“L’amico del popolo”, 24 maggio 2020

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

QUEI DUE (Italia, 1935), regia di Gennaro Righelli. Prodotto da Giuseppe Amato. Sceneggiatura: Giuseppe Amato, Gennaro Righelli. Musiche: Armando Fragna. Fotografia: Massimo Terzano. Montaggio: Fernando Tropea. Cast: Eduardo De Filippo come Il professore. Peppino De Filippo come Giacomino. Assia Noris come Lily. Maurizio D'Ancora come Mario. Lamberto Picasso come Gerbi. Luigi Almirante come Gelsomino. Franco Coop come Giovanni. Anna Magnani come Pierotta. Giuseppe Pierozzi come Un matto della clinica 'Villa Belvedere'.

Due poveri disgraziati che fanno la fame, si arrabattano in ogni maniera per sbarcare il lunario. Passano da giocolieri di teatrini suburbani, a camerieri di caffeucci da porto, e non disdegnano il facchinaggio. Durante questa loro miserrima esistenza, una ragazza, che vuol lavorare sul teatro e che pure è afflitta da fame arretrata, viene da essi scritturata come "terzo" nel numero di varietà che hanno organizzato; ma segue la disgraziata sorte dei suoi impresari quando essi vengono violentemente cacciati dal teatro. E i due l'invitano a dividere la soffitta che occupano e la mensa che, saltuariamente, li nutre. La ragazza si unisce così a loro e convive servita e, segretamente, amata da tutti e due. Ma un giovane violinista che da una soffitta accanto può vederla e ammirarla, le dichiara il suo amore ed è riamato. I due, dopo movimentatissime vicende, comprendono che è inutile seguire l'illusione d'amore per la quale si sono perfino malmenati, e ritornano in pace e accordo dopo che la fanciulla va sposa al violinista.

QUEI DUE (Italia, 1935), regia di Gennaro Righelli 

“Lontanamente ispirato a un atto unico di Eduardo De Filippo, Quei due sarebbe potuta essere una buona commedia mirata esclusivamente all'intrattenimento; ma la regia di Righelli (non del tutto anonima come potrebbe sembrare, ma nemmeno tanto audace come dovrebbe) non riesce a imprimere il ritmo migliore e, soprattutto, la narrazione finisce ben presto per annoiare, riproponendo sempre le stesse idee. I personaggi risultano tutti simpatici e godibili, ma il film non riesce mai a fare un passo decisivo per portare l'attenzione a livelli più profondi e maturi: ne risulta una pellicola che sembra realizzata con il minimo impegno e le minime energie.”

(In www.longtake.it)

 

“Dopo Tre uomini in frac (Mario Bonnard, 1933) e Il cappello a tre punte (Mario Camerini, 1935), questa è la terza opera cinematografica a cui prendono parte Edoardo (così sui titoli di testa) e Peppino De Filippo; poco più che trentenni e già celebri per le interpretazioni teatrali, i due fratelli napoletani danno qui del loro meglio in un testo d’altronde scritto dallo stesso Eduardo.
A dirigerli è chiamato l’esperto Gennaro Righelli, i cui esordi nel cinema risalgono ai primissimi anni Dieci e che si limita ad amministrare la situazione, lasciando naturalmente sbrigliati i due protagonisti. Accanto a questi ultimi si trovano nomi di assoluta rilevanza come quelli di Assia Noris, Franco Coop, Lamberto Picasso e Luigi Almirante; in una particina, non accreditata, c’è anche la giovane Anna Magnani.
Quei due è un lavoro lineare nella struttura e permeato di sottilissima ironia, con una impostazione non troppo evoluta rispetto all’impianto teatrale di partenza, ma a ogni modo godibile nei suoi evidenti limiti grazie alla coppia di mattatori sempre al centro della scena”

(In: www.filmtv.it)

“Negli anni ’30 e nella prima parte degli anni ’40 il cinema di Peppino coincideva per buona parte con il cinema di Eduardo, e viceversa. Benché non diano molto peso al cinema, a cui guardano essenzialmente per ragioni economiche, i De Filippo in questa prima parte di carriera, vi dedicano comunque più tempo di quanto non si creda: intervengono nelle sceneggiature e nei dialoghi, collaborano in pratica - soprattutto Eduardo - alla regia dei film. I loro ruoli sono in un certo senso intercambiabili, ma Peppino sembra prediligere fin da subito quelli più dichiaratamente comici; e se talvolta è già lo spassosissimo ingenuo gabbato che conosceremo meglio negli anni successivi, più spesso è un damerino d’epoca in baffetti e brillantina, una via di mezzo fra rubacuori e mamo, fra attor giovane e attor comico: una sorta di Vittorio De Sica dei poveri, a proprio agio specialmente negli ambienti paesani dove la sua fragile spocchia può essere presa addirittura per classe (comunque, lui la vita bada principalmente a viverla, mentre Eduardo quasi sempre la guarda dalla finestra, ci filosofeggia su: il braccio e la mente, il corpo e lo spirito). Il loro film d’esordio (“Tre uomini in frac”, diretto nel 1932 dall’ex divo del muto Mario Bonnard), è oggi irreperibile, anzi quasi sicuramente perduto. Nacque per motivi soprattutto economici da una proposta del produttore napoletano Peppino Amato, che dei De Filippo era ammiratore e anche amico. In realtà Eduardo e Peppino non avevano ancora raggiunto una notorietà nazionale, e dunque non costituivano l’attrazione principale del film: il vero protagonista era il tenore Tito Schipa, sulla breccia ormai da una ventina d’anni.

“Lui [Tito Schipa] era il primo, mio fratello il secondo, e io il terzo omino in frac. Io facevo il segretario della coppia di cantanti. Era la storia di uno che non aveva il coraggio di cantare in pubblico: sarebbe stato un soggetto mirabile oggi, con le voci che ci sono in giro adesso”.
Così Peppino in un’intervista del 1974 a Francesco Savio, che resta una delle pochissime testimonianze dirette del suo cinema. Quanto agli attori, i principali meriti e demeriti andarono a Tito Schipa, ma i due De Filippo vennero segnalati come “una piacevole coppia di comici” (Filippo Sacchi, sul Corriere della Sera, del 25 gennaio 1933).

Nel 1934, a due anni di distanza dal loro esordio cinematografico, Eduardo e Peppino vi tornano per girare quello che resterà uno dei loro film più famosi, “Il cappello a tre punte”, di Mario Camerini, che a quel tempo era con Alessandro Blasetti il più importante regista italiano.
In realtà il film resterà famoso più che altro per i suoi guai, e non c’è dubbio che sia già nato sotto una cattiva stella: durante la lavorazione i fratelli De Filippo (che di giorno giravano il film a Roma e di sera recitavano in teatro a Napoli) furono coinvolti in un incidente di macchina a una ventina di chilometri dalla capitale. Peppino riportò varie ferite all’occhio sinistro e alle gambe, e le riprese furono sospese per alcuni giorni. Nonostante gli imprevisti, il film fu terminato nel giro di due mesi. Ma i guai veri dovevano ancora incominciare. Poiché un paio d’anni prima Mussolini aveva molto apprezzato un altro film di Camerini (“Figaro e la sua gran giornata”, del 1931), il direttore dell’Istituto Luce Sandro De Feo pensò incautamente di fargli vedere in un’anteprima privata anche “Il cappello a tre punte”. Il Duce lo visionò a Villa Torlonia insieme a tutta la sua famiglia; ma dopo neanche trecento metri di pellicola si alzò in piedi infuriato, sfasciò una sedia e gridò, prima di andarsene sbattendo la porta: “Bella sensibilità politica dopo 13 anni!”.
Le scene che avevano suscitato tale eclatante malcontento da parte del Duce, erano quelle dei tumulti degli ortolani contro le tasse ingiuste e il malgoverno: sequenze molto belle e molto efficaci, secondo quanto avrebbe dichiarato più volte Eduardo. Ma la censura, visto il gradimento che tali sequenze avevano incontrato presso la famiglia Mussolini, intervenne con decisione e tagliò tutte le scene di rivolta. Tanto per non correre rischi, i negativi delle parti tagliate furono bruciati. Così mutilato, il film uscì, nel 1935, per pochi giorni, ma fu tolto quasi subito dalla programmazione. Anche a causa di tutte queste grane con la censura, “Il cappello a tre punte”, già apprezzato da alcuni contemporanei, è stato persino sopravvalutato dai posteri (“Un film davvero eccellente, uno dei migliori in assoluto della nostra cinematografia“, lo definirà qualcuno a metà degli anni ’50). Sopiti dalla censura i propositi di critica sociale, resta apprezzabile l’affresco di un Settecento molto idillico, molto curioso, con le autorità a passeggio per i campi e in mezzo alla gente come gli dèi dell’antica Grecia, con le immagini quasi documentarie delle esibizioni di acrobati e cantastorie nelle piazze, con le superstiti scene di popolo estremamente vivaci e colorite nella loro allegra confusione. Si tratta del resto di uno dei pochissimi film a sfondo dialettale di un’epoca in cui si guardava il dialetto con estrema diffidenza. E comunque, nonostante i tagli e la censura, il film mantiene una sua forza sanguigna, una sua rabbia popolaresca. Quanto ai De Filippo, sono bravissimi ancora una volta, ma si vede che non sanno ancora tenere il set, come lo terranno negli anni ’50, o come facevano in palcoscenico. Del resto pare che durante le riprese, abituati ai ritmi del teatro, fossero sconcertati dai tempi morti del cinema e si lamentassero spesso con il produttore Peppino Amato: “Ma questo regista non ci fa fare niente!”.

QUEI DUE (Italia, 1935), regia di Gennaro RighelliL’anno seguente Eduardo e Peppino sono di nuovo insieme, questa volta come coppia autonoma, in un brioso film di Gennaro Righelli, “Quei due”. “Un film riuscitissimo che Gennaro Righelli diresse molto bene” ricorda Peppino nell’intervista del 1974 a Francesco Savio. E senz’altro a ragione: per quanto sia meno noto di altri, “Quei due” è uno dei loro migliori film in assoluto. Pur frammentario, al punto da sembrare quasi a episodi, è però molto divertente, molto ben girato, e presenta numerosi motivi d’interesse. Il film di Righelli, ispirato alla commedia teatrale di Eduardo, “Sik-Sik, l’artefice magico”, era stato ideato dal produttore e co-sceneggiatore Peppino Amato con l’intenzione non tanto di documentare ai posteri l’arte teatrale dei De Filippo, quanto di lanciarli nel cinema come una versione italiana di Stanlio e Ollio. In effetti è uno dei pochissimi film in cui funzionino davvero come coppia comica, l’uno spalla dell’altro, inseparabili e insostituibili, opposti e complementari, il burbero bonaccione (Eduardo/Ollio) e il cretino combinaguai (Peppino/Stanlio). Eduardo poi dà in continuazione dello “stupido” a Peppino (solo l’accento è diverso da quello di Ollio: “stùpido”, appunto, e non “stupìdo”); e vi sono numerose situazioni e trovate direttamente ispirate ai film di Laurel e Hardy: ad esempio la cena invisibile a casa del pazzo omicida o la caduta dal tetto. Il risultato è molto convincente, sebbene non vi sia fra Eduardo e Peppino quello stacco fisico (il grasso e il magro) che rende perfettamente complementari Stanlio e Ollio anche da un punto di vista visivo.

Degno dei grandi comici sia americani che italiani, ma più che altro italiani, è poi il tema di fondo del film, la fame: particolarmente caro ad entrambi, che la conobbero di persona nei primi anni della loro carriera e specialmente Peppino l’aveva già descritta spassosamente in due atti unici teatrali (“Miseria bella”, del 1931 e “Il ramoscello d’olivo”, del 1934). I protagonisti di “Quei due”, in effetti, cercano per tutto il film di mangiare e per un motivo o per l’altro non ci riescono mai: vi riusciranno alla fine della pellicola, ma noi comunque non li vedremo consumare l’agognato pasto, così come nei film dell’epoca non vediamo mai i protagonisti consumare il tanto sospirato matrimonio. E comunque tutti questi motivi di curiosità e di interesse non devono far dimenticare che il film è anche molto ben fatto, con uno stile e con delle idee che a tratti lo imparentano più al contemporaneo cinema americano che a quello italiano. Alcuni passaggi sono deliziosi, e non mancano soluzioni ai confini dell’avanguardia: ad esempio tutta una scena (Peppino che insegue la gallina) guardata attraverso l’ottica deformante di un specchio concavo; o il litigio fra Eduardo e Peppino, durante il quale le loro parole sono sostituite nella colonna sonora da un’accozzaglia di rumori…”

(Domenico Palattella in: associazioneladolcevita.wordpress.com)

24 maggio1900 nasce Eduardo De Filippo, attore e sceneggiatore italiano (morto nel 1984)

 

Una poesia al giorno

Io ero solamente ciò, di Iosif Brodskij (da "Poesie Italiane/Elegie romane", in www.gironi.it)

Io ero solamente ciò
che tu toccavi, quello
su cui - notte fonda, corvina -
la fronte reclinavi tu.

Io ero solamente ciò
che tu là in basso distinguevi:
sembiante vago, prima, e poi
molto più tardi, tratti.

Sei tu ardente, che
sussurrando hai creato
la conchiglia dell'udito
a destra, a manca, là, qui.

Tu che nell'umida cavità,
tirando quella tenda,
hai messo voce, perché
potesse te chiamare.

Cieco ero, nulla più.
Tu, sorgendo, celandoti,
hai dato a me la facoltà
di vedere. Si lasciano scie

così, e si creano così
mondi. Spesso, creati,
si lasciano ruotare così,
elargendo regali.

E, gettata così,
in caldo, in freddo, in ombra, in luce,
persa nell'universo,
ruota la sfera e va.

Metti in serbo per le stagioni fredde
queste parole, per le stagioni dell'ansia!
Come il pesce sulla sabbia, l'uomo sopravvive:
se si strascina agli arbusti e s'alza
su gambe incerte e storte e va, come un rigo dalla penna,
nelle viscere stesse della terra.

Esistono leoni alati, sfingi col seno
di donna, angeli in bianco e ninfe del mare:
a colui che sostiene sulle sue spalle il peso
di buio, caldo e - oso dirlo - dolore,
sono più cari degli zeri concentrici nati
da parole gettate.

Chinati, ti devo sussurrare all'orecchio qualcosa:
per tutto io sono grato, per un osso
di pollo come per lo stridio delle forbici che già un vuoto
ritagliano per me, perché quel vuoto è Tuo.
Non importa se è nero. E non importa
se in esso non c'è mano, e non c'è viso, né il suo ovale.
La cosa quanto più è invisibile, tanto più è certo
che sulla terra è esistita una volta,
e quindi tanto più essa è dovunque.
Sei stato il primo a cui è accaduto, vero?
E può tenersi a un chiodo solamente
ciò che in due parti uguali non si può dividere.
Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come
può soltanto sognare un frammento! Una dracma
d'oro è rimasta sopra la mia retina.
Basta per tutta la lunghezza della tenebra.

 

Joseph Brodsky (Leningrado, 24 maggio 1940 - New York, 28 gennaio 1996) 

“Iosif Aleksandrovič Brodskij, noto anche come Joseph Brodsky (Leningrado, 24 maggio 1940 - New York, 28 gennaio 1996), è stato un poeta, saggista e drammaturgo russo naturalizzato statunitense. Brodskij fu insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1987 e nel 1991 fu nominato poeta laureato (United States Poet Laureate). Scrisse principalmente in russo, fatta eccezione per i saggi, che scrisse in inglese. È considerato uno dei maggiori poeti russi del XX secolo.”

(Wikipedia)

Joseph Brodsky (Leningrado, 24 maggio 1940 - New York, 28 gennaio 1996)

Brodskij, Iosif Aleksandrovič, poeta russo (Leningrado 1940 - New York 1996). Di famiglia ebrea, autodidatta, avendo lasciato la scuola a 15 anni, cominciò a pubblicare le sue poesie nel 1958. Processato per "parassitismo", subì un periodo di reclusione (1964-65). Espulso dal suo paese nel 1972, ha vissuto negli USA, dove sono apparse tutte le sue raccolte di versi: Stichotvorenija i poemy ("Poesie e poemi", 1965); Ostanovka v pustyne (1970; trad. it. Fermata nel deserto, 1979); Konec prekrasnoj epochi ("Fine di una bellissima epoca", 1977); Čast reči ("Parte del discorso", 1977); Rimskie elegii ("Elegie romane", 1982); Novye stansy k Auguste ("Nuove stanze ad Augusta", 1983). Altra traduzione italiana: Poesie 1972-1985 (1986).

Fedele a una tradizione che egli tuttavia rielabora in modi personali, arricchendola in particolare di suggestioni che provengono non solo dalla lezione di O. E. Mandel´štam e di B. L. Pasternak, ma anche da J. Donne, T. S. Eliot e W. H. Auden, e dalla conoscenza della Bibbia, B. è poeta intimo e speculativo, cantore di una memoria lucida e disincantata, lontano da tentazioni declamatorie. In inglese ha pubblicato una raccolta di saggi, ricordi e ritratti (Less than one, 1986, trad. it. in 2 voll.: Fuga da Bisanzio, 1987, e Il canto del pendolo, 1987), in italiano Fondamenta degli Incurabili (1989). Nel 1987 gli è stato assegnato il premio Nobel per la letteratura. Negli anni Novanta ha continuato a risiedere negli Stati Uniti, dove ha svolto attività accademica e dove è stata pubblicata la sua ultima raccolta di saggi in inglese, On grief and reason (1995; trad. it. 1998), e una raccolta di poesie, in parte tradotte, in parte composte direttamente in inglese, dal titolo So forth (1996). In traduzione italiana è stata pubblicata la raccolta Poesie italiane (1996), voluta espressamente dal poeta. Nel 1989 era stato "riabilitato" nella sua patria, che negli anni Novanta manifestò un crescente interesse per il poeta. È stata pubblicata una prima raccolta di opere, Sočinenija Josifa Brodskogo ("Opere di Iosif Brodskij", 4 voll., 1992-95), e dopo la sua morte si è dato inizio alla pubblicazione della sua opera completa. Inoltre sono apparsi alcuni volumi di versi, Bog sochranjaet vsë ("Dio conserva tutto", 1992) e Pejsaž s navodneniem ("Paesaggio con inondazione", 1995), e il volumetto dedicato alla poetessa M.I. Cvetaeva (O Cvetaevoj, "Sulla Cvetaeva", 1997). Per suo espresso desiderio è stato sepolto a Venezia.”

(In: www.treccani.it)

 

Un fatto al giorno

24 maggio 1993: Il cardinale cattolico romano Juan Jesús Posadas Ocampo e altre cinque persone vengono assassinate in una sparatoria all'aeroporto internazionale Miguel Hidalgo y Costilla Guadalajara in Messico.

“Posadas Ocampo venne assassinato il 24 maggio 1993 all'età di 66 anni, nel parcheggio dell'aeroporto internazionale di Guadalajara: la sua automobile fu crivellata con 14 colpi di pistola. Si scoprì in seguito che i mandanti dell'omicidio erano Juan Francisco Murillo Díaz detto "El Güero Jaibo" e Édgar Nicolás Villegas detto "El Negro", membri di spicco del Cartello di Tijuana: essi hanno ordinato l'omicidio del cardinale per la sua inesausta lotta contro il narcotraffico. Posadas Ocampo è stato inserito da Giovanni Paolo II nella lunga lista dei martiri del XX secolo. Un'altra versione vuole l'arcivescovo vittima di uno scambio di persona: viaggiava infatti su una vettura scambiata per quella di Joaquin "El Chapo" Guzman, boss del Cartello di Sinaloa e rivale cartello locale. È sepolto nella cattedrale metropolitana di Guadalajara.”

(In: wikipedia.org)

Juan Jesús Posadas Ocampo (Salvatierra, 10 novembre 1926 – Guadalajara, 24 maggio 1993) è stato un cardinale e arcivescovo cattolico messicano

“Il caso tuttora insoluto dell'assassinio del cardinal Juan Jesus Posadas Ocampo a Guadalajara, il 24 maggio scorso, ha pesato come un macigno sulla breve visita di papa Giovanni Paolo II in Messico, a Merida, nello Stato meridionale dello Yucatan. Lo stesso cardinal Roger Etchegaray ha ammesso che "ancora restano i dubbi e persistono gli interrogativi" sulla tragica morte dell'arcivescovo di Guadalajara.
Secondo la versione ufficiale, monsignor Posadas sarebbe rimasto ucciso perché 'confuso' con un boss del narcotraffico contro il quale un cartello rivale aveva inviato dei killer. La versione, che contrasta con alcuni aspetti fondamentali della dinamica del crimine, ha suscitato dubbi non solo all'interno della gerarchia cattolica ma anche fra gli esperti e gli uomini politici messicani.
Secondo la stampa messicana, che ha citato fonti del governo, il ministro degli Esteri Fernando Solana avrebbe consegnato al cardinale Angelo Sodano un rapporto particolareggiato sulle investigazioni relative al caso Posadas.
Il pomeriggio del 24 maggio scorso il cardinale Jesus Posadas Ocampo, 67 anni, arcivescovo di Guadalajara si trovava nella sua auto all'aeroporto in attesa del nunzio apostolico proveniente da Città del Messico, quando sulla pista dello scalo si scatenò un inferno di fuoco. Due bande di narcotrafficanti si affrontarono infatti a colpi di mitra. Posadas e il suo autista vennero a trovarsi sulla linea di fuoco delle due gang. Entrambi finirono crivellati di proiettili. Nella sparatoria rimasero uccise cinque persone. Fin qui la versione ufficiale. Ma c' è anche chi ipotizzò che il vero obiettivo dei narcotrafficanti fosse proprio l'alto prelato. Il perché è solo uno dei tanti misteri di questo autentico giallo.”

(In: ricerca.repubblica.it)

“25 ANNI D’IMPUNITÁ PER L’ASSASSINIO DEL CARDINALE POSADA OCAMPO. Accadde in Messico nell’aeroporto di Guadalajara nel 1993. Mandanti ed esecutori del narcotraffico ancora impuniti

Venticinque anni fa, il 24 maggio 1993, nel parcheggio del Guadalajara International Airport, un gruppo di persone rimaste sino ad oggi sconosciute e quindi impunite, nel giro di pochi secondi con una potenza di fuoco impressionate, uccideva l’arcivescovo della città cardinale Juan Jesús Posadas Ocampo, il terzo porporato assassinato negli ultimi 95 anni. L’arcivescovo fu vittima di una vera e propria esecuzione mentre si trovava in piedi accanto alla sua automobile, colpito da 14 pallottole: uno stile che fu subito ricondotto al mondo del narcotraffico, contro il quale da sempre Posadas Ocampo si batteva con energia. Si scoprì in seguito che i mandanti dell’omicidio erano Juan Francisco Murillo Díaz detto “El Güero Jaibo” e Édgar Nicolás Villegas detto “El Negro”, membri di spicco del Cartello di Tijuana, uno dei più temibili nel Messico di quegli anni.

Nonostante l’individuazione dei mandanti sia stata accertata poco dopo l’assassinio del porporato ancora oggi, a molti anni di istanza, né questi né gli esecutori materiali sono stati assicurati alla giustizia, una situazione denunciata ancora in anni più recenti da altri cardinali messicani come Juan Sandoval Íñiguez e Francisco Robles Ortega. Per la sua azione di denuncia e opposizione ai cartelli dei narcotrafficanti Juan Jesús Posadas Ocampo è stato inserito da Giovanni Paolo II nella lunga lista dei martiri del XX secolo.

Il cardinale Posadas Ocampo morì in auto mentre era in attesa dell’arrivo all’aerostazione di Guadalajara del Nunzio Apostolico mons. Girolamo Prigione. Mons. Prigione nel 1978 era stato nominato Delegato apostolico in Messico e dal 1992, dopo lo stabilimento di rapporti diplomatici con la Santa Sede, era stato nominato Nunzio. Tra l’altro, fu proprio mons. Prigione - che ebbe all’inizio un ruolo involontario nella tragica vicenda - ad ordinare il vescovo salvadoregno Oscar Romero, il 21 giugno 1970, dal prossimo 14 ottobre santo della Chiesa Cattolica, martire della fede.

Nel momento della sua morte, il cardinale Posadas Ocampo era anche Vicepresidente del Celam e aveva 67 anni. Era nato a Salvatierra il 10 novembre 1926. Paolo VI lo aveva nominato vescovo di Tijuana il 21 marzo 1970 e poi Giovanni Paolo II lo trasferì alla diocesi di Cuernavaca il 28 dicembre 1982. Qualche anno dopo il Papa polacco lo nominò arcivescovo di Guadalajara (15 maggio 1987). Infine, Papa Wojtyla lo creò cardinale nel Concistoro del 28 giugno 1991. Il cardinale Posadas Ocampo godeva di un enorme prestigio fuori e dentro della Chiesa nella regione latino-americana e molti lo vedevano come un probabile candidato ad arcivescovo dell’arcidiocesi di Città del Messico, fra le più importanti del continente americano.

Subito dopo l’omicidio si prospettarono due ipotesi sul “perché” dell’orrendo crimine e sono le stesse anche oggi, a 25 anni di distanza dai fatti: una, avallata da mons. Prigione (sostenuta dalla Polizia, dall’allora Procuratore generale della Repubblica Jorge Carpizo e dal governo del Presidente Salinas de Gortari), sosteneva che si era trattato di un incidente poiché il porporato era rimasto coinvolto in un micidiale regolamento di conti tra bande di narcotrafficanti. In poche parole: Posadas Ocampo si trovò nel luogo sbagliato al momento sbagliato oppure fu vittima di uno scambio di persona (per via delle sue fattezze, altezza e corpulenza … simili ad un noto narcotrafficante). La Procura generale della Repubblica messicana caldeggiò la tesi dello scontro tra narcotrafficanti affermando che i fatti erano avvenuti mentre una banda tentava di uccidere il capo rivale detto «Chapo» Guzmán.

L’altra ipotesi, sostenuta anche numerose persone, altri cardinali, arcivescovi e vescovi, amici della vittima e buona parte della stampa locale e internazionale nonché dalle autorità dello Stato di Jalisco, propendeva apertamente per il crimine mirato, organizzato, per eliminare un pastore che spesso aveva condannato l’industria della droga e i cartelli della cocca. In questi anni sono accaduti alcuni fatti nuovi molto rilevanti. L’ex arcivescovo di Città del Messico, cardinale Norberto Rivera, dichiarò nel 2002: “Posso confermare che tutto l’Episcopato ha votato all’unanimità una petizione al governo per riaprire il caso, perché ci sono ancora tanti dubbi seri sulla morte del cardinale. Personalmente credo che ci sia stato un complotto, che si sia trattato di un omicidio intenzionale e che ci siano tanti aspetti che non sono stati mai chiariti”. D’altra parte, il 24 maggio 1999 la Procura general e il nuovo Procuratore, insieme con lo Stato di Jalisco e i vescovi messicani, confermarono quanto avevano detto sempre: il cardinale non fu vittima di nessuna confusione concitata o nemmeno di uno scambio di persona.

Posadas Ocampo è il terzo porporato ad essere ucciso negli ultimi 90 anni. Il primo, nel 1923, fu lo spagnolo Juan Soldevilla y Romero (Fuentelapeña, 20 ottobre 1843 - Saragozza, 4 giugno 1923), assassinato dal gruppo anarchico “Los Solidarios di Francisco Ascaso e Buenaventura Durruti”. Il secondo fu Emile Biayenda (Mpangala, 1927 - Brazzaville, 23 marzo 1977), cardinale della Repubblica del Congo, arcivescovo di Brazzaville. Morì assassinato la notte tra il 22 e il 23 marzo 1977 all’età di 50 anni durante i disordini verificatisi in Congo dopo l’uccisione del Presidente Ngouabi.”

(Luis Badilla in: www.terredamerica.com)

Juan Jesús Posadas Ocampo (Salvatierra, 10 novembre 1926 – Guadalajara, 24 maggio 1993) è stato un cardinale e arcivescovo cattolico messicano

“OMICIDIO DEL CARDINALE MESSICANO POSADAS OCAMPO: C'ERA ANCHE IL CAPO DELLA POLIZIA 28369. GUADALAJARA-ADISTA. È un pozzo senza fondo la polemica sull'omicidio dell'arcivescovo di Guadalajara, il card. Juan Jesus Posadas Ocampo, avvenuto nel maggio del '93 all'aeroporto di Guadalajara (dove si era recato per ricevere il nunzio apostolico Girolamo Prigione) durante uno scontro tra bande rivali di narcotrafficanti. Una polemica che, da quell'ormai lontano 24 maggio, divide sostenitori e critici della tesi dello scambio di persona sostenuta dal governo, secondo cui il cardinale sarebbe stato assassinato perché si trovava a bordo di un'auto uguale a quella di un boss del narcotraffico nel mirino di una banda avversaria. Tra i più critici riguardo alla versione governativa vi è il successore di Posadas Ocampo, l'attuale arcivescovo di Guadalajara, card. Juan Sandoval Iniguez, il quale ha sempre dichiarato di credere alla tesi di un attentato diretto proprio contro Posadas per le continue denunce avanzate dal cardinale contro i trafficanti di droga e contro la generalizzata corruzione indotta da questi ultimi.

Un personaggio scomodo, il card. Iniguez. Al punto che, come scrive il giornalista Andrea Tornielli sul mensile «30 Giorni», sei mesi fa, secondo quanto confermato alla rivista cattolica da «autorevoli fonti della Segreteria di Stato», «l'ambasciatore del Messico presso la Santa Sede ha chiesto al Vaticano di "promuoverlo" alla guida di un dicastero trasferendolo a Roma. Un modo elegante per togliere il cardinale da Guadalajara facendo così cessare di fatto le iniziative per far luce sull'omicidio del suo predecessore».

Intervistato dallo stesso Andrea Tornielli sul numero di novembre di «30 Giorni», Iniguez ha confermato le clamorose novità emerse sull'omicidio, soprattutto in relazione alla presenza all'aeroporto, il 24 maggio, del direttore generale della polizia giudiziaria del Messico, Rodolfo León Aragón, detto "el chino", che, secondo le nuove testimonianze raccolte, avrebbe diretto le operazioni con una ricetrasmittente. Il nome di colui che nel '93 aveva il comando di tutta la polizia giudiziaria del Paese era stato tirato in ballo già dal narcotrafficante Joaquín Guzmán Loera, noto come "el chapo", catturato due settimane dopo la sparatoria, secondo il quale Aragón (che, dice Loera, era nel suo libro paga) era presente all'aeroporto il giorno dell'omicidio del cardinale.

Ma ora le dichiarazioni del narcotrafficante coincidono, afferma Sandoval nell'intervista rilasciata a «30 giorni», con le nuove testimonianze emerse, alcune delle quali rese di fronte ai giudici e attualmente custodite in Vaticano e a Washington. «Posso confermarlo - dice Sandoval -. I testimoni oculari, che per ora devono rimanere anonimi, anche se non sono anonimi per me, hanno parlato della presenza massiccia della polizia all'aeroporto di Guadalajara fin dalle dieci del mattino di quel 24 maggio 1993. Hanno fatto anche quel nome, lo stesso di cui ha parlato il "chapo" Guzmán nelle sue dichiarazioni». Otto testimoni, precisa il cardinale, i cui racconti concordano tutti «nell'affermare che l'agguato era preparato e aveva come unico obiettivo il cardinale Posadas».

Le nuove testimonianze raccolte permettono anche di spiegare la genesi di quella tesi dell'errore di persona diventata da subito tesi governativa. E possibile infatti, secondo «30 Giorni», che gli esecutori materiali dell'omicidio fossero all'oscuro riguardo alla reale identità della persona che andavano ad uccidere. I mandanti avrebbero fatto credere loro che si trattava non del cardinale ma di un capo narcotrafficante, per evitare che si ripetesse quanto accaduto con il primo killer assoldato, Javier Llama, detto "el pollo", il quale, scrive «30 Giorni», «non appena appreso che l'obiettivo dell'operazione era l'arcivescovo di Guadalajara, si sarebbe rifiutato di agire e sarebbe scappato con i soldi» (sarebbe poi stato raggiunto ed ucciso). In Messico, dove la fede cattolica è ancora tanto forte, nessuno, neppure il killer più feroce, ucciderebbe a cuor leggero, commenta Tornielli, un vescovo della Chiesa cattolica”

(In: www.reginamundi.info)

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Una frase al giorno

“Il diritto di possedere deriva da quello di vivere; quindi tutto quanto è indispensabile alla nostra esistenza ci appartiene; e nulla di superfluo potrebbe appartenerci legittimamente, mentre altri mancano del necessario. Ecco il fondamento legittimo di qualunque proprietà, sia nello stato di società, sia nello stato di natura.”

(Marat Jean-Paul in Plan de législation criminelle, 1780)

Jean-Paul Marat, detto l'Amico del popolo (Boudry, 24 maggio 1743 - Parigi, 13 luglio 1793), è stato un politico, medico, giornalista e rivoluzionario francese di origini sardo-svizzere 

Jean-Paul Marat, detto l'Amico del popolo (Boudry, 24 maggio 1743 - Parigi, 13 luglio 1793), è stato un politico, medico, giornalista e rivoluzionario francese di origini sardo-svizzere. Tra i protagonisti della Rivoluzione francese, che egli sostenne con la sua attività giornalistica, politicamente vicino ai Cordiglieri, fu deputato della Convenzione nazionale francese dal 20 settembre 1792 e, dal 5 aprile 1793, fu eletto presidente del Club dei Giacobini.”

(Wikipedia)

 

 

“Nessun protagonista della Rivoluzione Francese è stato così ferocemente calunniato come Jean-Paul Marat ed è questo un amaro destino per un uomo che forse più di ogni altro ha contribuito a creare la République. Eppure senza di lui ed altri uomini del suo stampo la grande Rivoluzione francese non sarebbe riuscita a sconfiggere l’Ancien Régime e quindi a trasformare il mondo con le sue idee di libertà e di uguaglianza.

Come Napoleone anche Marat in fondo è solo un francese di adozione essendo nato nel 1743 in Svizzera da un prete sardo che si era convertito al calvinismo, infatti l’originale cognome paterno era Mara.
Una gioventù trascorsa in una dignitosa povertà che solo l’abnegazione paterna aveva permesso al futuro rivoluzionario di far compiere e terminare gli studi secondari al collegio di Neuchâtel.

Nel 1759, a sedici anni, lascia la casa paterna per fare il precettore per il figlio di un ricco commerciante di Bordeaux dove inizia gli studi di medicina e due anni dopo giunge a Parigi. Nel 1765 si trasferisce a Londra dove inizia ad esercitare la professione medica. E a Londra il giovane Marat si interessa di argomenti filosofici e politici. Contrariamente ai Montesquieu o ai Voltaire non vede nell’Inghilterra quel regno della libertà che essi decantano, ma al contrario vede il feroce dispotismo del privilegio nobiliare di pochi proprietari terrieri i quali gestiscono il potere a proprio esclusivo vantaggio contrapponendosi alla maggioranza della popolazione che vive in assoluta miseria.

Ed è proprio qui che nel 1774 Marat scrive “Les chaînes de l’esclavage” o meglio “The chains of slavery” visto che questo libro viene pubblicato anonimamente in inglese e solo diciannove anni più tardi questa opera verrà tradotta in francese dallo stesso autore. Siamo ormai nel 1793 l’anno più determinante per la Rivoluzione francese che sarà poi anche l’anno del suo assassinio.

Come si può quindi comprendere “Les chaînes de l’esclavage” non ha avuto nessuna influenza diretta nello sviluppo della Rivoluzione, ma è un testo importante e fondamentale per potere comprendere il pensiero di questo grande rivoluzionario.

“Le catene della schiavitù” si ispira direttamente al “Contratto sociale” di J.J. Rousseau, infatti Marat è pienamente d’accordo con il famoso incipit: “L’homme est né libre e partout il est dans le fers”. Ma dopo questa constatazione del filosofo ginevrino per Marat solo la violenza e l’insurrezione possono rompere queste catene. Questo libro non è un trattato filosofico, ma anzi può essere tranquillamente definito come il primo trattato moderno dell’insurrezione.

Marat è infatti convinto che la pratica rivoluzionaria è necessaria per sostenere le teorie rivoluzionarie. E non è quindi un caso se Babeuf nel settembre del 1794 prende proprio alcune citazioni delle “Catene della schiavitù” per un suo messaggio al popolo francese.

Ma forse il miglior riconoscimento indiretto verso questa opera la possiamo trovare nella biblioteca di Marx dove questo libro ha tutta una serie di annotazioni di sua mano a dimostrazione dell’importanza che il fondatore del comunismo riconosceva per il pensiero di questo grande giacobino.

E anche Engels ricordando la rivoluzione tedesca del 1848 deve rendergli omaggio:

“Quando più tardi ho letto il libro di Bougeart su Marat ho scoperto che per più di un aspetto noi non abbiamo fatto altro che imitare inconsciamente il grande modello autentico dell’Amico del Popolo (…) e che anche lui come noi, rifiutava di considerare la Rivoluzione come terminata, ma voleva che essa fosse permanente.”

“Les chaînes de l’esclavage” è un opera fondamentale per potere comprendere il pensiero politico di Marat prima della rivoluzione. Avendo vissuto molto tempo in Inghilterra, molto di più di Montesquieu, conosceva meglio di lui i difetti della costituzione inglese. Una costituzione che dava al Re un potere enorme sul parlamento con la sua facoltà di nominare i Lords e ne critica la limitazione del diritto di voto e la condizione di possidente richiesta ai membri del parlamento.

Ma nonostante questi profondi limiti riconosceva che “al confronto delle altre, la costituzione inglese era un monumento di saggezza politica”.

Ma già in questo testo si possono intravedere le posizioni politiche che Marat esprimerà nel corso della Rivoluzione. Tra l’altro la condanna senza attenuanti della religione ed in particolare del cristianesimo come pilastro fondamentale dell’assolutismo monarchico.

Va sottolineato che Marat chiede l’abolizione della pena di morte, fatta eccezione per alcuni delitti particolarmente efferati. In questo anticipando il primo intervento che Robespierre farà alla Costituente proprio contro la pena capitale.

Questo libro costituisce anche un mezzo per far riflettere lo stesso Marat sul concetto di sovranità del popolo e già qui si intravede la sua grande simpatia per gli oppressi. Infatti emerge con forza la sua profonda indignazione per l’ingiustizia di certe leggi che colpivano con più severità i ceti più poveri della popolazione, denuncia con forza la pessima organizzazione degli ospizi e degli ospedali ed in queste pagine riusciamo già ad intravedere il futuro leader rivoluzionario colui che sarà il tribuno più amato dai sanculotti.

E quindici anni prima della rivoluzione Marat poteva scrivere:

“Il male è nelle cose stesse ed il rimedio è violento. Dobbiamo portare la scure alla radice. Dobbiamo far conoscere al popolo i suoi diritti e quindi impegnarsi per rivendicarli; bisogna mettergli le armi in mano, assalire in tutto il regno i meschini tiranni che lo tengono oppresso, rovesciare l’edificio mostruoso del nostro governo e costruirne uno nuovo su una base equa. Le persone che credono che il resto del genere umano ha lo scopo di servirli per il loro benessere indiscutibilmente non approveranno questa soluzione, ma non sono loro che devono essere consultati; si tratta di risarcire un intero popolo dall’ingiustizia dei loro oppressori.”

E non si può assolutamente sottovalutare il suo ruolo anche teorico come si può vedere nel suo Plan de législation criminelle del 1780 dove anticipa il Proudhon che definiva “La proprietà è un furto”:

“Il diritto di possedere deriva da quello di vivere; quindi tutto quanto è indispensabile alla nostra esistenza ci appartiene; e nulla di superfluo potrebbe appartenerci legittimamente, mentre altri mancano del necessario. Ecco il fondamento legittimo di qualunque proprietà, sia nello stato di società, sia nello stato di natura.”

Ma con questo non vogliamo però dare l’impressione di un Marat socialista, egli è ovviamente un uomo del suo tempo e certamente si possono vedere nelle chaînes de l’esclavage anche i limiti del suo pensiero politico.

Certo minaccia la nobiltà terriera, l’alto clero, vuole dare la terra ai contadini, ma in fondo non ha nessuna intenzione di abolire la proprietà privata che come insegna anche Rousseau “per natura” spetta a tutti gli uomini. Infatti il diritto di proprietà è per tutti i pensatori politici del seicento e settecento un diritto fondamentale che neanche Marat mette in discussione anzi per questo si oppone duramente alle proposte e alla linea politica degli Enragés.

Certamente nella sua visione sociale egli anticipa tutta una serie di forme di assistenza, di cooperazione o di intervento dello Stato a favore dei meno abbienti, in difesa dei poveri e contro l’arroganza dei nobili e della ricca borghesia, ma il tutto senza mettere in discussione il diritto di proprietà. E dobbiamo altresì ricordare che ci troviamo nel XVIII secolo in una Francia, che al contrario dell’Inghilterra, è un paese con una economia ancora rurale e dove non si trovano masse operaie, ma solo contadine.

Marat quindi non è un proto socialista, ma è invece un profondo intellettuale e come abbiamo potuto vedere con una prospettiva tutt’altro che provinciale, ma proprio perché è un uomo del suo tempo farà di tutto per entrare nell’Accademia delle Scienze o per avere un titolo nobiliare senza peraltro ottenere tali riconoscimenti. E’ un medico abbastanza stimato tanto che nel 1777 ha la responsabilità sanitaria della Compagnie des Suisses del Conte d’Artois, uno dei fratelli del Re, il futuro Carlo X. Ed è tra i primi a sostenere la possibilità dell’uso terapeutico dell’elettricità.

Ma è anche l’unico rivoluzionario preparato per gli avvenimenti che nel 1789 porteranno la Francia alla pagina più gloriosa e nel contempo più tragica della sua storia. Quando verranno convocati gli Stati Generali da Luigi XVI egli è già un uomo non più giovane avendo 45 anni, mentre Robespierre e Danton sono dei trentenni.

La sua esperienza inglese come fa notare lo storico Albert Mathiez lo porta ad essere estremamente pessimista anche sulla democrazia rappresentativa: “Mentre i francesi del 1789 si facevano le più ingenue illusioni sul valore del sistema rappresentativo, Marat (…) conosceva già molto bene i mezzi usati per dirigere la stampa, fare le elezioni, comprare i deputati ecc. Di qui la sua diffidenza, di qui il suo pessimismo, di qui i suoi giudizi acuti sugli uomini e sulle cose.”

Infatti si può osservare già nelle chaînes de l’esclavage un pessimismo di fondo che rimarrà una caratteristica di questo grande rivoluzionario. Ma in fondo è proprio questo pessimismo che contribuisce a renderlo il politico più acuto e lungimirante della rivoluzione e nel 1790 può ammonire in modo realistico che non si può più indietreggiare:

“Lo ripeto: è il colmo della follia pretendere che uomini che da dieci secoli hanno la possibilità di dominarci, di derubarci e di opprimerci impunemente, si risolvano di buon grado ad essere soltanto nostri uguali: essi trameranno in eterno contro di noi, fino a che non saranno sterminati; e se noi non prendiamo questo partito, il solo che detta la voce imperiosa della necessità, ci sarà impossibile sfuggire alla guerra ed evitare che noi stessi finiamo per essere massacrati.”

Il suo giornale L‘Ami du peuple sarà quindi uno dei principali punti di riferimento dei sanculotti e degli elementi più radicali dei Clubs repubblicani e probabilmente se non fosse stato ucciso dalla mano della Corday forse sarebbe stato l’unico che avrebbe potuto opporsi o attenuare il Grande terrore di Robespierre perché come già ammoniva nelle chaînes de l’esclavage: “per restare liberi occorre stare sempre in guardia nei confronti di chi governa”.”

(Stefano Santarelli in: ilmarxismolibertario.wordpress.com)

 

Intervista impossibile al politico e rivoluzionario francese Jean-Paul Marat (1743-1793), interpretato dall’attore e drammaturgo Carmelo Bene, con la partecipazione del poeta e regista Nelo Risi nel ruolo dell’intervistatore.

24 maggio 1743 nasce Jean-Paul Marat, medico, giornalista e politico svizzero-francese (morto nel 1793).

 

Un brano musicale al giorno

Jan Zach (1699-1773), Harp Concerto in Do minore, Mariella Nordmann

1. Allegro spirituoso
2. Andante
3. Allegro

Orchestre d'Auvergne. Direttore: Jean-Jacques Kantorow.

Johann

Johann "Jan" Zach (Čelákovice, 13 novembre 1699 - Ellwangen, 24 maggio 1773) compositore boemo. Ebbe i primi insegnamenti musicali nella città natale Čelákovice, poi nel 1724 si recò a Praga ove fu probabilmente allievo di B. Černohorský.

Dal 1725 fu attivo come violinista presso le chiese di San Gallo e San Martino (anche come 2° organista). Nel 1737, avendo concorso invano per l'organo di San Vito, partì per la Germania ove visse in varie città; dapprima a Magonza come direttore della cappella palatina (1745) di principe-arcivescovo Johann Friedrich Karl von Ostein poi, afflitto da una malattia mentale, causata probabilmente da una delusione amorosa, a Coblenza (1757 e diverse altre volte), Dillingen (1759), Colonia (1761) Amorbach (1763) Darmstadt (1765) Stams nel Tirolo (1767) Wallerstein (1773).

Soggiornò anche in Italia tra il 1746 e il 1772. La sua vita errabonda lo portò infine a Bruchsal, in cui morì in un manicomio nel 1773.

(In: wikipedia.org)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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