“L’amico del popolo”, 20 febbraio 2020

L'amico del popolo
Grandezza Carattere

L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

CIRCUITO CHIUSO (Italia, 1978), regia di Giuliano Montaldo. Soggetto: Nicola Badalucco, Mario Gallo. Sceneggiatura: Nicola Badalucco, Mario Gallo, Giuliano Montaldo. Fotografia: Pino Pinori. Montaggio: Olga Pedrini. Musiche: Egisto Macchi. Cast: Flavio Bucci (il sociologo), Brizio Montinaro (il commissario), Aurore Clément (Gabriella), Ettore Manni (il questore), Giuliano Gemma (il pistolero), William Berger (il suo sfidante), Tony Kendall (Roberto Vinci), Loris Bazzocchi (Politi, l’agente in borghese), Gabriele Tozzi (Federico, il controllore), Marzio Honorato (il regista), Franco Balducci (Aldo Capocci), Sergio Doria (l’amante di Gabriella), Laura D’Angelo (la mascherina), Agla Marsili (la cassiera), Luciano Lorcas (il vice-questore), Gianni Ottaviani (il magistrato), Luigi Uzzo (lo spettatore con la tessera), Pia Attanasio (la signora anziana), Micaela Pignatelli (l’accompagnatrice), Mattia Sbragia, Benito Stefanelli, Dina Sassoli, Enzo Spitaleri, Franco Mazzieri, Alfredo Pea, Guerrino Crivello, Attilio Duse, Gianni Di Benedetto, Umberto Grandi, Pino Lorin, Elisabetta Virgili, Giorgio Cerioni, Angela Serraino, Annabella Andreoli, Antonio Bonifacio, Luciano Rossi, Mario Cecchi, Gino Usai, Michela Martini, Pino Leoni, Renata Ranieri, Conchita Airoldi, Gennarino Pappagalli, Bruno Di Geronimo, Irene Bignardi, Paolo Passanisi

In un cinema di Roma, durante il primo spettacolo del pomeriggio, mentre sullo schermo si svolge la scena del duello di un film western (si tratta di E per tetto un cielo di stelle, 1968, di Giulio Petroni, benché i manifesti all’interno del cinema siano quelli de I giorni dell’ira, 1967, di Tonino Valerii, sempre con Giuliano Gemma) uno spettatore viene ucciso con un colpo di pistola. Dilaga il panico, le uscite vengono bloccate e sul posto accorre la polizia. Il commissario interroga tutti e cinquantaquattro gli spettatori, ma non viene a capo di nulla. La notte, si decide di ricostruire l’accaduto con una nuova proiezione, e tutti devono tornare ai posti che occupavano al momento dello sparo; per occupare la poltrona del morto si offre volontario il controllore dei biglietti. Dalla cabina di proiezione parte la pellicola, ancora la sparatoria e un nuovo delitto: anche il controllore muore ucciso da un colpo di pistola. Ancora panico e caos. Mentre fuori del cinema un assembramento di reporter e curiosi reclama notizie, all’interno si comincia a indagare sui rapporti tra la prima e la seconda vittima: neanche in questo caso si approda a nulla. Un sociologo presente in sala propone agli inquirenti una sua bizzarra teoria, secondo cui la prima vittima, un accanito appassionato di cinema, televisione e fotografia, ha fatto da “tramite, come un medium nelle sedute spiritiche”, con la realtà oltre lo schermo: ormai il contatto è stabilito, conclude lo studioso, e in caso di altre proiezioni i morti aumenteranno. Nonostante il palese scetticismo della polizia, il sociologo riesce a trovare nello schermo un foro bruciacchiato. Mentre si attende la perizia balistica sui proiettili sparati, arriva il questore che, seccato per le strane dicerie che cominciano a serpeggiare circa “magie, misteri soprannaturali e altre stregonerie”, ordina un’altra ricostruzione durante la quale egli siederà personalmente sulla sedia ‘maledetta’. Tutti riprendono posto, e riparte il film. Al momento della sparatoria accade qualcosa di incredibile: il protagonista della pellicola, invece di interpretare la solita scena del duello con il suo avversario, guarda in platea cercando la sua prossima vittima; il questore fugge terrorizzato, ma viene colpito: il pistolero, con un gesto di soddisfazione, getta il sigaro che teneva tra le labbra. In sala il terrore e lo sgomento sono ormai all’apice. Arriva la perizia balistica: i colpi sono stati sparati da una Colt a tamburo del 1863. Gli spettatori sono finalmente liberi di uscire dal cinema, mentre gli inquirenti sono affranti per l’impossibilità di fornire una spiegazione attendibile dell’accaduto. Alla fine, a sala vuota, rimangono il commissario e il sociologo, che insiste nella sua spiegazione ‘fantastica’: le immagini di cui l’uomo si nutre - sostiene - potrebbero, a processo invertito, finire per divorarlo. A riprova della sua teoria, lo studioso raccoglie da terra e mostra all’attonito commissario il mozzicone ancora fumante del sigaro gettato dal pistolero del film.

Si tratta di un film televisivo che fu presentato fuori concorso al ‘Premio Italia’ del 1978, e trasmesso l’anno successivo sulla seconda rete Rai all’interno del ciclo "Tv cinema - 5 film italiani per la televisione." L’inquietante tema dello schermo cinematografico ‘vivo’ pare in qualche modo derivato dal più classico motivo del ‘quadro che prende vita’, di cui esistono numerosi esempi nella letteratura gotica e fantastica (tra i tanti esempi, si possono ricordare "Il castello di Otranto" di Walpole, "Il manoscritto trovato a Saragozza" di Potocki, "Il ritratto" di Gogol, "Il ritratto ovale" di Poe e "Owen Wingrave" di Henry James). Ma neppure il tema vero e proprio dello ‘spettro cinematografico’, dell’immagine che dal suo supporto di celluloide interagisce con il mondo reale è totalmente nuovo: lo si ritrova ad esempio in un piccolo corpus di racconti dello scrittore argentino Horacio Quiroga (Lo spettro, Il vampiro, Il puritano) e in un romanzo dello statunitense Jack Finney, "Un mondo di ombre". È comunque con un racconto di Quiroga, "Lo spettro" (1921), che il soggetto scritto da Nicola Badalucco e Mario Gallo denota maggior attinenza: anche lì, infatti - pur con evidenti differenze di tono e struttura narrativa -, si parla di un attore di western che ‘esce’ dal film proiettato per uccidere uno spettatore (nella fattispecie, il rivale in amore).

Il film di Montaldo, comunque, pur funzionando già benissimo sul piano della pura messa in scena, pare voler farsi carico anche di un significato metaforico, che sarebbe poi la teoria espressa nell’incredulità generale dal personaggio del sociologo: nell’odierna civiltà dell’immagine, se non poniamo freno alla nostra passività e credulità nei suoi confronti, finiremo per esserne ‘uccisi’, cioè annullati. Un messaggio forse condivisibile e tutto sommato, se visto col senno di poi, lungimirante, ma che nulla aggiunge e forse qualcosa toglie al fascino complessivo del lungometraggio, la cui abile costruzione attorno a un mistero sconcertante e insolubile poteva forse fare a meno di una sentenziosa e univoca ‘morale della favola’ finale.

Finalmente l’esordio di Giuliano Montaldo, regista televisivo. Il suo Circuito chiuso, presentato fuori concorso al «Premio Italia» 1978, verrà mandato in onda questa sera, giovedì, sulla Rete 2, a colori. La trama è semplice, quasi un pretesto. Ma un pretesto molto originale: in un cinema alla periferia di una grande città, durante il primo spettacolo del pomeriggio, mentre sullo schermo si svolge la sparatoria di un film western, uno spettatore viene ucciso con un colpo di pistola. Come nei «gialli» che si rispettino, arriva sul posto il commissario di polizia, il quale interroga il pubblico (le uscite naturalmente sono bloccate), per ricostruire la scena del delitto. Tutti riprendono i posti precedentemente occupati; nella poltrona del morto si siede un controllore dei biglietti, scelto a caso dal commissario. Dalla cabina parte la pellicola, ancora la sparatoria sullo schermo e un nuovo delitto. Il controllore muore ucciso da un colpo di pistola. Nel ruolo del commissario, Brizio Montinaro. Tra gli altri attori, Giuliano Gemma, mai apparso, a sua volta, prima d’ora in tv; Aurore Clément; Ettore Manni, tragicamente scomparso qualche mese fa; Flavio Bucci (indimenticabile Ligabue); Mattia Sbragia; l’ottuagenaria Pia Attanasio, madre di Carla Del Poggio. Il nome di Montaldo si aggiunge così al già lungo elenco di registi che hanno voluto affrontare l’esperienza della telecamera, dopo quella della macchina da presa. Di Montaldo, va ricordato l’impegno civile e politico, espresso attraverso Sacco e Vanzetti, Giordano Bruno, L’Agnese va a morire. Bisogno di evasione, la sua, oppure ricorso a una importante alternativa qual è la tv? Risposta di Montaldo: «Non esattamente un bisogno di sottrarmi all’impegno ma, al contrario, l’esigenza meditata di affrontare, insieme con i telespettatori, un argomento attuale che ci coinvolge tutti. Quanto poi all’alternativa essa esiste ed è innegabile. Infatti autori liberi come me e non conformisti hanno trovato, come già molti colleghi tedeschi, un veicolo che consente libertà di pensiero e di linguaggio nella televisione»

(I fotogrammi assassini di Giuliano Montaldo, art. red. su ‘Il Secolo XIX’, 25 ottobre 1979).

Montaldo li ha messi in mostra proprio tutti quanti i vizi del cinema, quando viene fatto per la televisione. Ci riferiamo [...] a quel senso di ibrido spettacolare che con metafora culinaria [...] si direbbe né carne né pesce, in altri termini talento cinematografico disperso in una cattiva coscienza del diverso canale di diffusione; cosicché si aveva [un’] impressione di [...] cinema complessato e [di] televisione ambiziosa e velleitaria. [...] E qui si arriva al nocciolo della questione: il soggetto di Circuito chiuso e il modo in cui è stato svolto. Il ‘Radiocorriere’ avvertiva trattarsi di «una metafora sulla civiltà delle immagini svolta secondo lo schema classico del film giallo». Belle parole davvero, e in una certa misura anche pertinenti, se però non si fossero riferite più alle intenzioni [...] che non [agli] esiti. Figurarsi che c’era di mezzo una storia di morti ammazzati in un cinematografo che le indagini poliziesche non riescono a chiarire in quantoché l’omicida sarebbe il personaggio del film proiettato. Una soluzione ipotizzata e poi confermata ai poliziotti increduli e variamente imbecilli (va beh che rappresentavano l’ottusità del potere, ma non era il caso di esagerare) dal sociologo di turno. Il quale, con la disinvoltura di un maestro elementare [...] enunciava una teoria secondo cui di immagini si può morire. Certo che, se fosse vero, morire per esempio vedendo Circuito chiuso non sarebbe una bella morte. (March., Circuito chiuso, su ‘Il Corriere Mercantile’, 26 ottobre 1979).

(In vicolostretto.net)

 

Una poesia al giorno

‘O surdato ‘nnammurato, di Aniello Califano

Staje luntana da stu core,
a te volo cu 'o penziero:
niente voglio e niente spero
ca tenerte sempe a fianco a me!
Si sicura 'e chist'ammore
comm'i só sicuro 'e te...
Oje vita, oje vita mia...
oje cor 'e chistu core...
si stata 'o primmo ammore...
e 'o primmo e ll'ùrdemo sarraje pe' me!
Quand 'a notte nun te veco,
nun te sento 'int'a sti bbracce,
nun te vaso chesta faccia,
nun t'astregno forte 'mbraccio a me?!
Ma, scetánnome 'a sti suonne,
mme faje chiagnere pe' te...
Oje vita, oje vita mia...
oje cor 'e chistu core...
si stata 'o primmo ammore...
e 'o primmo e ll'ùrdemo sarraje pe' me!
Scrive sempe e sta' cuntenta:
io nun penzo che a te sola...
Nu penziero mme cunzola,
ca tu pienze sulamente a me...
'A cchiù bella 'e tutte bbelle,
nun è maje cchiù bella 'e te!
Oje vita, oje vita mia...
oje cor 'e chistu core...
si stata 'o primmo ammore...
e 'o primmo e ll'ùrdemo sarraje pe' me!

  • Ascoltarla: "O Surdato 'Nnammurato", Beniamino Gigli(1925) - "Napoli del Passato" - Naples du Passé - Canzone Italiana.

Aniello Califano (Sorrento, 19 gennaio 1870 - Sant'Egidio del Monte Albino, 20 febbraio 1919) è stato un poeta e paroliere italiano. Agnello Michele Califano, nacque a Sorrento il 19 gennaio 1870 da Alfonso Califano, importante proprietario terriero di Sant'Egidio del Monte Albino e dalla nobile sorrentina Rosa Rispoli, imparentata con la famiglia Fiorentino e comproprietaria del grande albergo Rispoli, dove nascerà il prestigioso Grand Hotel Vittoria. Visse la sua infanzia nella villa paterna di Sant'Egidio fino all'età di 18 anni.
Iscritto all'istituto tecnico per geometri, a Napoli, inizia a scrivere i primi versi in lingua napoletana. A scuola primeggia in italiano e storia e appena si imbatte nelle prime poesie pubblicate da Ferdinando Russo, che ha soltanto quattro anni più di lui, ne rimane conquistato.
Per il periodo di studio a Napoli, il padre gli affitta un quartino in un palazzo di Piazza Carità. A Napoli frequenta soprattutto luoghi di piacere. In uno di questi, incontra Ferdinando Russo con il quale concorda un appuntamento per chiedergli consigli su alcuni scritti. Russo ne rimane colpito. Aniello portò all'attenzione del poeta “A surrentina” e “Primma sbrasata”. Nella bottega del Santojanni incontra Rocco Pagliare e Salvatore Di Giacomo, Alfonso Fiordelisi, Vincenzo Migliaro e Arturo Colautti.

Nel 1894, Salvatore Gambardella musicò la poesia “O surdatiello”, canzone che lo stesso Gambardella portò a Ferdinando Bideri, il potente editore del periodico “Tavola Rotonda”. Nel 1895 comincia a sottoporre a tutti i musicisti i suoi scritti, dopo aver offerto la prima lettura a Gambardella e a Di Capua. Sempre nel 1895 pubblica “Girulà” edita da Peppino Santojanni. Ad aprile pubblica “Surriento ‘nfesta”, inno da cantarsi con accompagnamento di chitarra e mandolini la sera del 25 aprile 1895 intorno alla statua di Torquato Tasso a Sorrento. Ritorna puntualmente a Sorrento e Sant'Egidio del Monte Albino, dove la famiglia si stabilisce. Qui conosce la dama di compagnia della mamma, la paganese Stella Pepe, già due volte vedova, dalla quale avrà quattro figli. Nel 1902 inizia il sodalizio con Enrico Cannio, con la canzone “Carmela mia”. Nel 1911 pubblica “Ninì Tirabusciò” musicata da Gambardella: sono versi dedicati ad una sciantosa eccentrica che finge di parlare francese. Il 24 maggio del 1915 il generale Cadorna firma il bollettino di guerra numero 1. L'ottava delle unici canzoni pubblicate in quell'anno si intitola “'O Surdato ‘nnammurato”.

Aniello da quell'anno decide di fermarsi stabilmente nella sua villa paterna di Sant'Egidio del Monte Albino dove spesso lo raggiungono amici poeti e musicisti. In un locale al piano terra di Villa Califano ha allestito una sorta di piccolo “conservatorio”, dove pare che sia stata scritta la celebre canzone. A Cannio consegna i versi di “'O Surdato ‘nnammurato”. Dopo meno di un anno, pubblica “Tiempe belle” musica di Vincenzo Valente. Scrisse molte poesie rimaste inedite tra cui una dedicata al generale Armando Diaz dal titolo “ ‘O paisano nuosto”. Nel 1919, si recò a Roma per offrire al presidente Wilson una raccolta di versi. Marcello Fondato usò la sua musica nel film Ninì Tirabusciò, la donna che inventò la mossa del 1970. Al suo ritorno a Sant'Egidio si sparse la voce che era stato contagiato dal vaiolo. L'agonia dura quasi due giorni. In un momento di lucidità riconosce il parroco della vicina Parrocchia di San Lorenzo Martire. Pensa all'estrema unzione, ma il sacerdote era stato chiamato dalla madre Rosa Rispoli, per convincere Califano a riconoscere i figli avuti da Stella Pepe. In punto di morte acconsente. Ancora oggi gli eredi di Califano, viventi a Sant'Egidio del Monte Albino hanno il doppio cognome: Pepe Califano. Nella città appena saputa la notizia che il poeta stava morendo di vaiolo, una piccola folla invade lo spiazzo antistante Villa Califano in Via Crocevia, oggi Via Aniello Califano, per chiedere che, una volta incenerita la salma, venga dato fuoco a tutti gli indumenti del poeta, dalla biancheria al letto, al comò e ai divani. Morì il 20 febbraio 1919. Alle onoranze funebri provvide un fedele mezzadro di famiglia. La bara viene trasportata nel cimitero comunale di Sant'Egidio del Monte Albino su un carro agricolo che, dopo la funzione, doveva essere bruciato pubblicamente. I resti mortali del poeta furono trasferiti l'11 novembre 1923 a Sorrento per iniziativa di Silvio Salvatore Gargiulo. Ad oggi però, molti degli scritti rari di Califano, nonché studi sulla vita del poeta sono condotti a Sant'Egidio del Monte Albino, dove è custodito, presso il Polo di ricerca culturale, istituito dalla Pro Loco su volontà del presidente Salvatore Ferraioli, un archivio digitale dei documenti, lettere del poeta che viene commemorato ogni 20 febbraio. Nel febbraio 2009 su proposta ed iniziativa del giornalista Agostino Ingenito furono organizzate iniziative condivise nei due Comuni per celebrare l'autore. Nell'ordine fu sottoscritto un protocollo di intesa tra i Comuni di Sorrento e di Sant'Egidio del Monte Albino per l'organizzazione di celebrazioni condivise e la realizzazione di un Festival della Canzone Napoletana, la cui direzione fu affidata al giornalista Agostino Ingenito. Mentre a Villa Fiorentino, in collaborazione con l'Archivio Sonoro della Rai fu installata una mostra degli spartiti ed oggetti appartenuti all'autore e concesso la possibilità di ascoltare le tracce audio originali di alcune canzoni. In allegato il blog con foto e video e alcune interviste realizzate”.

(In wikipedia.org)

 

Un fatto al giorno

20 febbraio 1844: nel Teatro Civico di Cagliari viene eseguito per la prima volta S'hymnu sardu nationale, il primo inno nazionale composto da Giovanni Gonella su parole di Vittorio Angius, che ha preceduto quello di Mameli, quando l'Italia era ancora Regno di Sardegna.

S'hymnu sardu nationale (in italiano, "L'inno nazionale sardo") fu l'inno del Regno di Sardegna sabaudo. Risale agli anni trenta del XIX secolo, fu scritto dal sacerdote, secolarizzatosi nel 1842, Vittorio Angius. La musica invece venne composta dal maestro sassarese Giovanni Gonella (1804-1854), musicante della "Brigata Regina". La prima esecuzione ebbe luogo al Teatro Civico di Castello di Cagliari il 20 febbraio 1844.

Lo spartito originale è stato ritrovato nell'archivio dell'Auditorium Comunale di Cagliari dal professor Francesco Cesare Casula, direttore dell'Istituto di storia dell'Europa mediterranea del CNR.
Secondo Casula, l'inno fu sempre tenuto in grande considerazione dai sovrani. L'ultima esecuzione ufficiale fu nel 1937, dal coro della Cappella Sistina, direttore Lorenzo Perosi, per espresso desiderio di Vittorio Emanuele III di Savoia, durante la cerimonia per il conferimento della Rosa d'Oro alla regina Elena da parte di papa Pio XI.
L'inno, scritto in sardo, venne affiancato alla preesistente Marcia Reale, la quale fu a sua volta sostituita dopo la proclamazione della Repubblica Italiana, nel 1946, dal Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e Michele Novaro.
Nel 1991 S'Hymnu sardu nationale è stato eseguito dalla banda dei Carabinieri al Quirinale il 29 maggio, nel tradizionale ricevimento offerto al corpo diplomatico straniero. Era inteso come un omaggio alle origini sassaresi del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Venne suonato nuovamente al momento delle sue dimissioni da Capo dello Stato, il 28 aprile 1992.
Nel 2001 venne eseguito, su sua disposizione, ai funerali di Maria José di Savoia, ultima regina d'Italia. Viene suonato in occasione della rievocazione storica della battaglia dell'Assietta, la cui rievocazione si svolge ogni anno nel mese di luglio nella medesima località.

Testo di Vittorio Angius, S'hymnu sardu nationale

Cunservet Deus su Re
Salvet su Regnu Sardu
Et gloria a s’istendardu
Cuncedat de su Re!
chi manchet in nois s’animu
chi languat su valore
Pro fortza o pro terrore
Non apas suspetu, o Re.
Cunservet Deus su Re…
Unu o omni chentu intrepidos
A ferru et a mitralia
In vallu e in muralia
amus a andare o Re.
Cunservet Deus su Re…
Solu in sa morte cedere
Soliat su Sardu antigu
Né vivu a’ s’inimigu
deo m’apa a dare, o Re.
Cunservet Deus su Re…
De fidos et fort’omines
Si fizos nos bantamus
Bene nos provaramus
Fizos issoro, o Re.
Cunservet Deus su Re…
De ti mostrare cupidu
Sa fide sua, s’amore
Sas venas in ardore
Sentit su Sardu, o Re.
Cunservet Deus su Re…
Indica un adversariu
E horrenda dae su coro
Scoppiat s’ira insoro
A unu tou cinnu, o Re.
Cunservet Deus su Re…
Cumanda su chi piagati
Si bene troppu duru,
E nde sias tue seguru
chi at a esser fatu, o Re.
Cunservet Deus su Re…
Sa forza qui mirabile
Là fuit a’ su Romanu
E innanti a s’Africanu
Tue bideras, o Re.
Cunservet Deus su Re…
Sa forza qui tant’atteros
Podesit superare
Facherat operare
Unu tuo cinnu, o Re.
Cunservet Deus su Re…
Sos fidos fortes homines
Abbaida tue contentu
chi an a esse in onzi eventu
cales jà fuint, o Re.
Cunservet Deus su Re
Salvet su Regnu Sardu
Et gloria a s’istendardu
Concedat de su Re!»

In italiano:

Iddio conservi il Re
Salvi il Regno Sardo
E gloria allo stendardo
Conceda del suo Re!
Che in noi languisca l'animo
E infermesi il valore,
Per forza e per terrore
Non mai temere o Re.
Iddio conservi il Re...
Uno contro cento intrepidi
A spade e a mitraglie,
Su valli e su muraglie
Noi correremo, o Re.
Iddio conservi il Re...
Solo in sua morte cedere
Soleva il Sardo antico,
Né vivi all'inimico
Noi cederemo, o Re.
Iddio conservi il Re...
Da fidi valent'uomini
Se nati ci vantiamo,
Ben proverem che siamo
Noi loro figli, o Re.
Iddio conservi il Re...
Di mostrarti cupidi
La fede e il loro amore,
Le vene in grande ardore
Sentono i Sardi, o Re.
Iddio conservi il Re...
Indica un avversario,
E orrendo dal lor cuore
Tonar s'udrà il furore
Ad un tuo cenno, o Re.
Iddio conservi il Re...
Comanda ciò che piacciati
Foss'anche troppo duro,
Ad esser sicuro
Che sarà fatto, o Re.
Iddio conservi il Re...
La forza che mirabile
Sentirono i Romani,
E prima gli africani
Potrai vedere, o Re.
Iddio conservi il Re...
La forza che altri barbari
Poteva già domare
Saprà far operare
Solo un tuo cenno, o Re.
Iddio conservi il Re...
I fidi e valent'uomini
O vedi tu contento
Che a te in qualunque evento
Quali fu, saranno, o Re
Iddio conservi il Re
Salvi il Regno Sardo
E gloria allo stendardo
Conceda del suo Re!» “

(Articolo completo in: wikipedia.org)

“Nel febbraio del 1844 Carlo Alberto, sovrano del Regno di Sardegna, decide di lasciare momentaneamente la capitale Torino per far visita all'isola. Per celebrare l'occasione, il musicista sassarese Giovanni Gonnella dà vita a S'hymnu sardu nationale (L'inno sardo nazionale) una composizione in onore del Re. Come scrive il docente di storia della musica Gian Nicola Spanu, l'inno è da considerarsi come "una composizione dove i sardi dichiarano la loro fedeltà al Re". Le parole dell'inno sono scritte in Sardo Logudorese a opera di Vittorio Angius, erudito sardo deputato al parlamento di Torino e autore, tra l'altro, della monumentale opera del Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna. In principio inno ufficiale del regno di Sardegna, in seguito S'Hymnu accompagnerà la Marcia Reale come inno del Regno d'Italia dal 1861 al 1946, anno della nascita della repubblica.
Come il God save the Queen - Non stupisce che Angius, ex sacerdote e fervente liberale, invocasse il nome di Dio per proteggere il suo sorano. Il "Conservet deu su Re" (Dio protegga, salvi, il Re) ricorda il "God save the Queen/King" inglese. Re Carlo Alberto, contento dell'omaggio concessogli dai sardi, nel 1848 decise di fare della composizione di Gonnella e Angius, l'inno ufficiale del Regno di Sardegna. Nel 1848 il regno sabaudo è in guerra contro l'Austria e S'Himnu accompagna i bersaglieri e le truppe regie durante le battaglie risorgimentali. Dal punto di vista musicale il ritornello a fanfara è convenzionale e militaresco, mentre è interessante è la terza sezione dell'inno, definita "Tipo della Nazione" che rappresenta la prima trascrizione di una melodia sarda, forse unu Dillu (un Ballo).

La fusione perfetta - Il 1848 non è solo l'anno della prima guerra d'indipendenza ma anche quello della "fusione perfetta (della Sardegna) con gli stati di terraferma". La fusione ha una valenza giuridica. Prima dei Savoia, l'isola era in mano alla Spagna e i suoi rapporti con le monarchie aragonese e spagnola erano regolati da consuetudini. La legislazione dell'isola traeva spunto dall'antico codice medievale della Carta de Logu di Eleonora d'Arborea che - come scrive la storica Luisa Maria Plaisant - offriva valide garanzie al corpo sociale di vivere nel rispetto delle leggi e delle norme che la legislazione stessa e gli organi di governo riconoscevano come tali. In pieno clima risorgimentale i sardi scrissero l'inno dello stato sabaudo e rinunciarono alle loro autonomie, segno dell'adesione dell'élite sarda ai progetti di casa Savoia. Con la fusione - che cancella de iure et de facto le antiche autonomie - forse i maggiorenti dell'isola speravano di poter trarre beneficio dalle riforme liberali della monarchia sabauda e di trarre benefici dalla politica di Carlo Alberto.
Da inno sardo a inno d'Italia - Con l'unità d'Italia del 1861 S'hymnu affianca la Marcia Reale e a Giovinezza nel ruolo di inno ufficiale del Regno d'Italia e manterrà questo ruolo fino al 1946. Con la nascita della repubblica dopo la seconda guerra mondiale è sostituito dal Canto degli Italiani - erroneamente conosciuto come inno di Mameli. Curiosità: nel 1946 il Canto degli Italiani di Mameli è divenuto inno d'Italia solo in maniera provvisoria e manterrà questo status fino a una modifica costituzionale.

In onore dei Savoia e di Cossiga - S'hymnu venne eseguito per la prima volta il 20 febbraio del 1844 al teatro civico di Cagliari in onore di Carlo Alberto. Nel 1937 fu eseguito nella Cappella Sistina, quando Papa Pio XI consegnò l'onorificenza della Rosa d'oro alla Regina Elena di Savoia. La melodia riecheggia negli anni '90 al Quirinale, in onore al Presidente Francesco Cossiga, per le sue origini sarde. L'ultima esecuzione ufficiale risale al 2001, durante i funerali di Maria José di Savoia ultima regina italiana, su desiderio espresso prima di morire.
Al giorno d'oggi, S'Hymnu sardu nationale rappresenta per i sardi un motivo d'orgoglio. Ma non per tutti. Buona parte di coloro che sono vicini alle correnti autonomiste e indipendentiste considerano l'inno come mero atto di omaggio e di sottomissione al monarca sabaudo. Cantare la sottomissione a un Re nel quale alcuni sardi non si riconoscevano e che non era è non è - per alcuni - considerato sovrano dell'isola non è ritenuto motivo di vanto.”

(In www.cronacastorica.net)

 

Una frase al giorno

“Dopo il non far nulla io non conosco occupazione per me più deliziosa del mangiare, mangiare come si deve, intendiamoci. L’appetito è per lo stomaco ciò che l’amore è per il cuore. Lo stomaco è il maestro di cappella che governa ed aziona la grande orchestra delle passioni. Lo stomaco vuoto rappresenta il fagotto o il piccolo flauto in cui brontola il malcontento o guaisce l’invidia; al contrario lo stomaco pieno è il triangolo del piacere oppure i cembali della gioia. Quanto all’amore, lo considero la prima donna per eccellenza, la diva che canta nel cervello cavatine di cui l’orecchio s’inebria ed il cuore viene rapito. Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma d’una bottiglia di champagne. Chi la lascia fuggire senza averne goduto è un pazzo.”

(Giochino Rossini citato in www.ilgiornaledelcibo.it)

Gioachino Rossini (Pesaro, 29 febbraio 1792 - Parigi, 13 novembre 1868)

Gioachino Rossini, nato a Pesaro il 29 febbraio 1792, chiamato dagli ammiratori, il "Cigno di Pesaro" musicò decine di opere liriche senza limite di genere, dalle farse alle commedie, dalle tragedie alle opere serie e semiserie. Era di semplici origini: il padre era suonatore nella banda cittadina e nelle orchestre locali, mentre la madre, Anna Guidarini, era una cantante di discreta bravura che trasmise al figlio la passione del canto e della musica. Dopo la restaurazione del Governo Pontificio. il padre, sostenitore della Rivoluzione Francese, per sfuggire la cattura, è costretto a spostamenti fra Ravenna, Ferrara e Bologna dove il giovane Rossini studia canto (contralto e cantore all'Accademia filarmonica) e spinetta presso Giuseppe Prinetti, suo primo maestro.
A quattordici (1806), si iscrive al Liceo musicale bolognese, studia intensamente composizione, appassionandosi alle pagine di Haydn e di Mozart (è in questo periodo che si guadagna l'appellativo di "tedeschino") e scrive la sua prima opera "Demetrio e Polibio", che sarà rappresentata però solo nel 1812. Per Rossini l'esordio ufficiale sulle scene avviene nel 1810 al Teatro San Moisé di Venezia con "La cambiale di matrimonio" ed il successo ottenuto lo incoraggia a scrivere altre 37 opere, nei successivi 9 anni: opere che vengono rappresentare nei maggiori teatri italiani ed a Parigi.
La "Vita di Rossini" scritta da Stendhal suo principale biografo, quando il compositore aveva solo trentadue anni, ci dà la misura del livello di fama raggiunto dal compositore.
Fra le opere che ebbero il maggior successo e che ancora vengono rappresentate ricordiamo: "Il Barbiere di Siviglia" (1816), "La gazza ladra" (1817), "La Cenerentola" (1817), "Semiramide" (1923) ed il "Guglielmo Tell", rappresentato a Parigi il 3 agosto 1829 con il titolo di "Guillaume Tell" che fu l'ultima sua opera.
Rossini, a 37 anni, all'apice del successo quale compositore di opera lirica, smise di scrivere musica "profana" dedicandosi allo "Stabat Mater" scritto fra il 1832 e il 1839 nella pace della campagna parigina di Passy.
Il successo di quest'ultimo lavoro regge il confronto con i risultati ottenuti nell'opera lirica, ma è anche l'inizio dei lunghi anni di isolamento, durante i quali Rossini compone innumerevoli brani di musica da camera, sonate e composizioni per pianoforte, prima della sua morte avvenuta a Parigi il 13 novembre 1868.”

(In www.settemuse.it)

Gioachino Rossini (Pesaro, 29 febbraio 1792 - Parigi, 13 novembre 1868)

20 febbraio 1816: L'opera di Rossini Il barbiere di Siviglia debutta al Teatro Argentina di Roma.

Figaro - Hermann Prey
Il Conte Almaviva - Luigi Alva
Rosina - Teresa Berganza
Dr. Bartolo - Enzo Dara
Don Basilio - Paolo Montarsolo
Berta - Stefania Malagù
Fiorello - Renato Cesari
Un Ufficiale - Luigi Roni

Direttore: Claudio Abbado
Orchestra: London Symphony Orchestra Chorus - Ambrosian Singers

 

Un brano musicale al giorno

Tchaikovsky, Lago dei cigni, 1877

Swan Lake (Ballet Suite), Op. 20: I. Scene (Swan Theme)
London Philharmonic Orchestra / Yuri Simonov

Bozzetto di S. Sudekin per il Lagodeicigni, 1911

Il lago dei cigni è uno dei più famosi e acclamati balletti del XIX secolo, musicato da Pëtr Il'ič Čajkovskij (op. 20). La prima rappresentazione ebbe luogo al Teatro Bol'šoj di Mosca il 20 febbraio 1877 (calendario giuliano), con la coreografia di Julius Wenzel Reisinger.
Il libretto di Vladimir Petrovic Begičev, direttore dei teatri imperiali di Mosca insieme al ballerino Vasil Fedorovič Geltzer, è basato su un'antica fiaba tedesca, Der geraubte Schleier (Il velo rubato), seguendo il racconto di Jophann Karl August Musäus.

Primo dei tre balletti di Čajkovskij, fu composto tra il 1875 e il 1876. Viene rappresentato in quattro atti e quattro scene (soprattutto fuori dalla Russia e nell'Europa orientale) o in tre atti e quattro scene (in Russia e Europa occidentale). Sebbene esistano molte versioni diverse del balletto, la maggior parte delle compagnie di danza basa l'allestimento, sia dal punto di vista coreografico che musicale, sul revival di Marius Petipa e Lev Ivanov per il Balletto Imperiale, presentato la prima volta il 15 gennaio 1895 (data come sopra) al Teatro Imperiale Mariinskij a San Pietroburgo, Russia.
In occasione di questo revival, la musica di Čajkovskij venne rivisitata dal maestro di cappella dei Teatri Imperiali, Riccardo Drigo.

La prima esecuzione assoluta fu accolta tiepidamente ma i problemi erano molteplici: l'orchestra e il direttore, un semidilettante, lamentavano le difficoltà di una partitura "complicata" e diversa dalla consuetudine. Lo stesso avvenne da parte dei danzatori avvezzi a standard meno impegnativi. Pure l'allestimento scenico fu debole e assemblaggio di precedenti spettacoli. Ad aumentare la dose le due prime protagoniste che si alternarono nello sviluppo delle recite avevano doti coreutiche minori o si trovavano in età tecnicamente avanzata. Le critiche del tempo banalizzavano l'esito coreografico: "un'ammirevole abilità [del coreografo, ndr] nell'arrangiamento degli esercizi ginnici"; la Gazzetta Teatrale del 22 febbraio 1877 ammetteva "qualche momento riuscito" ma affermava che "in generale la musica è piuttosto monotona, noiosa... interessante probabilmente solo per i musicisti".
Il punto della situazione e la verità dei fatti è rintracciabile nelle memorie (1896) di un critico quotato amico del compositore, Nikolaj Dmitrievič Kaškin: «Il Lago dei Cigni ebbe successo, non grande ma certamente lo ebbe, e continuò ad essere eseguito per molti anni fino a quando il decorativismo fu completamente sorpassato per non essere più riportato in auge. Non solo se ne minimizzò questo elemento; la musica soffrì sempre più, fino a quando circa un terzo di essa venne sostituita da musica di altri balletti, non necessariamente buoni"»

Dopo la morte del compositore, nel 1895, il balletto passò nelle mani di Marius Petipa, coreografo che si era distinto egregiamente anche nell'altra opera di Pëtr Il'ič Čajkovskij (La bella addormentata), e in quelle di Lev Ivanov.
Il 15 gennaio 1895, ebbe luogo il primo allestimento coreografato da Petipa e Ivanov presso il Teatro Mariinskij di San Pietroburgo. Petipa curò il primo e il terzo atto, mentre Ivanov curò gli atti bianchi, il secondo e il quarto. Inoltre vennero apportate anche modifiche alla sequenza dei numeri e furono aggiunti brani del musicista trascritti dal compositore italiano (e direttore d'orchestra in tale occasione) Riccardo Drigo. Questa volta fu un successo e Il lago dei cigni entrò a pieno diritto nel repertorio dei teatri pietroburghese e moscovita, e col tempo in quello internazionale, divenendo una pietra miliare del balletto classico.
L'orchestra de Il Lago dei Cigni è composta da due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti, quattro corni, due cornette, due trombe, tre tromboni, una basso tuba, una serie di timpani, triangolo, tamburello, nacchere, rullante, piatti, grancassa, gong, xilofono, arpa e archi.

A causa delle varie interpolazioni, tagli, manomissioni che la musica subì prima e dopo la morte dell'autore, il balletto presenta molte incognite musicali e drammaturgiche. La posizione dei vari brani (come il Passo a due, che oggi vediamo nel III atto, detto "del cigno nero") e "numeri" della partitura (ossia la stessa struttura del balletto in sede rappresentativa), è tuttora argomento di dibattito. Non marginale poi lo svolgimento narrativo, in particolar modo riguardo alla conclusione del balletto, ove ebbe a suo tempo un ruolo determinante, al fine di una variante "positiva", il fratello del musicista, Modest, dopo la scomparsa di Čajkovskij. In una lettera a Hermann Laroche del 1894 disse: «È fatto talmente male [il libretto] che ho dovuto cambiare l'intero testo», come ricorda Thomas Kohlhase.

La trama
Il movimento che introduce il balletto è una breve sintesi musicale ed emotiva del dramma, che rimpiazza la tradizionale ouverture. La melodia d'apertura è il primo tema del cigno, in esso risuona già una delle scale discendenti che si incontreranno poi in tutto il balletto. Queste scale alludono al destino che incombe sui due amanti, a cui non potranno sottrarsi. Il movimento agitato che appare simboleggia il sortilegio del mago su Odette e la sua trasformazione in cigno. In talune revisioni librettistiche e coreografiche, comunque non conformi all'originale, la breve scena viene rappresentata sul palcoscenico, come antefatto (ad esempio in Nicholas Beriozoff, Milano, 1964).

(Articolo completo in wikipedia.org)

  • Video integrale: Tchaikovsky, Lago dei cigni, con Margot Fonteyn, Rudolf Nureyev, 1967

20 febbraio 1877: Il balletto di Ciajkovskij Lago dei cigni è presentato in anteprima al Teatro Bolshoi di Mosca.

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k