L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
BENNY'S VIDEO (Austria, Svizzera 1992), regia di Michael Haneke. Prodotto da Veit Heiduschka. Soggetto e sceneggiatura: Michael Haneke. Fotografia: Christian Berger. Montaggio: Marie Homolkova. Cast: Arno Frisch, Benny. Angela Winkler, Anna, madre di Benny. Ulrich Mühe, Georg, padre di Benny. Stephanie Brehme, Evi. Stefan Polasek, Ricci. Ingrid Stassner, Mädchen.
Benny, adolescente che vive in una famiglia d'alta borghesia e grande appassionato di filmati amatoriali, passa le sue giornate a scuola la mattina e il pomeriggio sta rinchiuso in camera sua, fra decine di videocamere e televisioni che contemporaneamente trasmettono filmati differenti a tenergli compagnia, a fare i compiti; o esce solamente per andare nella videoteca a comprare sempre nuove videocassette. La sua stanza è serrata da alcune tende che coprono le finestre ed è una specie di covo soltanto illuminato dalla abat-jour sulla scrivania. Con due genitori quasi completamente assenti per lui, Benny, dopo aver visto e rivisto il video girato da lui di un maiale ucciso, decide di compiere lo stesso gesto ma con una ragazzina appena conosciuta alla videoteca. Se la porta a casa per fare amicizia e dopo averle mostrato il filmato dell'uccisione del suino, la ammazza colpendola nella stessa maniera, filmando il tutto con la sua videocamera. Dopodiché, nasconde il corpo nell'armadio e soddisfatto riguarda il video. Dopo qualche giorno Benny decide di rasarsi i capelli a zero, causando così reazioni di disapprovazione nei genitori. Una sera il ragazzo riguarda per l'ennesima volta il filmato dell'omicidio commesso alla ragazzina, ma alle sue spalle compaiono i genitori, che guardano il video per tutta la durata. Il padre però non volendo che Benny finisca al carcere minorile o in un istituto psichiatrico, decide di sbarazzarsi del cadavere della ragazzina e di mandare per qualche giorno sua moglie e suo figlio a fare un viaggio in Egitto, per far distaccare Benny da ciò che è accaduto e farlo un minimo riflettere sulle conseguenze che ci potrebbero essere state.
“Benny’s Video parte nella festosa atmosfera tra amici della sorella di Benny, subito interrotta bruscamente dal padre, Georg, che invita tutti quanti ad andarsene. L’effetto incisivo delle parole dell’uomo crea un’anomalia in una situazione normale, ed è il primo segno perturbante che destruttura l’ordine costituito dagli avvenimenti. Per tutto il film tale anomalia è il filo conduttore che determina il corso degli eventi.
Benny è un adolescente, in una famiglia benestante, con l’hobby della videoripresa. Gira video, noleggia film in videoteca e fa della sua stanza un laboratorio di immagini in movimento. La “camera oscura” in cui vive è la sua caverna, il suo rifugio. Non intrattiene nessun rapporto con i genitori e si isola sempre più perdendo il senso della realtà. Conosce, davanti alla videoteca, una ragazza (Ingrid Strassner), sua coetanea. Se la porta a casa e le mostra un video amatoriale sulla macellazione di un maiale. Il film che si apre con le immagini, riprese da Benny, della macellazione dell’animale presenta subito questa situazione: il video si pone all’istante come elemento metacinematografico, visto che improvvisamente si interrompe, torna indietro e riparte al rallentatore.
L’anomalia retroattiva della riproducibilità delle immagini è un primo segnale destabilizzante che Haneke pone allo spettatore; il regista concentra l’anomalia di Benny e il suo transfert in un mondo s-personalizzato, dove lui è il padrone e il deus ex machina di ogni azione: lo vediamo distribuire droga (farmaci) a pagamento durante le prove del coro, “sedurre” la ragazzina, fumare altezzosamente e presentarsi come un uomo adulto capace di controllare la realtà (la telecamera live sulla strada sottostante), invitarla a casa, offrirle da mangiare e infine ucciderla. Quest’ultimo momento rappresenta la “perdita di controllo” sul reale evidenziando lo spaesamento di fronte alla morte. In seguito Benny mostra il video del suo delitto ai genitori, che una volta assicuratisi che nessuno ha né visto né sentito quello che è successo, decidono di rimuovere “il problema”. La persistente esposizione alle immagini del ragazzo ha poco alla volta nullificato la sua identità e ogni suo collegamento con il reale. La televisione, sia come palinsesto, sia come strumento di riproduzione cancella lentamente ogni cosa fino ad isolare l’individuo in universo mediatico dove non c’è più distinzione tra bene e male, tra reale e virtuale e tra azione e riproduzione: il “controllo” e l’assenza dei genitori permettono il germinare della devianza.”
(Fabrizio Fogliato in www.nocturno.it)
“Benny (Arno Frisch) è un ragazzo proprio fortunato. Ha tutto ciò che un adolescente può chiedere alla propria condizione anagrafica, famigliare e sociale. Unico rampollo maschio di una famiglia dell’alta borghesia austriaca, abita in una bella casa, con una camera tutta per sé, dotata delle più moderne apparecchiature tecnologiche, ed è in grado di soddisfare tutti i capricci o i desideri che gli illuminino la mente. I genitori, spesso assenti, sia fisicamente, in quanto impegnati entrambi col proprio lavoro, sia affettivamente, a causa di una scarsa capacità comunicativa e di un sostanziale disinteresse, cercano di colmare tale vuoto con tutti i surrogati materiali che il ragazzo possa volere e la loro tasca comprare. Egli, quindi, gode di ampi mezzi e libertà, nonché di scarso controllo: il sogno di ogni adolescente.
Benny è anche un assassino. Niente di truculento o efferato, nessuna patologia clinica evidente, disturbo della personalità, delirio di onnipotenza, deviazione sessuale; o forse tutti questi elementi insieme, ma sottotraccia. Michael Haneke, secondo il suo stile, che all’epoca di questo suo secondo lungometraggio risulta già maturo e consolidato (dopo gli esiti già notevoli del suo precedente lavoro Il settimo continente), non tenta vani psicologismi, trite dietrologie sociopolitiche o moralismi fuorvianti, ma lascia scorrere le immagini e gli eventi, il cui senso spesso si cela dietro piccoli segni, gesti, comportamenti, sguardi, parole.
Il film si apre con la ripresa sgranata di un video amatoriale, che raffigura l’uccisione di un maiale in un mattatoio. Dopo lo sparo e il crollo dell’animale, una mano invisibile riavvia il video e lo mostra al rallentatore. Tale sequenza è emblematica per almeno tre motivi: nonostante la sua veridicità da snuff movie, manifesta appieno quanto la riproduzione audiovisuale della realtà possa essere manipolabile; indica uno dei due codici semiotici al lavoro nel film, vale a dire quello della ripresa amatoriale e soggettiva (il cui autore diegetico è quasi sempre Benny), in quanto contrapposto a quello dell’oggettiva del racconto filmico; infine si inserisce nel contesto della narrazione, spiegando come il protagonista (sua è la mano invisibile che riavvia il video, nonché quella che l’ha girato, ma lo si scoprirà solo successivamente) sia attratto dalle immagini estreme.
Lo spazio in cui Benny si muove, il suo regno, è la sua stanza, dotata di uno schermo televisivo, di un monitor, di un videoregistratore, di una videocamera portatile e di uno stereo. I due schermi assolvono due funzioni differenti, ancorché contigue. Quello televisivo, oltre al suo utilizzo tradizionale, viene adoperato anche per visionare i filmati da lui realizzati e le videocassette che egli quasi giornalmente noleggia. Il monitor, invece, è collegato sia a una videocamera fissa, collocata all’esterno dell’abitazione e puntata sulla strada per sorvegliare l’esterno, sia alla videocamera portatile puntata verso la stanza.
L’ossessione di controllo sull’ambiente interno, così come sul mondo esterno, ma anche sulla realtà e sulla sua rappresentazione, diviene per Benny l’illusione di essere in grado di estendere il potere del proprio sguardo di sorvolo sulle cose senza contaminarsi o mischiarsi con esse, mantenendo la distanza di sicurezza garantita dagli apparati di cui si circonda. Senza alcuna reversibilità. Puro occhio indagatore, guardante che non ama essere guardato/guardabile, il suo scopo ultimo diviene quello di inverare la realtà, riproducendola audio-visualmente per poterla così possedere, archiviare e rivedere fino allo sfinimento. Una realtà seconda, costituita da immagini in movimento e suoni, che, differentemente da quella fisica, non deperisce e in cui persino chi muore può rinascere, per poi morire di nuovo. Per sempre.
Haneke rielabora il mito della caverna platonico, capovolgendone magistralmente gli esiti. Benny si pasce di ombre, di fantasmi, al sicuro nella propria camera-antro, un non-luogo dove il tempo è bandito, semplicemente perché ne sono esclusi gli effetti e dove la realtà e la finzione si mescolano fino a diventare indiscernibili. Le immagini però non gli bastano più ed egli decide di uscire dal suo rifugio, per cercare una cavia per il suo esperimento decisivo: scoprire com’è la morte, la zona d’ombra del reale e della vita. Conosce una coetanea, che bazzica la videoteca da lui assiduamente frequentata, la invita a casa propria, mentre i genitori sono assenti, le offre da mangiare e le parla. Poi le mostra il video dell’esecuzione dell’animale e, dopo aver acceso la videocamera per riprendere la scena, la uccide, usando la pistola da macello che si vede nel video dell’uccisione del suino.
L’incontro con la realtà fisica, però, anche nei suoi esiti più estremi, anziché costituire un’esperienza autentica, traumatica, piacevole, sublime, terribile, finisce col diventare un noioso episodio di routine - degno di essere rivisto e rivissuto, magari con calma, in seguito - da concludere al più presto, nascondendone le tracce, per tornare alle proprie occupazioni e soprattutto alla propria camera oscura e impenetrabile.
Inoltre va notato come, nella sua robotica smania di controllo sulle cose, il protagonista rifugga da tutto ciò che trascende il proprio ordine mentale. La morte del maiale, nel video che apre il film, si svolge secondo un copione, un ordine prestabilito, e Benny, puro voyeur, la filma, senza incontrare ostacoli, per rivedersela all’infinito nel proprio confortevole spazio organizzato. Più frequentemente, però, la morte è caotica, disarmonica, incontrollabile ed è questo che lo infastidisce (più che spaventare). Dopo aver sparato il primo colpo alla ragazza, lei non muore, anzi si lamenta e cade, uscendo dall’inquadratura della videocamera. La morte avviene fuoricampo, con Benny costretto a sparare ancora, mentre la videocamera riprende stolidamente un ambiente svuotato dei suoi personaggi, ma non delle sonorità che ne indicano la presenza/assenza. L’imponderabile ha tracimato, invadendo l’esistenza del protagonista, sotto forma di vita morente e refrattaria ai codici della ripresa. Un duplice sberleffo hanekiano al suo poco amato protagonista e allo spettatore, abituato ormai all’iper-visibilità televisiva e cinematografica (1).
1) Uno dei film che Benny noleggia è The Toxic Avenger (Michael Herz e Lloyd Kaufman, 1984), un vero inno all’oscenità splatter, ancorché stemperato dall’ironia.
L’ossessione per l’ordine e per l’equilibrio che ne deriva non affligge solo il protagonista, ma anche i suoi genitori. Una volta scoperto il crimine del figlio, anziché provare sgomento per il gesto e pietà per la vittima, si preoccupano di quanto turbamento esso arrecherà alla tranquillità e all’ordine delle loro vite. Il loro unico scopo diviene allora quello di coprire le nefandezze di Benny, affinché la loro rispettabilità e il futuro del loro rampollo non vengano messi a repentaglio. Il padre, Georg (Ulrich Mühe), si assume il compito di fare a pezzi (“dovranno essere molto piccoli”, comunica alla moglie in un eccesso di efficientismo) il cadavere e di farlo sparire, oltre a distruggere il nastro dell’omicidio, mentre la madre, Anna (Angela Winkler), dovrà cercare di far ritrovare la pace interiore (mai compromessa, in realtà) al figlio, attraverso un viaggio in Egitto.
È proprio il viaggio, altrove veicolo di salvezza (2), a costituire invece il principio della fine per la famiglia, nonché lo svelamento di alcuni ulteriori frammenti di verità circa la personalità del protagonista. Anziché assaporare tale esperienza come una sana uscita da sé, come la possibilità di educare finalmente il proprio sguardo a posarsi in modo diverso su un mondo nuovo e sconosciuto, Benny la vive come una noia mortale. Fuori dalla sua tana, il piccolo mostro è inerme, se non fosse per la videocamera che ha portato con sé: un’arma di offesa (perché tenta di carpire il mistero delle cose, senza riuscirci, evidentemente) e di difesa (perché funge da filtro fra l’occhio e il mondo). Non a caso, tutte le immagini raffiguranti gli esterni in Egitto sono delle soggettive di Benny e della sua videocamera; gli interni nell’albergo sono invece girati come delle oggettive con macchina da presa professionale.
2) Nel Vangelo di Matteo, Maria, Giuseppe e Gesù neonato fuggono in Egitto per evitare l’ira di Erode, una minaccia letale per il primogenito della Sacra Famiglia. Ironia hanekiana?
C’è un’unica cosa che preoccupa Benny: il fatto che il suo crimine sia noto solo ai suoi genitori, che la verità del suo atto sia invisibile al mondo. Una volta tornato in Austria, si autodenuncia alla polizia, portando con sé l’unica prova rimasta: una registrazione audiovisuale, da lui effettuata, del dialogo in cui i genitori pianificano, fuoricampo, ma con le loro voci perfettamente udibili, la loro complicità col figlio e le loro intenzioni per coprirne i misfatti. Una volta finita la deposizione, ingenuamente, Benny chiede: “posso andare, ora?”, quasi si trattasse di una birichinata, di una marachella infantile.
Il fatto è che Benny non ha niente da nascondere, in cuor suo, perché niente è accaduto, nessuna esperienza, nessun mutamento palese (dopo l’omicidio si fa radere i capelli a zero, quasi avesse bisogno di percepire fisicamente un cambiamento che la sua mente e il suo cuore, ottusamente, rifiutano), nessuna maturazione o salto qualitativo nella comprensione della realtà. Alla fine del film, lo si vede uscire dalla sala degli interrogatori, inquadrato sul monitor di una telecamera di sorveglianza, mentre i genitori aspettano di entrare per essere a loro volta interrogati: da puro sguardo è divenuto puro oggetto visibile; da controllore, controllato. E non se n’è accorto.”
(Gian Giacomo Petrone in www.orizzontidigloria.com)
- Il film Benny's Video I English Subtitles I 1992 BluRay (Michael Haneke)
Una poesia al giorno
Da ich ein Kind war, di Friedrich Hölderlin
Da ich ein Knabe war,
Rettet’ ein Gott mich oft
Vom Geschrei und der Rute der Menschen,
Da spielt’ ich sicher und gut
Mit den Blumen des Hains,
Und die Lüftchen des Himmels
Spielten mit mir.
Und wie du das Herz
Der Pflanzen erfreust,
Wenn sie entgegen dir
Die zarten Arme strecken,
So hast du mein Herz erfreut,
Vater Helios! und, wie Endymion,
War ich dein Liebling,
Heilige Luna!
O all ihr treuen,
Freundlichen Götter!
Dall ihr wüsstet,
Wie euch meine Seele geliebt!
Zwar damals rief ich noch nicht
Euch mit Namen, auch ihr
Nanntet mich nie, wie die Menschen sich nennen,
Als kennten sie sich.
Doch kannt’ ich euch besser
Als ich je die Menschen gekannt,
Ich verstand die Stille des Äthers,
Der Menschen Worte verstand ich nie.
Mich erzog der Wohllaut
Des säuselnden Hains
Und lieben lernt’ ich
Unter den Blumen.
In Arm der Götter wuchs ich gross.
Quand’ero un fanciullo (in D. Valeri, Lirici tedeschi, Milano, Mondadori, 1959)
Quand’ero un fanciullo
Spesso un dio mi salvava
Dalle verghe e dagli urli dei grandi.
Sicuro e buono giocavo
Coi fiori del bosco,
E le aurette del cielo
Giocavano con me.
E come tu allieti
Il cuor delle piante,
Quand’esse ti protendono
Le tenere braccia,
Così allietavi me pure,
Elio padre! E al par di Endimione
Ero il tuo beneamato,
O santa Luna.
O voi tutti, fedeli,
Amici iddii!
Quanto più siete deserti,
Più vi ama l’anima mia!
Né allora io vi chiamavo
Coi vostri nomi, né voi
Davate un nome a me, come gli uomini fanno
Se tra lor si conoscono.
Pure, io vi conoscevo
Assai meglio che gli uomini;
Comprendevo il silenzio dell’etere:
Le umane parole mai non compresi.
Mi allevò l’armonia
Del susurrante bosco,
E appresi ad amare
Tra i fiori.
Crescevo in braccio agli dèi.
“Friedrich Hölderlin nasce a Lauffen am Neckar nel 1770. La sua vita è subito messa alla prova dalla morte del padre quando ha solo due anni. Inizia fra il 1784 e il 1788 gli studi di teologia prima presso i seminari di Denkendorf e Maulbronn, poi all'università di Tubinga dove conosce Hegel e Schelling. Nel 1793 viene abilitato all'esercizio di pastore, ma per motivi ideologici si rifiuta di assumere un simile incarico, rivolgendosi piuttosto alla scrittura e alla carriera accademica. Dopo essere entrato in contatto con Herder, Schiller e Goethe a Jena e a Weimar nel 1796 riprende l'attività di precettore. Successivamente si reca, sempre per tale mansione, a Francoforte sul Meno presso un ricco banchiere della cui moglie Susette s’innamora e che verrà cantata con il nome di Diotima. È uno dei pochi periodi felici della sia vita, ma dopo le umiliazioni subìte dal geloso marito di Susette è soggetto a continue crisi di coscienza. Sempre più agitato e spesso in stato confusionale si sposta a Homburg vor der Höhe per assumere la carica di bibliotecario; serenità e lucidità torneranno a sprazzi nella sua vita fino alla catarsi completa. Si rifugia nella sua torre a Tubinga, sul Neckar. Nell’anno della morte, il 1843, crea la sua ultima poesia La veduta, che firma con lo pseudonimo di Scardanelli.
(...)
Degna di menzione per la particolare bellezza è la poesia Andenken, presumibilmente scritta nel 1803. Andenken significa “rimembranza” e qui rianalizza l’essenza stessa del canto poetico, oltre nuovamente alla mansione del poeta; quest’ultimo deve mantenere in vita la parola delle origini, pura e inviolata che solo lui attraverso la sua sensibilità artistica, può ancora udire. Il poeta diventa il cantore dell’immortalità, di qualcosa che va ricordato, memoria alla quale egli può ancora aver accesso. Hölderlin lascia così permeare i suoi versi da intuizioni filosofiche che fungono da viatico per combattere la lacerazione del suo tempo e cogliere la profondità di una nuova lingua che possa ricreare quell’autenticità perduta dall’uomo. È proprio nella capacità di cogliere questa scissione, frammento e spaccatura che si racchiude la folgorante grandezza di questo lirico tedesco.”
(Leggi l'articolo completo in: www.viaggio-in-germania.de)
Un fatto al giorno
23 marzo 1801: Lo zar Paolo I di Russia viene colpito da una spada, quindi strangolato e infine calpestato a morte nella sua camera da letto al Castello di San Michele.
“Paolo I Petrovič Romanov, (San Pietroburgo, 1º ottobre 1754 - San Pietroburgo, 23 marzo 1801), è stato imperatore di Russia dal 1796 al 1801. Era figlio della Gran Principessa e poi imperatrice Caterina II e dell'imperatore Pietro III. Ancora bambino, Paolo fu sottratto alla madre dall'imperatrice Elisabetta, che riteneva negativo per la sua salute l'ambiente materno. Del ragazzo si dice fosse intelligente e di bell'aspetto. Ad un attacco di tifo che lo colpì nel 1771 è probabilmente dovuta l'espressione inusuale che caratterizzava il suo volto. Molto si è scritto sul fatto che la madre, Caterina, lo odiasse e che, solamente per il timore delle conseguenze che un altro omicidio in casa Romanov (dopo quello del consorte Pietro III) avrebbe potuto suscitare, si astenesse dal farlo uccidere.
(...)
Dopo il matrimonio, Paolo incominciò ad essere coinvolto negli intrighi di corte. Convinto di essere il bersaglio di tentativi, da parte della madre, di assassinarlo, arrivò ad accusarla apertamente per la presenza di un vetro nel suo cibo. In seguito a questi atteggiamenti Caterina lo rimosse dal consiglio e prese le distanze da lui pur senza trattarlo scortesemente. L'uso che il ribelle Pugačëv fece del suo nome nel 1775 non migliorò di certo la sua posizione a corte. Nello stesso anno la moglie morì di parto e Paolo si risposò con Sofia Dorotea di Württemberg, che assunse il nome russo di Marija Fëdorovna.
(…)
Erano presenti il principe Platon Zubov, ultimo amante di Caterina II, e suo fratello, il principe e generale Nikolaj. Pahlen guidava la rivolta assieme al generale Bennigsen. A mezzanotte guadagnarono l'entrata segreta del castello Michajlovskij e, dopo essere entrati, la stanza da letto dello zar. Con orrore, però, la trovarono vuota e temettero il peggio, ma Bennigsen, mantenendo il sangue freddo, esaminò la stanza, scoprendo dietro un paravento i piedi dell'imperatore, nascostosi in un disperato tentativo di sfuggire ai suoi assassini. Trascinato in mezzo alla stanza, fu colpito da Nikolaj Zubov con una tabacchiera d'oro, e subito dopo il suo valletto di camera si sedette sul corpo di Paolo. Infine, l'ufficiale Skariatin finì lo zar strangolandolo con la sua sciarpa. Platon Zubov si recò allora dal figlio primogenito di Paolo Alessandro, che si trovava nel palazzo, per comunicargli la sua ascesa al trono. Fu ufficialmente annunciato che lo zar era deceduto nel sonno per cause naturali. Venne sepolto nella tomba imperiale della Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo (San Pietroburgo).”
(Leggi l’articolo completo in: wikipedia.org)
Una frase al giorno
“Noi vediamo le cose quali la nostra testa se le figura. Bisogna quindi conoscere questa nostra testa”
(Marie-Henri Beyle, noto come Stendhal, Grenoble, 23 gennaio 1783 - Parigi, 23 marzo 1842, scrittore francese)
“Stendhal, amante dell'arte e appassionato dell'Italia dove visse a lungo, esordì in letteratura nel 1815 con le biografie su Haydn, Mozart e Metastasio, seguite nel 1817 da una Storia della pittura in Italia e dal libro di ricordi e d'impressioni Roma, Napoli, Firenze. Quest'ultimo fu firmato per la prima volta con lo pseudonimo di Stendhal, nome forse ispirato alla città tedesca di Stendal, dove nacque l'ammirato storico e critico d'arte Johann Joachim Winckelmann.
I suoi romanzi di formazione Il rosso e il nero (1830), La Certosa di Parma (1839) e l'incompiuto Lucien Leuwen, scritti in una prosa essenziale che ricerca la verità psicologica dei personaggi, fanno di Stendhal, con Balzac, Dumas, Hugo, Flaubert, Maupassant e Zola, uno dei maggiori rappresentanti del romanzo francese del XIX secolo: i suoi protagonisti sono giovani romantici che aspirano alla realizzazione di sé attraverso il desiderio della gloria e l'espansione di sentimenti appassionati.”
(Articolo completo in wikipedia.org)
“Contemporaneo del romanticismo, autore di due dei più famosi romanzi del XIX secolo - Il rosso ed il nero e La Certosa di Parma - e, in quanto tale, ricompreso tra gli scrittori realisti Balzac e Flaubert-, Stendhal è tuttavia risolutamente altro: nel momento in cui scrivere diventava un lavoro e sebbene abbia scritto molto, è restato un dilettante che adorava la letteratura, come anche le donne e l'Italia. Energia, passione, orrore dell'ipocrisia, desiderio della natura, inseguimento della felicità, egotismo: tutte queste parole disegnano il profilo di Stendhal. Se si aggiunge a ciò il gusto per lo scherzo leggero e chic, l’attrazione per i pseudonimi e per i mascheramenti, la certezza infine di essere capito soltanto nel XX secolo - che immaginava meno conformista del suo -, si ottiene un ritratto esatto di ciò che la modernità ha affermato in termini d'individualismo e di libertà, e a cui Stendhal ha arrecato il suo innegabile contributo.
Nato in una famiglia della borghesia agiata, ha soltanto diciotto anni quando comincia il suo Diario (pubblicato nel 1888). Lo redige attivamente fino al 1812, per abbandonarlo nel 1817. Per un po’ in sordina, l'attività autobiografica riprende il sopravvento nel 1832 con I ricordi d’egotismo (pubblicati nel 1893) che riferiscono del periodo parigino di Stendhal (1821 -1830) fino alla sua partenza per Milano e tentano di rispondere alla domanda «Chi sono io?», attraverso il resoconto di amori malinconici e con una preoccupazione costante di scavare il più possibile nell’intimo.
Quanto alla Vita di Henry Brulard (pubblicato parzialmente nel 1890), si presenta come una meditazione sul passato, un'evocazione dell'infanzia e della gioventù (dal 1783 a 1800): l’io inquirente tenta di ricostruire una vita a partire dalle immagini, da memorie grezze, da sensazioni che dovrebbero consentirgli di sapere infine chi è quest'uomo di cinquant’anni che traccia con nostalgia e lucidità, con la punta di un bastoncino sulla sabbia di una strada italiana, le iniziali delle donne che ha amato.
(...)
Nel 1834, comincia un grande romanzo politico, Lucien Leuwen, meditazione sul potere e le sue trappole, ricerca inutile da parte dell'eroe eponimo di un ideale al quale ricollegarsi, opera che Stendhal non completerà. Di getto, in soli 52 giorni, scrive La Certosa di Parma (1839), opera in cui ritorna all'Italia, terra dell’altrove e della felicità, ultima e romantica utopia poetica. Quindi tenta di dare un corrispettivo femminile a Julien Sorel con Lamiel, romanzo che resterà anch’esso incompiuto.
Stendhal muore d'apoplessia nel 1842.
Un modello stendhaliano?
L'incompiutezza, come pure l’andamento conciso e “svelto” della sua scrittura, è una caratteristica costante del procedimento stendhaliano: nella formula così singolare della sua creazione artistica ciò che conta è la natura, il gusto dei dettagli veri, un realismo malizioso messo a repentaglio dal gioco del romanziere che dilata i personaggi al fine di dar risalto al loro io più che alle vicende narrate, che peraltro non nascondono, anch’esse, il loro carattere “romanzesco”. Octave di Armance, Julien, la signora de Rénal, Mathilde, Lucien e su tutti Fabrizio e Clelia sono i veri figli di Stendhal: egli li sgrida, li critica, a volte si prende gioco di loro ma talaltra si intenerisce per le loro vicende, porgendo comunque la storia dal loro punto di vista ossia di chi patisce le vicende narrate. Non c’è onniscienza impassibile del romanziere nel suo stile, ma una soggettività appassionata tesa ad avvicinare efficacemente i suoi personaggi al lettore facendogliene degli amici. Amano, gioiscono deliziosamente di alcuni momenti rari dove la felicità è appena accennata, quindi svaniscono, vanno a raggiungere l’irrealtà originale da cui provengono, ossia l’Io stendhaliano, la sua fantasia creatrice che è un misto di passione, ardore, tensione alla vita.
Se esiste un modello stendhaliano di romanzo, esso è un gioco seducente e leggero che consiste nel rifiuto della seriosità e nell’adozione di uno stile romanzesco che sembra andare allo scoperto senza mai caricare il genere letterario prescelto di troppi interrogativi teorici e programmatici, ma di assegnargli la semplice funzione di suggerire un momento di piacere, o, per dirla con lo stesso linguaggio di Stendhal, una promessa di felicità.”
(Leggi l’articolo completo in: lafrusta.homestead.com)
23 marzo 1842 muore Stendhal, romanziere francese (nato nel 1783)
Immagini:
Francia, Italia, Germania, 1997, durata 200' film per la tv. Regia di Jean-Daniel Verhaeghe
Con Carole Bouquet, Kim Rossi Stuart, Judith Godrèche, Claude Rich, Bernard Verley, Constanze Engelbrecht, Francesco Acquaro
Un brano musicale al giorno
Musica: Leon Minkus. Libretto: Marius Petipa. Balletto nazionale russo S. Radchenko. Balletto in tre atti. Coreografia: Marius Petipa, Alexander Gorskiy. Versione teatrale: Yuri Vetrov, Elen, Alexander Daev (assistente coreografo). Set e costumi: Lev Solodovnikov, Elena e Sergey Radchenko. Luci: Marina Borodina.
Don Quixote è basato su un episodio tratto dal famoso romanzo Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes. Fu originariamente coreografato da Marius Petipa sulla musica di Ludwig Minkus e fu presentato per la prima volta dal Balletto del Teatro Imperiale Bolshoi di Mosca, il 26 dicembre 1869. Tutte le produzioni moderne del balletto Petipa / Minkus derivano dalla versione messa in scena da Alexander Gorsky per il Teatro Bolshoi di Mosca nel 1900, una produzione messa in scena dal maestro di balletto per il balletto imperiale di San Pietroburgo nel 1902.
23 marzo 1826 nasce Aloisius Ludwig Minkus (Velké Meziříčí, 23 marzo 1826 - Vienna, 7 dicembre 1917) violinista e compositore austriaco vissuto sotto l'impero asburgico.
Minkus è famoso soprattutto per i balletti che compose durante i suoi anni alla corte dei Teatri Imperiali di San Pietroburgo come “Primo compositore di balletto”, posto che occupò dal 1871 fino alla sua abolizione nel 1886. Continuò a comporre musica regolarmente per i Teatri Imperiali fino al 1891, anno in cui si ritirò a Vienna. Minkus scrisse quasi tutta la sua musica per i maestri del balletto Arthur Saint-Léon e Marius Petipa. I suoi balletti più famosi sono La source (del 1866, composta con Léo Delibes), Don Chisciotte (1869) e La bayadère (1877).
(...)
Come molti dei compositori specializzati in balletto venuti prima di lui, Minkus componeva la maggioranza delle partiture durante le prove mentre il coreografo componeva le danze. Il musicista metteva in pratica le istruzioni dettagliate del coreografo, componendo così musica "su ordinazione". Anche Čajkovskij subì la stessa sorte per La bella addormentata e Lo schiaccianoci, che si vide anche cambiate le partiture da Petipa. Spesso Minkus scriveva quattro o cinque passaggi melodici per una variazione in modo che il coreografo potesse scegliere quelli a lui più congeniali cosicché la musica veniva tagliata su misura per adattarsi a qualsiasi cambiamento. Molte delle partiture originali di Minkus contengono numerose ripetizioni opzionali di varie frasi, anticipando così i tagli durante la produzione. C'erano momenti in cui Minkus componeva musica per grandi ensembles (un'ouverture, quattro o cinque passaggi melodici e una chiusura) che poi veniva assemblata dal coreografo a seconda di quanta musica gli serviva. Ancor più interessante, c'erano momenti in cui la musica che doveva essere composta per un pas era già stata coreografata in un altro balletto. A Minkus veniva spesso richiesto di interpolare la musica di altri compositori all'interno dei suoi lavori, sempre agli ordini della ballerina che voleva danzare la sua variazione preferita presa da un altro balletto. Queste interpolazioni spesso richiedevano che la musica inserita in mezzo ad altri brani fosse adattata per permettere transizioni coerenti. La maggior parte della musica per balletto di Minkus è in tempo doppio o triplo (2/4, 4/4, 3/4, 6/8 e 12/8) ma occasionalmente compose danze in 5/4, 7/4 e anche alternando dai 4/4 ai 3/4, come si nota nella Danse des esclaves da La bayadère. Il tempo di 3/4 è comunque quello maggiormente usato: danzatrici del tempio, ninfe, zingare, toreri, rajah, contadine, fate, dèi, principi e principesse, re e regine, che fossero vivi o fantasmi, tutti danzavano sul ritmo di valzer.
Uno dei punti di forza riconosciuti a Minkus era l'abilità di creare una vasta varietà di melodie, vale a dire l'elemento principale sul quale si giudicava la musica da balletto nel diciannovesimo secolo. Lo storico del balletto Konstantin Skalkovsky racconta nel suo saggio In the Theatre World (Nel mondo del teatro) che "la marcia di Minkus tratta dal suo balletto del 1878 Roxana, la bellezza del Montenegro era il pezzo preferito dallo Zar Alessandro II, che in genere non amava la musica. Molti plotoni delle Forze Armate di Terra russe assediarono Pleven al ritmo di questa marcia."
L'altro grande talento di Minkus era per la composizione per violino e arpa solista. Le sue composizioni furono scritte tenendo a mente i talenti del violinista Leopold Auer e dell'arpista Albert Zabel, entrambi nell'orchestra dei Teatri Imperiali. L'orchestra diretta da Minkus era grande, una delle sue partiture per la Russia Imperiale cita gli strumenti a corde, i flauti, l'ottavino, i clarinetti, il corno, l'oboe, i bassi, il contrabbasso, tre tromboni, il trombone basso, due corni inglesi, quattro corni francesi, trombe, tuba, spesso due arpe, percussioni, timpani, triangolo, tamburello e il glockenspiel. Occasionalmente Minkus usava anche il gong, il piano e le nacchere.”
(Leggi l’articolo completo in: wikipedia.org)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
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Ugo Brusaporco
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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.
È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.
Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.
“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”
(Wikipedia)
“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”
(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)
“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.
(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)
“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”
(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)
“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)
“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.
(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)
Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/
Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0
https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs
https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4
https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk
Una poesia al giorno
Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l'anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
Nous serons
N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents
N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.
Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.
Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible
Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.
Unis par le plus fort et le plus cher lien,
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.
Sans nous préoccuper de ce que nous destine
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?
Un fatto al giorno
17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.
(da Focus)
Una frase al giorno
“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”
(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)
Un brano al giorno
Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k