dal 1921 contro la segregazione cellulare, sarà introdotto il sistema dei “camerotti”, che consentirà la convivenza da tre a sette detenuti in unità di dimensioni più ampie (25 mq.).
Nel periodo “giolittiano” (caratterizzato da governi con indirizzi politici liberali), il regolamento del 1891 subì alcune importanti modifiche tendenti a mitigare le condizioni disumane dei detenuti. Venne soppresso l’uso della catena al piede per i condannati ai lavori forzati e furono introdotte modifiche al rigido sistema delle sanzioni disciplinari, eliminando le disumane punizioni della camicia di forza, dei ferri e della cella oscura. I ferri saranno di fatto aboliti soltanto nel 1902, con l’articolo unico del regio decreto n. 337 del 2 agosto. Il successivo regio decreto 14 novembre 1903, n. 484 sancì l’abolizione della camicia di forza, dei ferri e della cella oscura, provvedimento dovuto più al fallimento di questi mezzi come reale deterrente per comportamenti indisciplinati che per la volontà d’umanizzare le drammatiche condizioni di vita in cui versava la popolazione detenuta. Il terzo filone su cui si indirizza l’attività riformatrice nei primi anni del Novecento riguarda l’impiego dei condannati in lavori di bonifica di terreni incolti o malarici regolato dalla legge 26 giugno 1904, n. 285. Rimase fermo tuttavia il quadro legislativo del periodo crispino; infatti, il codice penale, le leggi di pubblica sicurezza e l’ordinamento giudiziario non vennero toccati da Giolitti.
Nel periodo che intercorre tra le prime riforme giolittiane e la conclusione della guerra mondiale, le disposizioni legislative e la prassi relative alla gestione delle istituzioni penitenziarie non subirono sensibili mutamenti. Con monotonia si susseguirono modeste innovazioni legislative, progetti di riforma non andati a compimento, scandali e proteste per le deprecabili condizioni degli stabilimenti di pena, veementi interrogazioni parlamentari e impacciate risposte governative.”
(In www.giustizia.it)
Una frase al giorno
“Non so se Bologna, come si dice in maniera retorica, non fu più la stessa, probabilmente non lo era già più, ma è una cosa diversa oggi. Mi fa paura.”
(Francesco Guccini)
“Che Bologna fosse quella mattina alle 10.25 è difficile raccontarlo. Sappiamo che il caldo piegava le ginocchia e in un’aria surreale l’Italia che desiderava la villeggiatura perse gli ultimi frammenti di verginità, ripose palette e secchielli perché qualcuno aveva già calpestato i castelli di sabbia. Volevano spezzare il Paese e ci riuscirono in quell’estate del 1980. E Bologna, l’isola felice, la città delle botteghe appena disintossicate dal piombo del Settantasette, finì asfissiata dalle macerie che si lascia dietro il tritolo e la nitroglicerina. Da matrona divenne matrigna. Non diciamo sciocchezze: le ferite non fanno parte della vita, casomai la cambiano.
E quella ferita era così profonda porta i segni ancora oggi, non ci sono lifting che tengano. Già i binari delle stazioni di per sé non sono luoghi rassicuranti, intrisi di arrivederci che sono addii. Figuriamoci quando sai che nella sala d’aspetto di seconda classe morirono tutti, bambini e nipoti, genitori e figli. Uccisi da una bomba, messa in quel posto da Giuseppe Valerio Fioravanti, ex attore bambino, e la sua donna, Francesca Mambro, fascisti dei Nar.
Un anno dopo dalla torre degli Asinelli, Carmelo Bene, per la prima commemorazione della strage, chiuse la Lectura Dantis, Inferno XXXIII canto, con una dedica non ai morti, ma ai duecentomila vivi che lo ascoltavano, “come me feriti a morte”. Per tornare a un attimo prima abbiamo scelto Francesco Guccini, cantautore, scrittore e molto altro ancora, bolognese nato a Modena e cresciuto a Pavana, dove poi è tornato.
Perché Guccini, insieme a Lucio Dalla, quella città l’ha cantata. Perché sia lui che Dalla sulla strage non sono mai riusciti a scrivere una riga, proprio perché c’erano quei giorni, sapevano e non capivano, avevano le mani sporche a forza di scavare tra le macerie e vedere gli autobus (il 37) che correvano verso l’ospedale carichi di morti.
Perché Guccini scrive su piazza Alimonda e non sulla strage?
Vero. Era molto facile cadere nella retorica. O diciamo molto più semplicemente che non ci son riuscito. Un riferimento esiste, ma non è stato compreso. In quale brano?
Bologna, appunto. A un certo punto dico “Bologna capace d’amore, capace di morte”. Quella mattina è tutta in quella frase. La morte, ma anche l’amore della gente che scavava a mani nude alla ricerca di qualche mano da afferrare. Nelle immagini di repertorio si vede sempre un musicista cileno, conosciuto attraverso Flaco Biondini, che si dannava come un pazzo tra una barella e l’altra.
Sì, vero. Diciamo che disse tutto.
Andare oltre sarebbe stata una forzatura.
Ma lei il 2 agosto del 1980 c’era?
Dovevo essere alla stazione. Invece presi il treno il giorno prima. Perché rimasi senza voce. La sera, il primo agosto, avrei dovuto tenere un concerto a Imola, ma lo annullammo per l’acciacco. Così presi il treno per Pavana la mattina prima del 2.
Giusto, Guccini ha rinunciato alla patente di guida.
Fieramente. Fu un caso non trovarsi alla stazione. Chissà la voglia di scrivere “Guccini salvato da un mal di gola…”
Non ricordo. Può darsi anche che sia uscito su qualche pagina di giornale. In realtà non è vero perché io alle 10.25 non sarei mai partito, più facile rientrare a casa a quell’ora. Vivevo in un fuso orario diverso.
Poi che successe?
Il primo pensiero, il più importante, fu per mio fratello che lavorava alla stazione, all’ufficio postale. E quella mattina c’era. A noi, a casa, arrivavano notizie così, non capivamo mica bene cosa fosse accaduto. Continuavano a dire di una bombola del gas, poi che era esplosa una caldaia. Mio fratello, però, prima che le linee telefoniche finissero in tilt riuscì a chiamare e rassicurarci. Il resto lo sapemmo dopo, più tardi.
E il rientro?
Terrificante. La stazione ancora bloccata, intorno cadeva a pezzi. C’era un bar, dove noi perdinotte ci trovavamo, inghiottito. Il clima della paura, del terrore. In qualche modo ci rialzammo, ma forse non ci siamo mai fermati a pensare per la paura che non saremmo più andati avanti. Non so se Bologna, come si dice in maniera retorica, non fu più la stessa, probabilmente non lo era già più, ma è una cosa diversa oggi. Mi fa paura.
Bologna prima e dopo la strage: una linea Maginot del terrore?
Fu una cosa diversa da tutto quello che era stato prima. La città aveva vissuto il Settantatasette, ma sempre con un certo disincanto. Bologna era davvero un posto particolare, un crocevia di culture. Io insegnavo in un college, avevo ragazzi nordamericani, ma anche greci, somali, turchi. E mi ricordo che, soprattutto a quelli che arrivavano dagli Stati Uniti, era complicatissimo spiegare che potevano uscire la sera, che non sarebbe accaduto niente, che le ragazze potevano passeggiare sotto i portici, nessuno avrebbe dato loro fastidio. Non so se oggi potrei dire le stesse cose, non so se me la sentirei.
Era anche una città amministrata bene.
Sicuramente. Il sindaco più importante di quegli anni fu Renato Zangheri, forse la città era già nel futuro prima che lo assaporasse.
Vi rialzaste facilmente dalla bomba?
Non troppo. Perdemmo dei punti di riferimento fisici. Locali, ritrovi. Poi col tempo la sensazione che si fosse aggiustato tutto, invece non si era aggiustato ancora un bel niente.
L’estate di quattro anni dopo lei tenne uno dei concerti memorabili per la musica italiana, ne venne fuori un album, “Fra la via Emilia e il West”. Duecentomila persone. Fu un modo anche quello di tornare alla normalità?
No, la stazione ormai era alle spalle, per quanto ci si può lasciare alle spalle una strage di quella portata. Direi che non c’entra, forse riletto oggi si può intravedere qualcosa.
Il giorno dei funerali venne raccontato come la giornata della “Bologna che non ci stava”.
Sì, la città fece rientro per esserci nella Basilica di San Petronio. Il presidente Pertini fu uno dei pochi a essere applaudito. Dopo disse di non avere parole, “siamo di fronte all’impresa più criminale avvenuta in Italia”. Era vero. E a tutti quelli che passano in treno da Bologna non resta che ricordare. Tutti abbiamo fatto il possibile per rialzarci. Ancora oggi. Io, dal mio silenzio di Pavana, sono tornato per girare un documentario sulla strage. Recito la parte di un fornaio. Un contributo, forse più efficace delle parole che avrei potuto scrivere allora. Che però non sarebbero uscite dalla penna.”
(Emiliano Liuzzi in: www.ilfattoquotidiano.it)
Un brano musicale al giorno
Sir Arthur Bliss, Things to Come Suite Op 53, Orchestral Suite 'Pomp And Circumstance'. The London Symphony Orchestra.
“Sir Arthur Bliss, nato Arthur Edward Drummond Bliss, (Barnes, 2 agosto 1891 - Londra, 27 marzo 1975), fu un compositore britannico.
Figlio di padre inglese e madre statunitense, Bliss studiò alla Rugby School di Rugby, quindi al Pembroke College di Cambridge con Cyril Rootham e al Royal College of Music con Charles Villiers Stanford. Durante la prima guerra mondiale, combattendo come ufficiale di artiglieria, venne ferito nel 1916 e intossicato dai gas nel 1918.
Alla fine della guerra, ritornò alla composizione di pezzi non tradizionali come il concerto senza parole per tenore, pianoforte e archi o Rotta per soprano e orchestra da camera in cui la voce si esprime in una serie di suoni insignificanti. Le sue prime opere mostrano l'influenza di Stravinsky e Claude Debussy. Un'opera fondamentale rimane la sua Colour symphony (Sinfonia di colori), composta nel 1922, che esplora l'idea di una associazione di vari colori, con un tema musicale.
Alla fine degli anni 1920, Bliss ritornò a delle forme più classiche in opere corali come Pastoral (Pastorale) e Morning Heroes (Eroi del mattino). Tra il 1923 e il 1925 insegnò in California.
Nel 1930 compose la colonna sonora del film Things to Come (Cose a venire) e la musica per il balletto Checkmate (Scacco matto). Bliss è stato un compositore ambizioso e prolifico (oltre 140 opere) e alcune delle sue partiture sono state progettate per un pubblico internazionale, più ampio di quello che in realtà era il suo uditorio. I suoi Introduzione e Allegro e Concerto sono esempi di creazione di questo genere essendo stati presentati nel 1939 all'esposizione internazionale di New York con Solomon Cutner al pianoforte.
Durante la seconda guerra mondiale, cominciò ad insegnare all'Università della California (1940) e successivamente divenne il direttore musicale della BBC (1942-1944) dove ebbe l'idea di separare in diversi canali musicali, i pezzi trasmessi dalla radio, a seconda del genere di trasmissione. Fu nominato sir nel 1950 e nel 1953 divenne il successore di Arnold Bax come Master of the Queen's Music (maestro di musica della regina).
Il dopoguerra vide Bliss fallire in diversi progetti. La sua opera Gli dei dell'Olimpo (Le Olimpiadi) presentata al Covent Garden, non ebbe il successo sperato. Il suo oratorio, Le beatitudini, passò inosservato dietro al trionfo del Requiem di guerra di Benjamin Britten presentato nel 1962 al festival di Coventry. Il suo Concerto per violoncello, composto per il grande violoncellista russo Mstislav Rostropovich per essere eseguito al festival di Aldeburgh, venne oscurato da quelli di Britten, di Henri Dutilleux e di Witold Lutosławski.
Bliss realizzò alcune registrazioni delle sue opere più importanti, ma altri direttori d'orchestra evitano questo repertorio. Il suo canto del cigno furono le Variazioni metamorfiche per grande orchestra, eseguite nel 1972, ma non dal prestigioso direttore d'orchestra Leopold Stokowski, come aveva sperato.
Egli scrisse una autobiografia: As I remember (Ciò che ricordo). La sua musica è stata scoperta dopo la sua morte, ed è stata registrata diverse volte.
Venne nominato comandante dell'Ordine reale vittoriano (KCVO) nel 1969”.
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
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Ugo Brusaporco
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