L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
NATA DI MARZO (Italia, Francia 1958), regia Antonio Pietrangeli. Soggetto: Antonio Pietrangeli . Sceneggiatura: Agenore Incrocci, Furio Scarpelli, Ruggero Maccari, Ettore Scola, Antonio Pietrangeli. Produttore: Carlo Ponti, Clemente Fracassi. Casa di produzione: Euro International Films, Les Films Marceau. Fotografia: Carlo Carlini. Montaggio: Eraldo Da Roma. Musiche: Piero Piccioni. Cast: Jacqueline Sassard, Francesca Giordani. Gabriele Ferzetti, Alessandro Grisolia. Mario Valdemarin, Carlo. Tina De Mola, Nella. Ester Carloni, Elvira. Franco Rossellini, Rolando. Lina Furia, Carmela. Gina Rovere, prostituta. Franca Mazzoni, Giovanna. Elvira Tonelli, Armida. Dario Fo, Cantante in osteria.
Sandro, un architetto di circa quarant'anni, conosce una ragazza molto più giovane di lui, Francesca, e se ne innamora. Ben presto si sposano e i primi tempi della coppia sono felici, ma poi il temperamento esuberante della ragazza inizia a provocare discussioni tra i due. Francesca va via di casa e si cerca un lavoro, tornando a frequentare gli amici coetanei. I due s'incontrano dopo qualche tempo ed entrambi pensano che la loro unione sia ormai compromessa. Ma nonostante le incomprensioni, le gelosie e il risentimento reciproco, alla fine si confessano la verità: si vogliono ancora bene e vogliono tornare insieme.
“Un altro ritratto di solitudine nella lunga galleria femminile (ma non solo) che Antonio Pietrangeli ha dedicato al vuoto esistenziale di tutta un’epoca. Nata di marzo ha le sembianze di una commedia sentimentale aerea e “glamour”, ma conserva al fondo un nucleo tragico e amarissimo.
Diciassettenne mutevole e viziata, Francesca si sposa “sbadatamente” con Alessandro, un architetto di vent’anni più grande. Facile agli entusiasmi e altrettanto volubile nel passare da un desiderio all’altro, ben presto la ragazza si rende conto che la vita coniugale è assai meno facile di quanto pensava, e che suo marito si aspetta da lei un ruolo di moglie che non le si addice…
“Sono solidale! Sono solidale!” grida Francesca correndo incontro a una camionetta di carabinieri che si sta portando via una prostituta. Può sembrare l’ultima provocazione di una ragazza viziata e intrattabile, che a diciassette anni ha fatto carte false per sposarsi con un architetto di vent’anni più grande e che poi rifiuta quasi congenitamente qualsiasi vera felicità. In realtà è l’ultima tappa di un percorso vagamente esemplare, ma sapientemente emulsionato in un racconto brillante e amaro, sorridente e dolorosissimo. L’ulteriore racconto di una solitudine, ancora femminile come spesso accade nella filmografia di Antonio Pietrangeli, ma che ha trovato anche splendide incarnazioni maschili (Lo scapolo, Il magnifico cornuto).
A confondere le connotazioni troppo scopertamente sociologiche interviene prima di tutto un elemento di popolaresca saggezza: Francesca è una “nata di marzo”, mese che secondo i proverbi dà i natali a soggetti umani sbarazzini e mutevoli, ingestibili e umorali, dominati da un’indomabile ansia di vita che si traduce in un’eterna (tragica?) insoddisfazione.
È secondo tali coordinate che la famiglia di Francesca (madre e nonna) interpreta i suoi comportamenti volatili e contraddittori, assecondando anche il suo proposito di andare a nozze con un uomo maturo nel volgere di un incontro in tram. Tuttavia, la vita coniugale è irta di insidie e pericoli; tra la ragazza e il marito Alessandro non vi è soltanto il solco generazionale, ma risuonano anche secoli di storia dei rapporti tra uomo e donna. Le questioni sono sempre le stesse: spazi reciproci di libertà, diverse visioni nell’affrontare i risvolti finanziari della vita di coppia, crescente senso di vuoto e solitudine, e soprattutto una diversa lettura del ruolo della donna in società. Alessandro si è sposato una moglie-bambina che con le migliori intenzioni vorrebbe tramutare in moglie-bambola, regina di una casa in cui lei possa riempire il tanto tempo libero facendo e disfacendo arredamenti. Non accetterebbe mai che la moglie si mettesse a lavorare; lei ogni tanto ci pensa, ma sulle prime il lavoro non sembra rientrare tra le sue priorità. Poi la solitudine a casa, i lunghi pomeriggi in attesa del ritorno a casa del marito. La noia, il vuoto, la consueta ansia di vita. Si arriva alla separazione. Ci metterà una pezza il produttore Carlo Ponti, che impose a Pietrangeli un lieto fine assai stonato, oltretutto in parziale contraddizione con l’intero assunto del film. Ma l’amarezza generale resta, la sensazione di aver assistito a una sorridente commedia italiana anni Cinquanta che sembra edulcorare conflitti, e nei fatti scava invece nelle profondità di universali disagi e ontologiche solitudini.
Tutto il racconto è contenuto in un unico flashback, un resoconto dell’esperienza coniugale che Francesca fa a un suo vecchio amico d’università, con qualche momentaneo ritorno al presente narrativo. Per il momento si tratta di un utilizzo delle sfasature temporali del tutto “coerente” e lineare, ben lontano dalle spericolate sperimentazioni di alcuni dei successivi film di Pietrangeli. Qui il racconto a posteriori si riduce a poco più di un rodato dispositivo narrativo, che però è reso funzionale a un percorso di malinconica maturazione tramite la voce narrante della stessa Francesca, colta nell’atto dell’amara riflessione su ingenuità ed errori, su bizze e giuste cause, per arrivare a essere la donna che è adesso, davanti all’amico Carlo. Senza voler forzare ad ogni costo la coerenza autoriale, sembra riverberare nelle gioie e nei vuoti di Francesca un primo abbozzo dell’Adriana Astarelli di Io la conoscevo bene, la stessa gioia infantile davanti alla vita che dura giusto il tempo di una canzonetta, prima di mutare desideri e passare ad altro.
Tuttavia, rispetto alla sua futura reincarnazione Francesca dispone in più di una rocciosa determinazione, che magari si appunta su cento desideri diversi nell’arco di una giornata, ma ogni volta con totale fermezza e tensione all’obiettivo. Soprattutto, rispetto ad Adriana la “nata di marzo” ha qualcosa di assai più decisivo: è piuttosto ricca, viene da una famiglia della Milano medio-borghese proprietaria di una sartoria e si sposa con un rampante architetto. Adriana viene dalla provincia contadina e si lascia stritolare da un mondo che non la (ri)conosce, ballando sorridente un boogie-woogie: Francesca è ricca e viziata, e sulle prime nella vita coniugale sente la mancanza soltanto di ciò che ha sempre avuto in famiglia. Comprende poco i limiti delle disponibilità finanziarie, vorrebbe essere sempre al centro dell’attenzione come il peggior bambino egocentrico, e si concede ogni bizzarria.
Una volta di più, insomma, il cinema di Pietrangeli sembra raccontare qualcosa, mentre racconta tutt’altro. La veste esteriore di Nata di marzo porta infatti tutti i segni della garbata commedia nazionale anni Cinquanta, stavolta addirittura riletta secondo canoni non del tutto familiari al nostro cinema. I rapidissimi ritmi narrativi, la netta valorizzazione di un serrato tessuto di dialoghi glamour e di alto profilo, la palese adesione a un’atmosfera “rosa” ricordano più da vicino le pratiche della coeva commedia americana che la nostra tradizione autoctona, tanto che più di una volta sembra di riconoscere nel volto pulito di Jacqueline Sassard le movenze e l’eleganza di una Audrey Hepburn solo più stizzosa e inviperita.
A questo probabilmente contribuisce anche l’ambientazione milanese, ben lontana dall’esperanto nazionale delle commedie “romanocentriche” con tanto di tuffi nel Tevere. Ne sono prova anche le figure di fianco, a cominciare da mamma e nonna di Francesca, decisamente inconsuete per aspetto fisico e per disposizione psicologica, laddove ci aspetteremmo una solita Ave Ninchi buffa, autoritaria e piagnona.
Del resto, nell’occasione in assoluto meno felice e personale della sua carriera (Souvenir d’Italie, 1957) Pietrangeli aveva già mostrato una chiara e convinta adesione a schemi di commedia americana, dall’uso di sdolcinatissime musiche al lieto fine che più lieto non si può. Tuttavia, in Nata di marzo tale canone espressivo è saggiamente adottato per scardinarlo dall’interno in fasi successive. La prima metà del film è tutta dedicata a una cronaca di felicità coniugale, in cui si aprono a poco a poco crepe sempre più profonde. I primi segnali prendono le mosse da un puro e semplice dato visivo: l’estrema distanza fisica tra Jacqueline Sassard e Gabriele Ferzetti, vent’anni di differenza aggravati dal fatto che lei sembra ancora più giovane, e lui ancora più maturo di ciò che sono. Lei minuta, lui robusto. Un padre che sposa una figlia perché resti per sempre una moglie-bambina; lui è un architetto serio e intelligente, ma resta comunque vittima di sovrastrutture socio-comportamentali che vedono nella moglie un oggetto o poco più, da mettere in salotto accanto al divano. E lei nel frattempo, tra una bizza e l’altra, cresce, cambia, sbaglia, e poi capisce.
In superficie Pietrangeli, Scola&Maccari e Age&Scarpelli costruiscono insomma una commedia romantica di tira e molla sentimentali in cui però intanto si dà conto di un mondo in trasformazione e di una tacita violenza antropologica, condotta sul piano di un accordo più o meno condiviso. Tali sottili notazioni si rendono fluide dentro a dialoghi di rarissima intelligenza narrativa, capaci di emulsionare più o meno evidenti intenzioni didascaliche in un tessuto brillante e mai forzato, in cui le voci si attaccano ai corpi dei personaggi in totale coerenza. Non si ricava mai la sensazione del dialogo sovrascritto al personaggio, della categoria sociale o dell’impegno che declamano tramite la bocca di fittizie figure umane. Proprio per questo il cinema di Pietrangeli, rivisto oggi, si conferma così fortemente “politico”; niente proclami, niente militanza, bensì una profetica ricostruzione del reale in cui a poco a poco prende piena residenza l’inquietudine esistenziale per precise ragioni socio-antropologiche dalle risonanze universali.
Dietro alle schermaglie di Francesca e Alessandro risuonano ancora, come in tutto Pietrangeli e come nella migliore commedia all’italiana in generale, le distruzioni e i dissesti provocati da nuove logiche produttive, ovvero tutto ciò che il boom italiano del benessere economico ha significato in termini di genocidio culturale. I due protagonisti di Nata di marzo sono una coppia moderna, che vedono soffiarsi a poco a poco il tempo da dividere insieme dalle esigenze del lavoro e dalla rete di rapporti sociali necessari al lavoro stesso e al loro sostentamento. Anche qui fa capolino tutto il bric-à-brac della nuova tecnologia e della nuova società di massa, dalle moderne cucine americane, al finto prato in terrazza, all’automobile, ai tram affollati in cui è impossibile parlare, ai patetici robottini di Godzilla che un venditore vuole appioppare a Francesca e Carlo al ristorante. Come il Paolo Anselmi de Lo scapolo, come la Pina de La visita, come Adriana, anche Francesca vive senza sapere cosa fare del proprio tempo, posticipando tragicamente il momento in cui cercare un senso a se stessi e rifugiandosi in faticose forme di falsa libertà. Perché il vuoto è tanto, e la paura altrettanta.
Se poi nella progressiva autocoscienza che Francesca acquisisce rispetto a se stessa vogliamo vederci tracce di proto-femminismo (come alcuni hanno affermato), possiamo anche starci. “Sono solidale! Sono solidale!” grida la ragazza per prendere le difese della prostituta arrestata, dopo che il marito l’ha fatta sentire tale. Certo, Francesca è diventata più grande e consapevole. Ma è sola. Come Alessandro. Perché per Pietrangeli si è sempre soli in mezzo al vuoto. Un vuoto che si riempie di oggetti di modernariato, tanto per dare un senso alla sfiducia e alla distanza tra gli esseri umani. Ma quel vuoto rimane, sempre. Mentre un juke-box suona una canzonetta.
Curiosità: Dario Fo fa una comparsata ed è pure autore ed esecutore di una canzone. Eraldo Da Roma, leggendario montatore del nostro cinema, appare qui nel suo unico ruolo da attore, interpretando il personaggio di Tito, che ha pure una notevole rilevanza narrativa.”
(Massimiliano Schiavoni in: quinlan.it)
“La pellicola di Antonio Pietrangeli parte scanzonata e divertente nel rappresentare l’allegra giovinezza della protagonista. Sposa il sentimento della prima felicità coniugale, vira al tragico quando s’infrange l’idillio e si trasforma, infine, in un potente pamphlet femminista in anticipo sui tempi, reclamando parità per la donna, denunciando la sua frustrazione chiusa fra le quattro mura domestiche, (di)mostrando nella pratica e senza qualunquismo (ad esempio: è Francesca ad apparire indisponente e scostante, ma le sue azioni sono il riflesso di una condizione opprimente) i risvolti negativi di un ruolo sociale ingiustamente predefinito.
Sarebbe stato troppo facile cavalcare un personaggio femminile immacolato: invece, Francesca è nata di marzo, è del segno dei Pesci, un essere irritante, logorroico e ficcanaso, per di più d’estrazione borghese (viziata), senza senso del valore del denaro, in preda alla febbre del consumismo. Di contro, il marito di Gabriele Ferzetti è d’animo gentile, vittima del ruolo maschio-padrone che ha ereditato come modello, senza gli strumenti per comprendere le istanze di una moglie (inconsciamente) “moderna”.
Pietrangeli, per quanto alle prese con una materia da neorealismo rosa che ha anche risvolti di più facile attrattiva, soprattutto nell’umorismo (complici gli sceneggiatori Age e Scarpelli) che annacqua la denuncia e lo studio psicologico, dimostra ancora una volta di possedere un notevole sguardo acuto e critico, un sincero impegno morale e civile con cui pone un altro tassello nel mosaico storico, ma in tempo reale, sulla situazione muliebre nella società italiana. Nel suo cinema c’è anche un curioso filo d’Arianna, nel momento in cui ritrae spesso la donna sconsolatamente in preda alla solitudine che rende meschini: il quadro, infatti, si fa insolitamente squallido (nel mirino l’istituzione del matrimonio maschilisticamente concepita, senza dimenticare le molte graffianti annotazioni marginali su personaggi-tipo). Interessante la citazione di Ultimatum alla Terra (la cameriera continua a ripetere al “padrone” di andare a vederlo), un film che, guarda caso, invita alla tolleranza e all’uguaglianza”
(Niccolò Rangoni Machiavelli in: www.spietati.it)
- Il film: Nata di Marzo (March's Child) Film Completo english sub by Film&Clips
Un attore e non solo: “Dario Luigi Angelo Fo (Sangiano, 24 marzo 1926 - Milano, 13 ottobre 2016) drammaturgo, attore, regista, scrittore, autore, illustratore, pittore, scenografo, attivista e comico italiano. Fu autore di rappresentazioni teatrali che fanno uso degli stilemi comici propri della commedia dell'arte italiana e che sono rappresentati con successo in tutto il mondo. In quanto attore, regista, scrittore, scenografo, costumista e impresario della sua stessa compagnia, Fo è stato un uomo di teatro a tutto tondo. Famoso per i suoi testi teatrali di satira politica e sociale e per l'impegno politico di sinistra, con la moglie Franca Rame fu tra gli esponenti del Soccorso Rosso Militante.”
(Articolo completo in wikipedia.org)
“Dario Fo è stato un regista, drammaturgo e attore, vincitore nel 1997 del premio Nobel per la letteratura. Nato il 24 marzo del 1926 a Sangiano (VA), è deceduto a Milano all’età di 90 anni.
Da sempre si è contraddistinto per uno stile personale e del tutto originale, sia per quanto riguarda la forma sia per i contenuti.
Dario Fo si è sempre ispirato al teatro dell’arte, producendo un teatro definito alle volte “teatro di narrazione”, che ha poi ispirato diversi altri artisti.
Una sua caratteristica è l’utilizzo del Grammelot, ossia un linguaggio teatrale tratto dalla commedia dell’arte, dove si cerca di imitare il suono e la cadenza di un’altra lingua, pur senza parlarla.
Dario Fo lo porta alla ribalta il Grammelot con "Mistero buffo", dove imita i diversi dialetti della val Padana.
Da sempre Dario Fo e la moglie Franca Rame sono stati attivisti politici schierati a sinistra e la loro critica si è spesso rivolta non solo alla politica ma anche alla Chiesa.
A causa delle loro posizioni, sono stati per diversi anni lontani dalla ribalta televisiva, in particolare dalla Rai.
Negli ultimi anni le posizioni politiche di Fo lo hanno portato a criticare fortemente Berlusconi ed a candidarsi nel 2006 alle primarie per la carica di sindaco di Milano. In quell’occasione fu però scelto come candidato Bruno Ferrante.
Tra le altre opere molto note di Dario Fo si possono ricordare:
"Morte accidentale di un anarchico", dedicata alla vicenda di Giuseppe Pinelli, "Johan Padan e la discoverta de le Americhe", in cui rivisita la “mitologia” della scoperta dell’America, "l'Anomalo bicefalo", opera satirica contro Berlusconi e numerosi altri.
Nel 1997 gli è stato conferito il premio Nobel per la letteratura, dopo che già vi era stato candidato nel 1975.
Tra dicembre del 2011 e marzo del 2012 ha riportato in scena con la moglie "Mistero buffo", in una serie di spettacoli tenuti nel nord Italia.
Dario Fo vanta anche un'autentica passione per l'arte pittorica, che lo ha portato, il 24 marzo del 2012 giorno del suo ottantaseiesimo compleanno, ad inaugurare la mostra "Lazzi Sberleffi Dipinti" presso Palazzo Reale di Milano, dove ha esposto più di 400 opere che ripercorrevano tutto l'arco di vita trascorso con la sua Franca Rame.
Il 29 maggio del 2013 muore improvvisamente tra le sue braccia Franca Rame, sua compagna da 60 anni e madre del loro unico figlio Jacopo, nato nel 1955.
Nel 2014 pubblica il suo primo romanzo, "La figlia del Papa", ispirato alla figura di Lucrezia Borgia.
Nel 2015 pubblica "Un uomo bruciato vivo", scritto con Florina Cazacu, figlia di Ion, un operaio rumeno bruciato vivo dal datore di lavoro nel 2000, per aver chiesto di essere messo in regola.
E' stato insignito delle onorificienze di "Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte" (Roma, 13 gennaio 1997) e "Grand'Ufficiale dell'Ordine al Merito Educativo e Culturale Gabriela Mistral" (Cile, 2002).”
(In argomenti.ilsole24ore.com)
Una poesia al giorno
Pity the Nation, di Lawrence Ferlinghetti
Pity the nation whose people are sheep
And whose shepherds mislead them
Pity the nation whose leaders are liars
Whose sages are silenced
And whose bigots haunt the airwaves
Pity the nation that raises not its voice
Except to praise conquerers
And acclaim the bully as hero
And aims to rule the world
With force and by torture
Pity the nation that knows
No other language but its own
And no other culture but its own
Pity the nation whose breath is money
And sleeps the sleep of the too well fed
Pity the nation oh pity the people
who allow their rights to erode
and their freedoms to be washed away
My country, tears of thee
Sweet land of liberty“
"Pietà per la nazione" (alla maniera di Khalil Gibran, in: proletteraturacultura.com)
Pietà per la nazione i cui uomini sono pecore
e i cui pastori sono guide cattive
Pietà per la nazione i cui leader sono bugiardi
i cui saggi sono messi a tacere
Pietà per la nazione che non alza la propria voce
tranne che per lodare i conquistatori
e acclamare i prepotenti come eroi
e che aspira a comandare il mondo
con la forza e la tortura
Pietà per la nazione che non conosce
nessun’altra lingua se non la propria
nessun’ altra cultura se non la propria
Pietà per la nazione il cui fiato è danaro
e che dorme il sonno di quelli
con la pancia troppo piena
Pietà per la nazione - oh, pietà per gli uomini
che permettono che i propri diritti vengano erosi
e le proprie libertà spazzate via
Patria mia, lacrime di te
dolce terra di libertà!
- Ascoltare l’autore leggerla: www.artsjournal.com
Buon compleanno caro Ferlinghetti! Lawrence Monsanto Ferlinghetti è nato a Yonkers, contea di Westchester nello Stato di New York, USA, il 24 marzo 1919.
Un fatto al giorno
24 marzo 1999: Guerra del Kosovo, la NATO iniziò gli attacchi alla Jugoslavia senza l'approvazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC), segnando la prima volta che la NATO ha attaccato un paese sovrano. Fu l’inizio dei bombardamenti da parte delle forze NATO (Operazione Allied Force) contro la Jugoslavia per por fine alla repressione della maggioranza albanese in Kosovo.
“L'operazione Allied Force (in italiano "Forza Alleata") è stata la campagna di attacchi aerei portata avanti dalla NATO per oltre due mesi contro la Repubblica Federale di Jugoslavia di Slobodan Milošević, con l'intento di ricondurre la delegazione serba al tavolo delle trattative, che aveva abbandonato dopo averne accettato le conclusioni politiche, e di contrastare l'operazione di spostamento della popolazione del Kosovo allo scopo di predisporre una sua spartizione tra Serbia e Albania. L'esistenza di un piano predisposto a tale scopo non è mai stata provata con sufficiente certezza, ma resta un fatto che appena iniziarono le incursioni aeree NATO l'esercito serbo iniziò operazioni volte ad ottenere esodi massicci e compì in taluni casi dei veri massacri.
Durante questi mesi si è sviluppata una serie molto intensa di attacchi aerei partiti dall'Italia e da navi nell'Adriatico (in un secondo momento anche dall'Ungheria), contro la presenza militare serba in Kosovo e contro la capacità bellica serba, con una scelta degli obiettivi ad ampio spettro e con interventi "dissuasivi" ed intimidatori nei confronti della popolazione allo scopo di esercitare una pressione su Milošević; tra questi il bombardamento delle centrali elettriche (soprattutto con bombe alla grafite, ad effetto "psicologico", che non provocano danni permanenti ma prolungati blackout), ed il bombardamento della sede della televisione serba a Belgrado.
Questa fu la seconda azione militare della NATO dopo l'Operazione Deliberate Force nel 1995 e la prima contro uno Stato indipendente. “
(In: wikipedia.org)
“Il 24 marzo 1999, la NATO avviava l’Operazione Allied Force, la campagna di bombardamenti aerei diretta contro la Repubblica Jugoslava e in particolare contro la Serbia di Slobodan Milošević.
Il contesto che produsse l’intervento militare della NATO il 24 marzo 1999 fu quello della guerra del Kosovo. All’inizio degli anni ’90, il paese vede revocarsi una serie di garanzie di autonomia al fine di venire inglobato nel progetto della Grande Serbia, allora guidata da Slobodan Milošević. Un progetto, però, a cui inizia ad opporvisi una resistenza non violenta guidata da Ibrahim Rugova, il quale proclama la repubblica kosovara e indice nuove elezioni. Ad affiancare la resistenza di Rugova, come parte dell’indipendentismo kosovaro, nel 1995 nasce l’Esercito di Liberazione del Kosovo, noto come UCK. Per circa tre anni, le forze dell’UCK si scontrano con i militari e diverse entità statali, tentando di accrescere il loro consenso. Il punto di svolta avviene nel 1998, quando l’esercito serbo inizia ad attuare rappresaglie anti-insurrezionali anche contro la popolazione civile. A seguito di questa pericolosa escalation, l’Alleanza Atlantica minaccia di intervenire militarmente, sotto la legittimazione dell’ONU, con lo scopo di arrivare una tregua, che arriva di lì a poco e che dura fino al gennaio 1999, quando a Racak avviene il massacro di circa 60 civili. L’episodio è il detonatore di una nuova crisi e dimostra che la Serbia non sta rispettando il cessate il fuoco stabilito dalla Risoluzione ONU 1199 del settembre 1998.
Così, tra febbraio e marzo, viene convocata una conferenza a Rambouillet alla quale partecipano le parti in conflitto e il c.d. Gruppo di Contatto, composto dai ministri degli esteri di Italia, Francia, Russia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti. Lo scopo della conferenza è quello di portare la Serbia alla resa e di riconoscere l’autonomia del Kosovo. Ma Milošević non ne vuol sapere, in quanto considera la regione la culla della civiltà serba. Il rifiuto del leader serbo provoca una frattura all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU su come agire.
24 marzo 1999, l’inizio dell’Operazione Allied Force
Nel Consiglio di Sicurezza, l’uso della forza viene negato da parte della Cina, che vedeva nell’indipendenza del Kosovo un precedente per quella del Tibet, e della Russia, la quale stava divenendo sempre più fredda e distaccata nei confronti dell’Alleanza Atlantica. Così, l’azione della NATO ha inizio senza alcuna legittimazione da parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. La giustificazione fornita dalla NATO è quella di evitare una nuova pulizia etnica contro la popolazione kosovara, che avviene poco dopo, nel mese di aprile. Quest’ultima complica la situazione e fornisce il casus belli alla NATO per iniziare i bombardamenti aerei. Gli obiettivi degli attacchi riguardarono la capacità di difesa aerea serba, gli obiettivi militari e le infrastrutture, tra cui anche quelle civili, come ponti, centrali elettriche e telecomunicazioni. Durante i bombardamenti, per errore viene colpita anche l’ambasciata cinese. Sebbene l’intervento delle truppe, i c.d. “boots on the ground”, fosse rimasta una opzione sempre sul tavolo, le uniche truppe di terra coinvolte nel conflitto furono quelle dell’UCK, l’esercito di liberazione del Kosovo. L’Operazione Allied Force andò avanti fino al 10 giugno 1999, quando la Serbia fu costretta ad arrendersi dinanzi all’incessante campagna di bombardamenti aerei.”
“Nel corso del 1998, l’escalation di tensione e di violenze nella provincia serba del Kosovo, aveva determinato lo svolgimento da parte della NATO, nella giornata del 15 giugno dello stesso anno, dell’operazione Determined Falcon, volta a dissuadere la Serbia da ulteriori iniziative militari. A tale operazione, consistita in una serie di manovre aeree effettuate in prossimità del confine serbo, che impegnavano 85 velivoli, l’Italia aveva partecipato con un contributo di 6 aerei.
In relazione all’aggravamento della situazione in Kosovo, d’intesa con il Governo serbo, l’OSCE costituiva, nell’ottobre 1998, una missione di 2.000 osservatori denominata KVM (Kosovo Verification Mission), cui era affidato il compito di controllare l'attuazione delle decisioni ONU (che chiedeva la cessazione delle ostilità tra le parti e il rispetto del cessate il fuoco), di osservare il ritiro delle forze speciali serbe dal Kosovo, il rientro dei profughi e il corretto svolgimento entro l'autunno del 1999 di elezioni locali.
L’operazione è stata supportata da un’azione di controllo aereo svolta dalla NATO nell’ambito della missione Eagle Eye. Contemporaneamente, a seguito del perdurare di continui e violenti combattimenti e visti gli inutili tentativi di risolvere politicamente la crisi, la NATO aveva avviato, il 24 settembre 1998, l'operazione Determined Force, che prevedeva un graduale intervento militare aereo. La minaccia della NATO assume un carattere operativo, il 12 ottobre 1998, con l’adozione dell’Activation Order, meccanismo che autorizza i comandi a mettere in atto il piano militare per l’attacco aereo senza ulteriori determinazioni politiche.
Il repentino peggioramento della situazione costrinse inoltre la NATO ad organizzare la missione Joint Guarantor, per l'evacuazione dal Kosovo degli osservatori OSCE. La forza di intervento della NATO è stata attivata nel dicembre 1998 e l’Italia ha partecipato con circa 250 uomini. L’evacuazione del personale OSCE fu effettuata dopo il precipitare degli eventi, a seguito del fallimento dei negoziati di Rambouillet, nel febbraio-marzo 1999, tra governo serbo e rappresentanti indipendentisti kosovari, organizzata del Gruppo di contatto, composto dai ministri degli Esteri di Italia, Francia, Russia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti d'America.
Il mancato accordo di Rambouillet determina, il 24 marzo 1999, la decisione della NATO di iniziare una serie di attacchi aerei e missilistici contro gli obiettivi militari serbi in Kosovo, che si estendono rapidamente ad una serie di obiettivi strategici in tutta la Repubblica serba.
Si tratta dell’operazione Allied Force (la cosiddetta guerra del Kosovo), a cui i serbi reagiscono provocando la fuga di centinaia di migliaia di profughi kosovari verso le frontiere di Albania e Macedonia.
Il problema dei profughi diviene presto una componente essenziale ed imponente dell'intervento e la NATO decide di inviare truppe in Albania e Macedonia a protezione delle operazioni umanitarie costituendo, nell’aprile 1999, la forza multinazionale AFOR (Albanian Force), con prevalenti compiti di soccorso umanitario ai profughi kosovari in fuga verso l’Albania. Essa ha visto l'impiego di circa 8.000 uomini di 25 diversi Paesi, tra i quali il nostro.
Proseguivano intanto, parallele alle operazioni militari, le trattative diplomatiche che, il successivo 9 giugno portavano all'accordo tecnico-militare tra i vertici militari serbi e la NATO, per concordare le modalità ed i tempi del ritiro delle truppe jugoslave dal Kosovo e l'entrata delle truppe NATO.
Il giorno successivo, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione 1244, concordata dal G8, che riprendeva quanto stabilito nell’accordo di pace.
Dopo 78 giorni di bombardamenti, il 13 giugno, le truppe serbe cominciarono il ritiro, e i militari della NATO entrarono nel Kosovo.”
(Articolo completo in: leg16.camera.it)
“L'operazione NATO del 1999 è stata il culmine del decennio di sanguinosa dissoluzione della Jugoslavia, che ha diviso l'intera regione lungo linee etniche e religiose. Mihailovich era lì quando i missili da crociera hanno iniziato a colpire Novi Sad e altre grandi città. Interpretato come un intervento umanitario chirurgico per fermare le violenze in Kosovo, in realtà, l'Operazione Allied Force ha ucciso più civili che truppe e ha devastato le infrastrutture civili della nazione. Ci furono anche danni collaterali, un treno civile colpito, così come un mercato e l'ambasciata cinese, e soprattutto l'inquinamento dei terreni a causa dell'uranio impoverito. La sostanza tossica è usata per munizioni perforanti e si ritiene che sia oggi la causa di un picco di casi di cancro. L'eredità politica è discutibilmente tossica quanto quella medica. Il Kosovo, l'area divisa con l'aiuto dei colpi della NATO, rimane non riconosciuta da molte nazioni e si è rivelata un terreno di reclutamento generoso di gruppi jihadisti come l'ISIS. E le divisioni etniche nei Balcani non sembrano meno gravi.”
Immagini:
- www.lantidiplomatico.it
- Aviano Air Base - Operazione NATO Allied Force 1999 Take Off aerei F-16C USAFE del 31° FW
Una frase al giorno
“...Questa santa messa quindi, questa Eucarestia, è precisamente un atto di fede. Con fede cristiana sappiamo che in questo momento l’ostia di frumento si trasforma nel corpo del Signore che si offrì per la salvezza del mondo e che in questo calice il vino si trasforma nel sangue che fu il prezzo della salvezza. Che questo corpo immolato e questo sangue sacrificato per gli uomini alimentino anche noi per dare il nostro corpo e in nostro sangue alla sofferenza e al dolore, come Cristo, non per sé, ma per offrire concetti di giustizia e di pace al nostro popolo. Uniamoci quindi intimamente con fede e speranza a questo momento di preghiera per la signora Sarita e per noi… (In questo momento risuonò lo sparo)”
(Monsignor Oscar A. Romero pronunciò l’ultima sua omelia nel primo anniversario della signora Sara de Pinto, a San Salvador, il 24 marzo 1980, alle ore 17, nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza, prima di essere ucciso. Leggi tutto in: www.sicsal.it)
Óscar Arnulfo Romero y Galdámez (Ciudad Barrios, 15 agosto 1917 - San Salvador, 24 marzo 1980) arcivescovo cattolico salvadoregno, ucciso mentre celebrava una messa.
Un brano musicale al giorno
Incontro con un autore poco conosciuto da noi ma mondialmente riconosciuto come uno dei maggiori musicisti di ogni tempo
Ascolta: Muthuswami Dikshitar | Trinities of Carnatic Music | Indian Classical Music
“La musica carnatica è considerata uno dei sistemi musicali più antichi del mondo, potendo vantare origini che risalgono al 2000 a.C. A partire dalla dominazione islamica dell'India settentrionale nel XIII secolo, fu in quest'area del paese che l'antica scuola si mantenne inalterata. Le composizioni si basano su una scala di 22 note, ma generalmente non più di 16 vengono utilizzate. Ogni combinazione di queste note, ogni Swara, dà origine ad un Raga, le particolarità del quale sono indicate nelle frasi ascendenti e in quelle discendenti. Definito il Raga, ogni variazione nell'ordine di queste frasi è considerta erronea. La musica carnatica enfatizza le qualità vocali piuttosto che quelle degli strumenti. Temi primari sono Devi e Rama, che descrivono i canti dei templi e i canti patriottici. Il padre della musica carnatica è considerato Purandara Dasa, vissuto a cavallo tra il '400 e il '500 mentre Tyagaraja, Muthuswami Dikshitar e Syama Sastri, vissuti a cavallo tra il '700 e l'800, sono detti la trinità della musica carnatica. “
(In musicadiversa.blogspot.com)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.
È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.
Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.
“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”
(Wikipedia)
“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”
(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)
“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.
(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)
“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”
(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)
“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)
“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.
(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)
Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/
Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0
https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs
https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4
https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk
Una poesia al giorno
Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l'anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
Nous serons
N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents
N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.
Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.
Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible
Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.
Unis par le plus fort et le plus cher lien,
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.
Sans nous préoccuper de ce que nous destine
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?
Un fatto al giorno
17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.
(da Focus)
Una frase al giorno
“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”
(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)
Un brano al giorno
Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k