L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
THE BIGAMIST (La Grande Nebbia, US 1953), regia di Ida Lupino. Prodotto da Robert Eggenweiler, Collier Young. Sceneggiatura: Collier Young. Soggetto: Lawrence B. Marcus (Larry Marcus), Lou Schor. Musiche: Leith Stevens. Fotografia: George E. Diskant. Montaggio: Stanford Tischler. Cast: Joan Fontaine, Eve Graham. Ida Lupino, Phyllis Martin. Edmund Gwenn, Mr. Jordan. Edmond O'Brien, Harry Graham / Harrison Graham. Kenneth Tobey, Tom Morgan, Defense Attorney. Jane Darwell, Mrs. Connelley. Peggy Maley, Phone Operator.
Nell'impossibilità di avere un figlio proprio, i coniugi Graham si rivolgono a Jordan, funzionario responsabile per le pratiche di adozione. Messo sull'avviso da alcuni atteggiamenti reticenti del marito, questi svolge delle indagini su Harry Graham, costretto dalla propria attività commerciale a soggiornare di frequente fuori casa. Jordan con grande sua sorpresa scopre quindi nelle sue indagini durante una trasferta a Los Angeles che, col nome di Harrison, l'uomo è sposato a Phyllis Martin, da cui ha avuto un figlio. Messo alle strette, Harry gli narra delle circostanze che lo hanno portato alla bigamia. A seguito della notizia della sterilità della moglie Eve, i rapporti tra i due si erano fatti sempre più freddi e circoscritti alla comune attività lavorativa, cui la donna aveva rivolto con determinazione le proprie energie. Nel corso di una gita guidata a Hollywood, alla ricerca di un diversivo alla solitudine nella grande metropoli, Harry aveva conosciuto Phyllis. Durante le trasferte di Harry, la relazione fra i due si era rinsaldata, complice l'estraneità della moglie assorbita dagli affari. Poi, Eve, a seguito della morte del padre si era trasformata. Tornata ad essere affettuosa col marito, come nei primi tempi della loro unione, aveva espresso il desiderio di adottare un figlio, eventualità che in precedenza aveva sempre escluso. Così i due si erano rivolti a Jordan.
Di passaggio a Los Angeles, Harry aveva deciso di passare a salutare, per un'ultima volta Phyllis, scoprendo che la donna era incinta di un figlio, concepito una sera in cui, insieme, avevano festeggiato il compleanno dell'uomo. Benché Phyllis, determinata a portare a termine la gravidanza, non avesse avanzata alcuna pretesa, lui, per dare un nome ed una sicurezza al figlio, aveva insistito perché si sposassero.
Lasciata la casa ove vive Phyllis in preda a sentimenti contrastanti, Jordan dovrebbe denunciare l'uomo, ma al contempo prova per lui comprensione e solidarietà.
La situazione per Harry diviene insostenibile, anche perché Phyllis viene a conoscenza che egli ha un'altra donna. Preso dal rimorso per aver rovinato la vita delle due donne che ama e per aver provocato loro tanto dolore, sarà lo stesso Harry ad autodenunciarsi.
Al processo la sentenza del giudice del tribunale sarà mite, ma, in un finale aperto, mentre le due donne lasciano l'aula del tribunale, resta sospeso l'interrogativo del giudice: "Credo che l'imputato abbia realmente amato entrambe queste donne. Forse non avrebbe potuto fare a meno di nessuna delle due. E ho la dolorosa impressione che ormai le abbia perse entrambe..."
"La grande nebbia è l'unico dei suoi sei film di cui Ida Lupino, una delle poche dive americane ad essere stata dietro la macchina da presa (una "vera pioniera" secondo la definizione di Martin Scorsese), è anche interprete. Fu girato con un budget molto ridotto, causa la cattiva situazione finanziaria della The Filmmakers, la casa produttrice fondata nel 1949 col secondo marito Collier Young - produttore del film e recente sposo dell'altra protagonista, Joan Fontaine - che aveva dovuto accettare le severe condizioni poste dalla RKO. Nei suoi film Ida Lupino metteva in discussione "...il ruolo passivo, puramente decorativo della donna nelle produzioni hollywoodiane". In La grande nebbia, come per lo stupro di La preda della belva, la violenza dei genitori in Non abbandonarmi, la poliomielite della protagonista di Never Fear, un trauma - nella forma della rivelazione della bigamia del marito - cala all'improvviso sulle protagoniste, sconvolgendo la loro vita ovattata e borghese e costringendole ad affrontare dolore e disperazione. Si trattava di temi decisamente senza precedenti nel cinema americano di allora, affrontati con chiarezza assoluta, con la stessa mescolanza di precisione e profonda compassione di cui aveva dato prova come attrice."
(In it.wikipedia.org)
“È la quinta delle sette regie di Ida Lupino (una delle rarissime donne dietro la macchina da presa a Hollywood; è anche il primo film in cui diresse se stessa): un melodramma raffinato e grandioso. Collier Young, produttore e sceneggiatore, aveva appena divorziato dalla Lupino per sposare Joan Fontaine, l'interprete principale. La strana combinazione funziona perfettamente.”
(In www.filmtv.it)
- Il film: The Bigamist (1953) di Ida Lupino
- In italiano: La Grande Nebbia ◍ Film Completo 1953 ✫ Ida Lupino
4 febbraio 1918 nasce Ida Lupino, attrice e regista inglese-americana (morta nel 1995)
Una poesia al giorno
L'effort humain, di Jacques Prévert
L'effort humain
n'est pas ce beau jeune homme souriant
debout sur sa jambe de plâtre
ou de pierre
et donnant grâce aux puérils artifices du statuaire
l'imbécile illusion
de la joie de la danse et de la jubilation
évoquant avec l'autre jambe en l'air
la douceur du retour à la maison
Non
l'effort humain ne porte pas un petit enfant sur l'épaule droite
un autre sur la tête
et un troisième sur l'épaule gauche
avec les outils en bandoulière
et la jeune femme heureuse accrochée à son bras
L'effort humain porte un bandage herniaire
et les cicatrices des combats
livrés par la classe ouvrière
contre un monde absurde et sans lois
L'effort humain n'a pas de vraie maison
il sent l'odeur de son travail
et il est touché aux poumons
son salaire est maigre
ses enfants aussi
il travaille comme un nègre
et le nègre travaille comme lui
L'effort humain n'a pas de savoir-vivre
l'effort humain n'a pas l'âge de raison
l'effort humain a l'âge des casernes
l'âge des bagnes et des prisons
l'âge des églises et des usines
l'âge des canons
et lui qui a planté partout toutes les vignes
et accordé tous les violons
il se nourrit de mauvais rêves
et il se saoule avec le mauvais vin de la résignation
et comme un grand écureuil ivre
sans arrêt il tourne en rond
dans un univers hostile
poussiéreux et bas de plafond
et il forge sans cesse la chaîne
la terrifiante chaîne oû tout s'enchaîne
la misère le profit le travail la tuerie
la tristesse le malheur l'insomnie et l'ennui
la terrifiante chaîne d'or
de charbon de fer et d'acier
de mâchefer et de poussier
passée autour du cou
d'un monde désemparé
la misérable chaîne
où viennent s'accrocher
les breloques divines
les reliques sacrées
les croix d'honneur les croix gammées
les ouistitis porte-bonheur
les médailles des vieux serviteurs
les colifichets du malheur
et la grande pièce de musée
le grand portrait équestre
le grand portrait en pied
le grand portrait de face de profil à cloche-pied
le grand portrait doré
le grand portrait du grand divinateur
le grand portrait du grand empereur
le grand portrait du grand penseur
du grand sauteur
du grand moralisateur
du digne et triste farceur
la tête du grand emmerdeur
la tête de l'agressif pacificateur
la tête policière du grand libérateur
la tête d'Adolf Hitler
la tête de monsieur Thiers
la tête du dictateur
la tête du fusilleur
de n'importe quel pays
de n'importe quelle couleur
la tête odieuse
la tête malheureuse
la tête à claques
la tête à massacre
la tête de la peur.
Lo sforzo umano (traduzione di Gian Domenico Giagni in: Jacques Prévert “Poesie”, Ugo Guanda editore, Parma, 1970)
Lo sforzo umano
non è quel bel giovane sorridente
ritto sulla sua gamba di gesso
o di pietra
e che mostra grazie ai puerili artifici dello scultore
la stupida illusione
della gioia della danza e del giubilo
evocante con l'altra gamba in aria
la dolcezza del ritorno a casa
No
Lo sforzo umano non porta un fanciullo sulla spalla destra
un altro sulla testa
e un terzo sulla spalla sinistra
con gli attrezzi a tracolla
e la giovane moglie felice aggrappata al suo braccio
Lo sforzo umano porta un cinto erniario
e le cicatrici delle lotte
intraprese dalla classe operaia
contro un mondo assurdo e senza leggi
Lo sforzo umano non possiede una vera casa
esso ha l'odore del proprio lavoro
ed è intaccato ai polmoni
il suo salario è magro
e così i suoi figli
lavora come un negro
e il negro lavora come lui
Lo sforzo umano non ha il savoir-vivre
Lo sforzo umano non ha l'età della ragione
lo sforzo umano ha l'età delle caserme
l'età dei bagni penali e delle prigioni
l'età delle chiese e delle officine
l'età dei cannoni
e lui che ha piantato dappertutto i vigneti
e accordato tutti i violini
si nutre di cattivi sogni
si ubriaca con il cattivo vino della rassegnazione
e come un grande scoiattolo ebbro
vorticosamente gira senza posa
in un universo ostile
polveroso e dal soffitto basso
e forgia senza fermarsi la catena
la terrificante catena in cui tutto s'incatena
la miseria il profitto il lavoro la carneficina
la tristezza la sventura l'insonnia la noia
la terrificante catena d'oro
di carbone di ferro e d'acciaio
di scoria e polvere di ferro
passata intorno al collo
di un mondo abbandonato
la miserabile catena
sulla quale vengono ad aggrapparsi
i ciondoli divini
le reliquie sacre
le croci al merito le croci uncinate
le scimmiette portafortuna
le medaglie dei vecchi servitori
i ninnoli della sfortuna
e il gran pezzo da museo
il gran ritratto equestre
il gran ritratto in piedi
il gran ritratto di faccia di profilo su un sol piede
il gran ritratto dorato
il gran ritratto del grande indovino
il gran ritratto del grande imperatore
il gran ritratto del grande pensatore
del gran camaleonte
del grande moralizzatore
del dignitoso e triste buffone
la testa del grande scocciatore
la testa dell'aggressivo pacificatore
la testa da sbirro del grande liberatore
la testa di Adolf Hitler
la testa del signor Thiers
la testa del dittatore
la testa del fucilatore
di non importa qual paese
di non importa qual colore
la testa odiosa
la testa disgraziata
la faccia da schiaffi
la faccia da massacrare
la faccia della paura.
Jacques Prévert fu poeta, scrittore e sceneggiatore francese, nato a Neully-sur-Seine (Hauts-de-Seine) il 4 febbraio 1900 e morto a Omonville-la-Petite (Manche) l'11 aprile 1977. Le sue sceneggiature, soprattutto nei film di Marcel Carné, sono caratterizzate da un'enfasi anticonvenzionale che piega sovente verso un sentimentalismo acceso e vibrante ed è fondata sul ritratto icastico della poesia del quotidiano, sul 'canto anarchico' degli ideali d'amore e di libertà, sul gusto per la bizzarria e la comicità aerea e insieme per il tragico e il melodrammatico. Questa particolare cifra stilistica, unita a una musicalità che si ritrova anche nel ritmo interno dei dialoghi, riecheggia persino nelle canzoni da lui scritte per le colonne sonore di alcuni film, spesso musicate da Joseph Kosma.
Figlio di un impiegato municipale, lasciò la scuola a quindici anni, lavorando a Parigi nei grandi magazzini e poi, effettuato il servizio militare (1918-1921), nell'editoria. Frequentò circoli politici e letterari in cui l'antimilitarismo e l'anticlericalismo si accompagnavano all'esaltazione della poesia e della libertà d'espressione: in questo quadro si inseriscono la vicinanza al Surrealismo (1925-1929), il lavoro all'interno del gruppo di teatro militante Octobre (1932-1936) e la partecipazione alle lotte antifasciste del Front populaire (1936-1938).
Fu in questa atmosfera che nacque il rapporto tra P. e il cinema. Dopo aver recitato in Les grands (1924) di Henri Fescourt, nel 1928 scrisse i dialoghi di Souvenir de Paris, noto anche come Paris-Express, un cortometraggio dedicato alla vita e alla segreta bellezza di Parigi, diretto dal fratello Pierre (1906-1988) e da Marcel Duhamel, e supervisionato da Alberto Cavalcanti. Prese poi parte come attore, in piccoli ruoli, a L'âge d'or (1930) di Luis Buñuel e Les amours de minuit (1930) di Augusto Genina. Nel 1930-31, per l'agenzia pubblicitaria Damour scrisse (con Jean Aurenche) i dialoghi di alcuni shorts di Paul Grimault, elaborando un'espressività fatta di brevi e fulminanti invenzioni, sintesi poetiche, metafore verbali e visive piene di pathos. Trasportò questo stile del tutto personale nei dialoghi, nelle sceneggiature o nei soggetti di film in cui la satira e il burlesco si stemperano in una vena comico-surreale aerea e permeata di anarchismo (e qualche volta di intellettualismo), il sogno si unisce alla sorpresa e la grazia leggera all'acume sarcastico: tra questi il mediometraggio L'affaire est dans le sac (1932; Affare fatto) di P. Prévert, e i lungometraggi Baleydier (1931) di Jean Mamy, Ciboulette (1933) di Claude Autant-Lara, L'hôtel du libre échange (1934) di Marc Allégret e Le crime de Monsieur Lange (1935; Il delitto del signor Lange) di Jean Renoir, nel quale il suo afflato libertario traspare in modo particolare.
Ma fu il sodalizio con Carné (con cui aveva stretto amicizia fin dai tempi del Group Octobre) che mise in luce le sue doti. L'affinità elettiva tra scrittore e regista si sviluppò nel nome di un 'realismo poetico' in cui la fantasia sognante è calata e trasfigurata nella fotografia sociale della vita urbana. A cominciare dal clima melodrammatico e dalla forte carica simbolica degli ambienti in Jenny (1936; Jenny, regina della notte), proseguendo con la 'fumisteria' di Drôle de drame (1937; Lo strano dramma del dottor Molyneux), in cui il fraseggiare bislacco e ironico e l'intrigo giocato sull'assurdo compongono un'invenzione drammaturgica tra le più originali. Ma fu con il dittico Quai des brumes (1938; Il porto delle nebbie) e Le jour se lève (1939; Alba tragica) che il binomio Prévert-Carné inventò atmosfere e suggestioni entrate a far parte dell'immaginario cinematografico: le brume dell'alba che acquistano valore di metafora, i temi dell'amore predestinato e della persecuzione fatale, il quadro sociale che sembra determinare gli eventi che sovrastano i personaggi (uomini maledetti o eroi che uniscono disincanto e romanticismo, donne il cui fascino è un misto di innocenza, fragilità e orgoglio). Con Carné P. proseguì su una linea più fantastica in Les visiteurs du soir (1942; L'amore e il diavolo) e soprattutto in Les enfants du paradis (1945; Amanti perduti), per il quale ricevette nel 1947 la sua unica nomination all'Oscar, e dove la favola e la reinterpretazione di epoche e climi letterari (il racconto gotico, il teatro da fiera, il mélo ottocentesco) filtrano i temi ricorrenti nel cinema di P. e Carné. Il mélange tra lirismo e bizzarria del destino ritornò poi in modo più convenzionale e manierista in Les portes de la nuit (1946; Mentre Parigi dorme), per il quale P. scrisse anche le canzoni Les feuilles mortes e Les enfants qui s'aiment, e che fu il suo ultimo film con il regista, dato che La fleur de l'âge (1947) non venne mai terminato.
Acceso romanticismo ma anche asciuttezza e depurata liricità caratterizzarono invece il suo contributo a Remorques (1941; Tempesta) e Lumière d'été (1943) di Jean Grémillon. P. lavorò poi di nuovo con il fratello Pierre in Adieu Léonard (1943) e Voyage-surprise (1947). Con Les amants de Vérone (1949; Gli amanti di Verona) di André Cayatte e Souvenirs perdus (1950; Ricordi perduti) di Christian-Jacque diede di fatto l'addio al grande pubblico: negli anni seguenti partecipò solo a Notre-Dame de Paris (1956) di Jean Delannoy e a un episodio di Amours célèbres (1961; Amori celebri) di Michel Boisrond. Ritornò invece a collaborare attivamente con registi d'avanguardia: tra gli altri, con Grimault nei film d'animazione La bergère et le ramoneur (1953; La pastorella e lo spazzacamino), uno dei capolavori di questo genere in Francia, di cui P. scrisse anche le canzoni, e La faim du monde (1957); con Joris Ivens in La Seine a rencontré Paris (1957; Quando la Senna incontra Parigi); con P. Prévert in Paris mange son pain (1958), Paris la belle (1959), che incorpora Souvenir de Paris del 1928, Le petit Claus et le grand Claus (1964), La maison du passeur (1965), À la belle étoile (1966).”
(Bruno Roberti - Enciclopedia del Cinema, 2004. www.treccani.it)
- Immagini: La Bergère et le Ramoneur, regia di Paul and Pierre Grimault, Francia, 1952, 63’, Animazione. Sceneggiatura: Jacques Prévert, Paul Grimault Musica: Joseph Kosma.
Un fatto al giorno
4 febbraio 1859: il Codice Sinaitico viene scoperto in Egitto.
“Il Codice Sinaitico o Codex Sinaiticus è un manoscritto in greco onciale (cioè maiuscolo) datato tra il 330-350 d.C. Originariamente conteneva l'intero Antico Testamento nella versione greca dei Settanta, l'intero Nuovo Testamento, e altri scritti cristiani (Lettera di Barnaba, Pastore di Erma). L'onciale è un'antica scrittura maiuscola usata dal III all'VIII secolo nei manoscritti dagli amanuensi latini e bizantini; in onciale sono scritti anche altri due codici biblici tra i più antichi: il Codex Vaticanus (IV secolo) ed il Codex Alexandrinus (V secolo).
Nella sua forma attuale, il codice conta 346½ fogli di pergamena, scritti su quattro colonne. Di questi, 199 appartengono all'Antico Testamento, 147½ al Nuovo Testamento più la Lettera di Barnaba e il Pastore di Erma, due antichi scritti cristiani, presenti però in forma mutila.
Circa l'Antico Testamento, il manoscritto ha subito varie mutilazioni, specialmente nei libri da Genesi ad Esdra. Ciò che rimane è costituito da frammenti di Genesi 23-24; Numeri 5-7; 1 Cronache 9, 27-19,17; Esdra 9,9-10,44; Lamentazioni 1,1-2,20. Integri sono invece i libri di Neemia, Ester, Gioele, Abdia, Giona, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia, Isaia, Geremia. Il manoscritto contiene anche i testi deuterocanonici di Tobia, Giuditta, 1 Maccabei e l'apocrifo 4 Maccabei (mentre il codice non ha mai contenuto 2 e 3 Maccabei).
L'ordine dei libri del Nuovo Testamento è vangeli, lettere paoline, Atti, lettere cattoliche, Apocalisse.
Il testo del Codice Sinaitico in generale assomiglia molto a quello del Codex Vaticanus. Nell'AT il testo del Sinaitico è più simile a quello del Codex Alexandrinus.
Le origini del Codex Sinaiticus sono poco conosciute. Si è ipotizzato che sia stato scritto in Egitto. Qualcuno lo ha associato alle 50 copie della Bibbia commissionate dall'imperatore romano Costantino I a Eusebio di Cesarea dopo la sua (possibile) conversione al cristianesimo.
Uno studio paleografico compiuto sul testo nel 1938 al British Museum ha mostrato che il testo è stato oggetto di molte correzioni. Le prime risalgono a un periodo immediatamente successivo alla sua stesura, nel IV secolo. Altre correzioni risalgono al VI-VII secolo, realizzate probabilmente a Cesarea, in Palestina. Secondo una nota presente alla fine dei libri di Esdra ed Ester, tali alterazioni sono state fatte sulla base di un altro antico manoscritto il quale fu corretto dalla mano del santo martire Panfilo (martirizzato nel 309).
Il Codex Sinaiticus fu ritrovato da Konstantin von Tischendorf presso il Monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai, in Egitto, tra il 1844 e il 1859.
Durante il primo viaggio presso il monastero, nel 1844, trovò in un cesto 43 fogli di pergamena contenenti testi di Geremia, Neemia, 1 Cronache ed Ester. Un monaco gli disse che "erano rifiuti che dovevano essere distrutti bruciandoli nel forno del monastero". I monaci, diffidenti, pure conoscendo l'esistenza di altre pagine del Codice, si rifiutarono di fargliele esaminare. Tischendorf ottenne però in dono i fogli ritrovati che pubblicò in fac-simile nel 1846. Nel 1853 una seconda spedizione si rivelò infruttuosa, tranne che per il ritrovamento di due frammenti del Libro della Genesi.
Nel 1859 Tischendorf effettuò una terza visita al convento grazie all'aiuto dello Zar Alessandro II di Russia, dal quale dipendevano allora tutti i monasteri greco-ortodossi. Un monaco mostrò allo studioso un manoscritto che aveva trovato casualmente nella sua cella, nascosto tra vari oggetti. Si trattava di un'altra parte del Codice, contenente gran parte dell'AT e tutto il NT con l'Epistola di Barnaba e parte del Pastore d'Erma. Tischendorf, che non era riuscito a convincere i monaci a lasciargli il manoscritto, iniziò a trascriverlo nel Monastero stesso. Successivamente riuscì a farselo inviare al Cairo in un altro monastero greco-ortodosso per continuare a copiare il testo. Infine Tischendorf riuscì a fare 'regalare' il manoscritto allo Zar, dietro a un compenso di 9000 rubli. Nonostante questo pagamento, il Codice è attualmente considerato dal monastero come rubato, un punto di vista contestato da molti studiosi in Europa.
Il 13 settembre 1862, in un articolo apparso su The Guardian, il celebre falsario Costantino Simonidis affermò di essere il vero autore del "Codex Sinaiticus" e di averlo scritto sul Monte Athos nel 1839; lo definì "l'unico povero lavoro della sua giovinezza". Affermò anche di avere visitato il Sinai nel 1852 e di avere visto qui il suo codice. Simonidis dichiarò di avere realizzato il Codex Sinaiticus su incarico dello Zar di Russia (Nicola I, defunto nel 1855). Egli fu incarcerato per questa sua affermazione e il mondo accademico non gli credette (salvo poche eccezioni). Tuttavia rimangono dubbi sull'autenticità del "Sinaiticus" (per la spinosa questione si veda ad esempio il volume di Mark Jones "Fake? The art of deception", British Museum, 1990).
Per diversi decenni il codice è stato conservato presso la Biblioteca Nazionale Russa di san Pietroburgo. Nel 1933 l'Unione Sovietica vendette il codice alla British Library per 100,000 sterline.
Nel maggio 1975, durante dei lavori di ristrutturazione nel monastero, venne scoperta una camera sotto la cappella di san Giorgio, nella quale erano contenuti molti frammenti pergamenacei tra cui 12 pagine del Codice Sinaitico.
Il codice è attualmente diviso in 4 porzioni ineguali: 347 fogli sono presso la British Library a Londra; 12 fogli e 14 frammenti (a cui bisogna aggiungere un frammento individuato da uno studente greco tra la rilegatura di un manoscritto del XVIII secolo) sono presso il monastero di Santa Caterina; 43 fogli sono nella Biblioteca della Università di Lipsia; frammenti di 3 fogli sono presso la Biblioteca Nazionale Russa di San Pietroburgo.
Un progetto finanziato da enti culturali e dalla Stavros Niarchos Foundation con la collaborazione delle quattro biblioteche sopra indicate ha consentito di digitalizzarlo per intero rendendolo disponibile a tutti sul sito 'codexsinaiticus.org' gestito dalla British Library.”
(Articolo completo in it.wikipedia.org)
“Le moderne tecnologie possono offrire straordinari benefici nei campi della ricerca letteraria, storica e teologica. Un esempio viene dalla British Library. Nelle sue collezioni il tesoro forse più importante è il codice Sinaitico, uno dei manoscritti biblici più antichi oggi esistenti. Il suo valore per il testo dell’Antico e del Nuovo Testamento è paragonabile a quello del codice Vaticano. La grande maggioranza dei testimoni manoscritti successivi è infatti in genere ritenuta dal punto di vista testuale meno affidabile dei codici Vaticano e Sinaitico.
Entrambi sono stati trascritti verso la metà del iv secolo, quando il codex, ossia la forma di libro a cui siamo abituati, aveva sostituito il volumen, cioè il rotolo.
In un memorabile saggio, il compianto Theodore Cressy Skeat ha sostenuto che questi due manoscritti sono stati realizzati nello stesso scriptorium, ma la sua ipotesi è basata in parte sulla somiglianza nello stile di ornamenti decorativi semplici realizzati a penna nei due codici, e sebbene questa somiglianza sia certamente suggestiva, non rappresenta comunque una prova. La sua congettura che il codex Sinaiticus sia stato realizzato in uno scrittorio a Cesarea in Palestina si fonda su errori di scrittura: in un momento di distrazione un amanuense scrisse Cesarea quando avrebbe dovuto scrivere Samaria e in un altro passo scrisse erroneamente il nome di Antipatrìs, una città non distante da Cesarea. La data è ragionevolmente certa, poiché Skeat aveva scoperto che i copisti variavano il modo di abbreviare i numeri, e il passaggio da un sistema più antico a quello che rimase in vigore per tutta la tarda antichità e il medioevo può essere osservato in alcuni documenti su papiro dell’Egitto, databili ai decenni centrali del iv secolo. Questa pratica di abbreviare i numeri sembra essere una caratteristica distintiva dei testi cristiani, poiché difficilmente è riscontrabile nei frammenti delle copie antiche dei classici della letteratura greca pagana.
Sebbene il Sinaitico mostri segni di essere stato molto usato nei primi secoli della sua esistenza, la sua storia successiva rimane in gran parte oscura fino a quando, negli anni quaranta dell’Ottocento, non venne scoperto nel monastero di Santa Caterina ai piedi del Monte Sinai dallo studioso tedesco Konstantin von Tischendorf.
I dettagli delle trattative mediante le quali lo studioso riuscì ad acquisirlo non sono del tutto chiari. Sembra che Tischendorf non sia stato del tutto trasparente nel trattare con i monaci, e pare accertato che i monaci stessi non avessero idea del valore del manoscritto, poiché è emerso che lo avevano trattato come combustibile bruciandone una buona parte nel forno per il pane. Il risultato è che quasi la metà dei fogli originali è andata perduta.
La maggior parte di ciò che è sopravvissuto venne offerta da Tischendorf allo zar Alessandro ii nel 1859, e rimase a San Pietroburgo fino al 1934, quando il Governo sovietico, a corto di valuta estera, ne trattò la vendita con il Governo britannico per la somma, allora considerevole, di centomila sterline. Il denaro venne raccolto mediante una sottoscrizione pubblica. Molti anni fa, un collega anziano mi raccontò che all’epoca, da studente, aveva contribuito con parte della sua paghetta.
Ma oggi la British Library non possiede tutti i fogli esistenti: 43 si trovano a Lipsia, essendo stati offerti da Tischendorf a re Federico Augusto di Sassonia, e alcuni altri sono venuti alla luce a Santa Caterina nel 1974, quando è stata demolita una parete divisoria.
Un paio d’anni fa a Londra si è conclusa un’operazione complessa e costosa, finanziata da una serie di enti culturali e dalla Niarchos Foundation. Le immagini di ogni singolo foglio del Sinaiticus sono state digitalizzate, cosicché, oltre alle copie di tipo convenzionale, le immagini digitali sono disponibili in un sito gestito dalla British Library, accessibile a tutti gratuitamente. La qualità di tali immagini è davvero altissima: molti dettagli quasi invisibili a occhio nudo o non visibili affatto risultano chiari. Viene fornita anche una trascrizione con alcune annotazioni.
Grazie all’ammirevole cooperazione di tanti studiosi e istituzioni, uno dei libri più importanti per la storia del cristianesimo ora può essere studiato da chiunque. Poiché il manoscritto è stato sottoposto ad attenta analisi per oltre un secolo, la comunità degli studiosi non si attende cambiamenti sostanziali nella nostra conoscenza delle sue lezioni varianti, mentre nel caso del ben noto palinsesto di Archimede, tecniche simili per la riproduzione d’immagini hanno consentito di decifrare in modo accurato molti passi difficili o illeggibili.
Non si può non rimanere davvero impressionati dalle immagini, ora così facilmente disponibili. Quella che era una realtà distante in questo modo assume un’immediatezza nuova e ispiratrice.”
Immagini:
- Londra. Il famoso "Codex Sinaiticus" acquistato dal Museo Imperiale Britannico
- The Codex Sinaiticus: The Oldest Surviving Christian New Testament - The Beauty of Books - BBC Four
Una frase al giorno
“Lei sarà mia moglie, ma in compenso io sarò suo marito, e questo mi consola.”
(Pierre Carlet de Chamblain de Marivaux, drammaturgo e scrittore francese)
“Pierre Carlet de Chamblain de Marivaux, comunemente noto come Marivaux (Parigi, 4 febbraio 1688 - Parigi, 12 febbraio 1763), fu drammaturgo e scrittore francese. Considerato tra i maggiori commediografi di Francia del XVIII secolo, ha composto numerosi testi per la Comédie-Française e la Comédie-Italienne di Parigi. Si è dedicato alla letteratura coltivando sia il romanzo che il teatro. Ha integrato la drammaturgia di Molière, riprendendone alcuni aspetti e dando spazio alla componente amorosa. Nello specifico gli interessa soprattutto l'innamoramento, che diventa un gioco teatrale dove i personaggi cercano di mascherarsi per scoprire se sono corrisposti. Il gioco del mascheramento dei sentimenti è presente in tutte le sue commedie, come sottile gioco psicologico. Nella lingua francese il suo nome ha dato origine al verbo marivauder che indica lo scambio di proposte galanti e molto raffinate”.
Visse da prima a Riom, dove il padre dirigeva la zecca, e a Limoges; studiò legge a Parigi. Voltosi alle lettere, tentò il teatro comico e tragico; una sua tragedia Annibal (1720) non ebbe fortuna e poca ne ebbero alcune azioni comiche a tinte satiriche: l'Île des Esclaves (1725), le Triomphe de Plutus (1728), caricatura del finanziere avido, che come la Nouvelle Colonie (1729), è di stampo aristofanesco. Trovò la sua vera strada nella commedia e nel romanzo. Dotato di scarsa cultura classica, che derise in travestimenti burleschi (Iliade travestie, 1717; Télémaque travesti, 1736), mostrò una spiccata preferenza per gli autori moderni, dai quali ricavò le ispirazioni artistiche; ma più attinse dall'osservazione della natura e della vita, ritraendo la gente di campagna, i borghesi di provincia e la società mondana che imparò a conoscere nei salotti di Madame de Tencin e di Madame de Lambert, e, nell'ultimo periodo della sua esistenza, in quelli della du Deffand e della Geoffrin. La sua vita, agiata e serena, fu poi angustiata da preoccupazioni finanziarie, alle quali fece fronte lavorando per librai e per giornali: collaborò al Mercure, fondò, redigendoli da solo, Le Spectateur français (1722-23), modellato sull'omonimo inglese dell'Addison, L'Indigent philosophe (1728) e il Cabinet du philosophe (1734), rivelandosi giornalista brioso e critico sagace. Intelletto vivo, di squisita sensibilità artistica, uomo però sempre scontento, soleva lasciare a mezzo un'opera per iniziarne con entusiasmo un'altra. Ebbe affinità spirituali con Fontenelle, amicizia con Helvétius; osteggiato da Voltaire e dai suoi seguaci, fu vittima, anche a teatro, delle "cabales" letterarie; riuscì tuttavia a entrare all'Académie française (1743). Da quel momento la sua vena parve inaridita. Rimasto solo, mortagli dopo due soli anni di matrimonio (1723) la moglie e fattasi suora l'unica figlia, egli fu confortato dall'affetto d'una sua coetanea Mademoiselle de Saint-Jean; e quando si spense, egli, che aveva goduto di larga popolarità, era già un dimenticato.
Dei sette od otto suoi romanzi, eccetto quelli di avventure ai quali, dopo aver parodiato il genere (Pharsamon ou les folies romanesques, 1712), si appassionò (Les aventures de... ou les effets surprenants de la sympathie, 1713-14; La voiture embourbée, 1714), sono meritevoli di menzione, benché entrambi incompiuti, i due a cui va legato il suo nome: La vie de Marianne ou les aventures de la Comtesse de... (in dieci parti, 1731-41, a cui Madame M.-J. Riccoboni aggiunse una parte undecima) e il Paysan parvenu (in cinque parti, 1735), che non ha i pregi del precedente, mentre ha in comune con esso le frequenti e prolisse digressioni. In essi il M. si rivela romanziere realista, degno di essere avvicinato al Lesage. Scrittore delicato, egli atteggia il pensiero e lo stile, ricco di finissime sfumature, in modo affatto originale. E, lui vivo, si disse, per l'appunto, "marivaudage" codesta sua personalissima forma di concezione e di espressione, che, a differenza del preziosismo secentesco, non è tutta esteriorità, ma anche intima sostanza di sentimenti e di idee.
Nella commedia si ritrovano queste sue doti di pittore del cuore della donna, ond'egli fu detto il Racine del suo secolo. Dell'amore, tenerezza galante più che passione profonda, egli indaga le prime radici e ne studia soprattutto il timido manifestarsi: di esso non si vale già come d'un pretesto per un intrigo comico, ma ne fa la vita stessa della commedia, che è rappresentazione degli stati d'animo dei personaggi e ritratto del costume contemporaneo. Delle sue trentasei commedie, alcune delle quali sono morali, filosofiche, mitologiche, si distinguono appunto quelle di analisi psicologica e particolarmente: Arlequin poli par l'amour (1720), La surprise de l'amour (1722), La double inconstance (1723), La seconde surprise de l'amour (1727), Le jeu de l'amour et du hasard (1730), la migliore e la più tipica; Serments indiscrets 1731); la Mère confidente (1735); le Fausses confidences (1737); L'Épreuve (1740). La maggior parte di esse egli preferì affidare agli attori del teatro italiano, perché, meno ligi alla tradizione, gli consentivano maggior libertà nel suo tentativo di creare una nuova commedia. E il pubblico favore arrise largamente a questa sua produzione scenica elegante e galante, che trasferiva sentimenti veri in un mondo di sogno, in cui fioriva la poesia soave degli affetti femminili.”
(Francesco Picco - Enciclopedia Italiana (1934) in www.treccani.it)
Immagini:
- Valmont Productions presenta: Félicie de Marivaux.
Registrato il 16 dicembre 2016 al Petit Théâtre du Gymnase a Parigi.
Un brano musicale al giorno
Josef Myslivecek, Concerto per violino e orchestra in Re maggiore
1. Allegro assai
2. Larghetto
3. Allegro
Shizuka Ishikawa violino, Libor Pešek dirige la Dvorák Chamber Orchestra
«Josef Mysliveček (Praga, 9 marzo 1737 - Roma, 4 febbraio 1781) compositore ceco, attivo soprattutto in Italia. Nella sua epoca era uno dei compositori d'opere serie più geniali e prolifici d'Europa.
Figlio di un ricco mugnaio, Josef Mysliveček, con il fratello gemello Joachin, ricevette i primi rudimenti di educazione musicale presso la scuola pubblica locale. Nel 1744 iniziò a studiare letteratura e filosofia all'università di Praga, ma nel marzo del 1753 dovette abbandonare gli studi a causa degli scarsi esiti accademici riportati. Indi nel maggio del 1758, sempre con il fratello, prese in mano l'attività dei genitori, alla quale però, dopo la morte del padre, rinunciò in favore di Joachin. Tornò dunque a Praga dove trovò un'occupazione di violinista presso il coro di una chiesa e dove cominciò a studiare organo sotto la guida di Josef Seger e composizione sotto l'insegnamento di Franz Johann Habermann.
In questo periodo a Praga scrisse le sue prime sinfonie, che riportarono un notevole successo; questo rafforzò la sua decisione di diventare compositore. Quindi nel 1763 si diresse a Venezia per prendere lezioni da Giovanni Battista Pescetti. Nel 1764 mise in scena a Parma la sua prima opera, Medea, riscuotendo uno straordinario successo. Iniziò qui la relazione amorosa con il famoso soprano Lucrezia Aguiari che durerà per molto tempo. Nel 1765 fu la volta della sua seconda opera, La Semiramide, che andò in scena a Bergamo.
Nel 1766 l'impresario del Teatro San Carlo di Napoli, Amadori, lo incaricò di musicare il libretto Bellerofonte di Giuseppe Bonecchi. L'opera fu rappresentata il 20 gennaio 1767 ricevendo moltissimi consensi, tanto che di lì a poco Mysliveček decise di metterne in scena un'altra, Farnace, che il 4 novembre 1767 ebbe un egual successo. Questi trionfi portarono il compositore ceco a essere conosciuto e apprezzato in tutta Italia, tanto che venne soprannominato "Il Venatorini" (traduzione italiana del suo cognome) e "Il divino Boemo".
Negli anni seguenti le sue opere andarono in scena nei maggiori teatri italiani. Nel 1768 fu a Praga, nel 1769 a Venezia, Padova e Firenze e nel 1770 Mysliveček incontrò a Bologna il giovane Wolfgang Amadeus Mozart, (che in una lettera ebbe a dire di lui "Egli trasuda fuoco, spririto e vitalità") incontro dal quale nacque una profonda amicizia. Il giovane Mozart divenne un fervido ammiratore della musica del compositore ceco, che pare abbia avuto una profonda influenza sui suoi lavori giovanili. Il 15 maggio 1771 diventò "accademico filarmonico" di Bologna.
Nel frattempo la sua gloria aveva superato i confini dell'Italia e si era propagata in quasi tutta Europa; nel 1772 fu a Vienna dove conobbe Charles Burney e nel 1773 a Monaco dove rappresentò l'opera Erifile, che tuttavia non ebbe successo. Tornato a Napoli, compose in appena una settimana Romolo ed Ersilia. In seguito musicò per il San Carlo il Demofonte (rappresentato il 20 gennaio 1775) e l'Ezio (rappresentato il 5 giugno 1775).
Nel 1775 iniziò a mostrare i primi sintomi di quella che nelle lettere (sue e di Mozart) viene chiamata "la malattia" il cui decorso, peggiorato da improvvidi interventi dei medici che Myslivecek aveva consultato, alla fine lo portò a una deformante paralisi facciale e alla perdita dell'olfatto, e fu molto probabilmente la causa della sua morte prematura. Fu questa la ragione dell'operazione che subì a Monaco, nel 1777. Il ventunenne Mozart lo visitò all'ospedale e ne scrisse al padre.
La natura della malattia non è chiara. Molti commentatori ritengono si trattasse di sifilide. Secondo le lettere scritte da Mysliveček stesso (di cui pochissime sono state tramandate) la deformazione del volto era invece dovuta agli interventi medici su una ferita che aveva riportato nel ribaltamento del calesse su cui viaggiava, e che si era infettata.
«Lei è troppo sensibile al mio male, io la ringrazio del suo buon cuore. Se parte per Praga le farò una lettera per il Conte Pachta. Non si pigli tanto a cuore la mia disgrazia. Il principio fu d'una ribaltata di calesse, poi sono capitato nelle mani dei dottori ignoranti, pazienza. Sarà quel che Dio vorrà» (Josef Myslivecek)
Nel 1777 rappresentò di nuovo a Monaco l'opera Ezio e l'oratorio Abramo ed Isacco ottenendo larghe approvazioni. Ritornato a Napoli, continuò la sua gloriosa attività di compositore d'opere; andarono in scena il 4 novembre 1778 Olimpiade e il 13 agosto 1779 Il Demetrio. Dopo le rappresentazioni di queste due opere lasciò per l'ultima volta Napoli per dirigersi a Venezia, poi a Milano e infine a Roma, dove, il 4 febbraio 1781, morì in miseria, malato e quasi dimenticato. Il suo corpo fu sepolto nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, dove un suo buon amico inglese, Mr. Barry, gli fece erigere un monumento funebre, che oggi è scomparso. In sua memoria è stata recentemente apposta in questa stessa chiesa una lapide-cenotafio bilingue con profilo in bronzo…»
(Articolo completo in it.wikipedia.org)
4 febbraio 1781 muore Josef Mysliveček, compositore ceco (nato nel 1737)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.
È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.
Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.
“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”
(Wikipedia)
“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”
(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)
“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.
(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)
“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”
(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)
“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)
“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.
(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)
Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/
Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0
https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs
https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4
https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk
Una poesia al giorno
Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l'anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
Nous serons
N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents
N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.
Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.
Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible
Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.
Unis par le plus fort et le plus cher lien,
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.
Sans nous préoccuper de ce que nous destine
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?
Un fatto al giorno
17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.
(da Focus)
Una frase al giorno
“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”
(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)
Un brano al giorno
Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k