L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
BEAT THE DEVIL (Il tesoro dell’Africa, USA-Italia, 1953), scritto e diretto da John Huston. Soggetto: Claud Cockburn (autore del romanzo omonimo scritto sotto lo pseudonimo di James Helvick). Sceneggiatura: Claud Cockburn, John Huston, Truman Capote. Fotografia: Oswald Morris. Fotografo di scena: Robert Capa. Montaggio: Ralph Kemplen. Musiche: Franco Mannino.
Cast: Humphrey Bogart as Billy Dannreuther. Jennifer Jones as Mrs. Gwendolen Chelm. Gina Lollobrigida as Maria Dannreuther. Robert Morley as Peterson. Peter Lorre as Julius O'Hara. Edward Underdown as Harry Chelm. Ivor Barnard as Major Jack Ross. Marco Tulli as Ravello. Bernard Lee as Inspector Jack Clayton. Mario Perrone as Purser on SS Nyanga. Giulio Donnini as Administrator. Saro Urzì as Captain of SS Nyanga. Juan de Landa as Hispano-Suiza Driver. Aldo Silvani as Charles, restaurant owner.
Harry Chelm e sua moglie Gwendolen si trovano in Italia dove fanno la conoscenza di una seconda coppia, composta da Maria Dannreuther e dal marito Billy. Insieme ad alcuni gangster, decidono di intraprendere una missione per andare in Africa orientale a procurarsi dell'uranio da contrabbandare. Ciò avviene malgrado tra diversi componenti del gruppo persista una certa ostilità o almeno diffidenza.
Parallelamente alle vicissitudini del progetto, le due coppie si ricombinano, per cui Harry diventa l'amante di Maria e Billy quello di Gwendolen. Dopo diverse peripezie durante la traversata sul mare, tra cui la scomparsa di Harry, i protagonisti naufragano sulle coste dell'Africa del Nord, dove le autorità locali li catturano per rilasciarli dopo diverso tempo. Risulta nel frattempo chiaro che per la banda non sarà possibile arrivare a destinazione.
Alla fine della vicenda, le due coppie ritorneranno al luogo di provenienza e si ricongiungeranno, mentre i gangster verranno arrestati.
“Bogie in Beat the Devil: “Io devo far quattrini, gli ordini tassativi del medico sono che devo far soldi a palate: altrimenti divento nervoso, svogliato e il mio incarnato ne risente”. Alla sesta performance per l’amico Huston, l’attore - anche co-produttore tramite la propria compagnia Santana Pictures - se la gode a caricaturare i propri detective e gangster idealisti. Dalle testimonianze di coloro che lavorarono sul set - tra essi, Robert Capa (accompagnato dalla fidanzata Ingrid Bergman), inviato dalla Magnum nell’aprile 1953 a fotografare il set, ove perse a poker con Huston e Bogie l’intero onorario –, un clima da baccanale goliardico dominava le riprese a Ravello e dintorni. Scrive il giovane sceneggiatore Truman Capote: “Certe scene venivano scritte lì per lì, sul set, poco prima di girare. Gli attori erano completamente disorientati. Le ultime settimane furono costellate di avventure bizzarre in cui erano immancabilmente coinvolti John Huston e Humphrey Bogart, che quasi mi uccisero con i loro bagordi. Mezzi ubriachi di giorno e ubriachi fradici la notte”. Rievoca Huston: “Una sera facemmo a braccio di ferro. Solo che si trasformò in un incontro di lotta libera, e Truman mise a terra Bogie! Gli inchiodò le spalle al pavimento e lo tenne lì. Si era trasformato in un pitbull”. Jennifer Jones ricorda: “Insistevo sempre per sapere cosa sarebbe successo al mio personaggio: moriva sul colpo, si buttava nell’oceano, si prendeva una botta in testa?”. Spiega Huston: “La regola di Beat the Devil è che tutti sono lievemente assurdi”. Parla Julie Gibson, unit publicist del film: “Truman aveva quel taglio stravagante, i capelli biondi con la frangetta, e allora Peter Lorre un giorno si presentò con i capelli ossigenati, tagliati e pettinati con la frangia proprio come Truman”. Al furfantello interpretato da Lorre, Capote regala battute come questa: “Gli svizzeri lo fabbricano. Gli italiani lo sprecano. I francesi lo mettono da parte. Gli americani lo venerano. Ma il tempo è un truffatore”. E a Ross (Ivor Barnard), il trucido in bombetta, Capote fa esclamare: “Donne! Hitler aveva ragione a tenerle al loro posto”. Ancora Capote, sul suo adattamento del romanzo Beat the Devil, del romanziere e giornalista britannico Claud Cockburn, alias James Helvick, comunista blacklisted: “Invece di un melodramma puro e semplice, pensai che dovesse essere una specie di satira o parodia dei tanti film con Bogart e Sydney Greenstreet”. Le citazioni provengono dal polifonico capitolo sulla tortuosa genesi di Beat the Devil nel volume Truman Capote: A Literary Life at the Movies, di Tison Pugh, 2014.”
(Lorenzo Codelli in festival.ilcinemaritrovato.it)
“La giovane e bella Gwendolen Chelm (una bamboleggiante Jennifer Jones in parrucca bionda) e il marito Harry (Edward Underdown) sono in villeggiatura in una località di mare del Sud Italia e passeggiando incontrano un gruppo di loschi figuri che soggiornano al loro stesso hotel. La donna tenta di mettere in guardia il marito da quegli uomini poco raccomandabili e quando questi le chiede il motivo, lei seria risponde “Non mi hanno nemmeno guardato le gambe”. La battuta in apertura al film ci indica la cifra stilistica umoristica e del gusto per l’assurdo su cui si snoderà tutto il divertente Beat the Devil (tradotto in Italia con l’improbabile Il tesoro dell’Africa), girato da John Huston nel 1953 con un cast stellare e con la co-sceneggiatura del giovane Truman Capote.
Assieme ai coniugi inglesi Chelm, nel piccolo hotel italiano si trovano infatti anche Billy (Humphrey Bogart) e la sua compagna Maria (Gina Lollobrigida), che si sono uniti ad un gruppo di avventurieri e che stanno tutti aspettando di salpare per l’Africa per realizzare il colpo della vita: comprare con l’inganno e sottoprezzo un terreno ricco di Uranio per poi rivenderlo. Complici l’inaffidabilità dell’equipaggio italiano sempre ubriaco, che fa rimandare la partenza in nave, e la bellezza del luogo di villeggiatura, ben presto si compie l’incrocio amoroso: Gwendolen si innamora di Billy e Maria di Harry. La situazione si complicherà poi ulteriormente quando il quartetto di truffatori - composto da Julius O’Hara (Peter Lorre), Petersen (Robert Morley), Ravello (Marco Tulli) e il Maggiore Ross (Ivor Barnard) - cercherà di coinvolgere la coppia inglese nella truffa, credendo che si tratti di ricchi altolocati e danarosi.
Il film, come sottolineava Roger Ebert, passò direttamente dall’insuccesso al botteghino ad essere ritenuto un cult, soprattutto per l’intento di parodia del gangster movie, di cui Bogart era ormai simbolo. Dall’atmosfera ironica e scanzonata del film trapela il clima rilassato che si respirava sul set italiano, durante il quale si dice che Capote riscrivesse la sceneggiatura di giorno in giorno, di Martini in Martini, mentre Huston, che aveva preso parte al finanziamento del film, assisteva un po’ preoccupato temendo un probabile disastro commerciale.
Ma il film conserva una sua grazia ironica e impertinente, che si prende gioco dei classici gangster, proponendo truffatori disorganizzati, litigiosi e pasticcioni affiancati da un Bogart avventuriero di mezza età e conquistatore stanco. Huston e Capote si divertono poi a parodiare altri stereotipi del mondo del cinema: la donna bella e svampita (una bionda Jones che ammicca alla Monroe), la femme fatale arrivista (una Lollobrigida in scollati abiti da sera fin dal primo mattino), l’uomo serio dall’aplomb britannico (un Underdown che si sente perduto senza la borsa dell’acqua calda ma che non si scompone davanti alla dichiarazione d’amore della moglie per un altro). E anche l’intreccio amoroso e il sospetto di adulterio sono a volte suggeriti e a volte esasperati con un risultato di assoluta comicità.
Gli stessi comprimari contribuiscono alla parodia che va oltre i generi e gli stereotipi e colpisce direttamente famosi personaggi di Hollywood. Come il serioso capo arabo Ahmed, che dopo aver fatto tutti prigionieri con la violenza, si apparta con Billy per chiedergli particolari su Rita Hayworth, le cui foto fanno da tappezzeria alla sua camera da letto. O come il monologo di O’Hara (il cui nome viene continuamente storpiato in O’Horror) sul tempo, che richiama alla mente quello di Orson Welles ne Il terzo uomo: “Tempo, tempo, cos’è il tempo? Gli svizzeri lo fabbricano, i francesi lo accumulano, gli italiani lo perdono, per gli americani è denaro, per gli indiani non esiste. Sai che ti dico? Il tempo è una truffa”.
(Questa recensione è stata pubblicata su Cinefilia Ritrovata in occasione del Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, edizione 2016 in potrebbeanchepiovere.wordpress.com)
- Il film: Beat The Devil (1953), con Humphrey Bogart, diretto da John Huston
28 agosto 1987 muore John Huston, attore, regista e sceneggiatore irlandese (nato nel 1906)
- Un suo documentario: Let There Be Light - 1946
Una poesia al giorno
Der König in Thule, di Johann Wolfgang von Goethe, in Cantiere Poesia
Es war ein König in Thule,
Gar treu bis an das Grab,
Dem sterbend seine Buhle
einen goldnen Becher gab.
Es ging ihm nichts darüber,
Er leert’ ihn jeden Schmaus;
Die Augen gingen ihm über,
So oft er trank daraus.
Und als er kam zu sterben,
Zählt’ er seine Städt’ im Reich,
Gönnt’ alles seinen Erben,
Den Becher nicht zugleich.
Er saß beim Königsmahle,
Die Ritter um ihn her,
Auf hohem Vätersaale,
Dort auf dem Schloß am Meer.
Dort stand der alte Zecher,
Trank letzte Lebensglut,
Und warf den heiligen Becher
Hinunter in die Flut.
Er sah ihn stürzen, trinken
Und sinken tief ins Meer,
die Augen täten ihm sinken,
Trank nie einen Tropfen mehr.
Fedel sino a l’avello
Egli era in Tule un re:
Mori l’amor suo bello,
E un nappo d’òr gli diè.
Nulla ebbe caro ei tanto,
E sempre quel vuotò:
Ma gli sgorgava il pianto
Ognor ch’ei vi trincò.
Venuto a l’ultim’ore
Contò le sue città:
Diè tutto al successore
Ma il nappo d’or non già.
Ne l’aula de gli alteri
Suoi padri a banchettar
Sedè tra i cavalieri
Nel suo castello al mar.
Bevè de la gioconda
Vita l’estremo ardor
E gittò il nappo a l’onda
Il vecchio bevitor.
Piombar lo vide, lento
Empiersi e sparir giù;
E giù gli cadde spento
L’occhio e non bevve più.
“Johann Wolfgang (von) Goethe (Francoforte sul Meno, 28 agosto 1749 - Weimar, 22 marzo 1832) è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo tedesco. Considerato dalla scrittrice George Eliot «...uno dei più grandi letterati tedeschi e l'ultimo uomo universale a camminare sulla terra», viene solitamente reputato uno dei casi più rappresentativi nel panorama culturale europeo. La sua attività fu rivolta alla poesia, al dramma, alla letteratura, alla teologia, alla filosofia, all'umanismo e alle scienze, ma fu prolifico anche nella pittura, nella musica e nelle altre arti. Il suo magnum opus è il Faust, un'opera monumentale alla quale lavorò per oltre sessant'anni.
Goethe fu l'originario inventore del concetto di Weltliteratur (letteratura mondiale), derivato dalla sua approfondita conoscenza e ammirazione per molti capisaldi di diverse realtà culturali nazionali (inglese, francese, italiana, greca, persiana e araba). Ebbe grande influenza anche sul pensiero filosofico del tempo, in particolare sulla speculazione di Hegel, Schelling, e successivamente Nietzsche”.
(Wikipedia)
Il 28 agosto 1749 nasce Johann Wolfgang von Goethe, romanziere, poeta, drammaturgo e diplomatico tedesco (morto nel 1832).
Un fatto al giorno
28 agosto 1849: Dopo un mese di assedio, Venezia, che si era dichiarata indipendente come Repubblica di San Marco, si arrende all'Austria.
"La Repubblica di San Marco (Repubblica italiana di San Marco), uno stato rivoluzionario italiano, è esistita per 17 mesi nel 1848-1849. Dalla Laguna di Venezia si estendeva nella maggior parte del Veneto, o territorio della Terraferma della Repubblica di Venezia, soppresso 51 anni prima nelle guerre rivoluzionarie francesi. Dopo aver dichiarato l'indipendenza dall'impero austriaco asburgico, la repubblica si unì successivamente al Regno di Sardegna in un tentativo, guidato da quest'ultimo, di unire l'Italia settentrionale contro la dominazione straniera (principalmente austriaca ma anche francese). Ma la prima guerra d'indipendenza italiana si concluse con la sconfitta della Sardegna e le forze austriache riconquistarono la Repubblica di San Marco il 28 agosto 1849 a seguito di un lungo assedio".
L’ultima battaglia:
“...Gli austriaci, però, non iniziavano le operazioni che un mese più tardi: essi in parte ancora vigilavano i piemontesi o erano occupati nei Ducati o in Toscana; e gli ungheresi tuttora si battevano in guerra regolare vittoriosamente. Fu fatto carico al Pepe di non aver profittato di quest'ultimo mese di blocco blando per compiere una operazione veramente energica, con quante più forze disponibili; egli pensò invece a riorganizzare sempre meglio l'esercito, curando i quadri, la disciplina, l'organizzazione, per la prova finale. Alla fine d'aprile, il II Corpo di riserva, notevolmente rafforzato, forte ormai di 30 000 uomini, e con un grande parco d'assedio, dava inizio alle nuove operazioni. Lo comandava il generale Haynau, resosi tristamente famoso poche settimane prima per la feroce repressione dell'insurrezione bresciana, così da essere chiamato «la iena di Brescia».
(Articolo completo in www.arsbellica.it)
Una poesia di Arnaldo Fusinato: L’ULTIMA ORA DI VENEZIA
È fosco l’aere,
È l’onda muta!
Ed io sul tacito
Veron seduta,
In solitaria
Malinconia,
Ti guardo, e lagrimo,
Venezia mia!
Sui rotti nugoli
Dell’Occidente
Il raggio perdesi
Del sol morente,
E mesto sibila,
Per l’aura bruna,
L’ultimo gemito
Della laguna.
Passa una gondola
Della città:
- Ehi! della gondola
Qual novità?
- Il morbo infuria...
Il pan ci manca...
Sul ponte sventola
Bandiera bianca! -
No, no, non splendere
Su tanti guai,
Sole d’Italia,
Non splender mai!
E sulla veneta
Spenta fortuna
Sia eterno il gemito
Della laguna!
Venezia, l’ultima
Ora è venuta;
Illustre martire,
Tu sei perduta;
Il morbo infuria,
Il pan ti manca,
Sul ponte sventola
Bandiera bianca!
Ma non le ignivome
Palle roventi,
Né i mille fulmini,
Su te stridenti,
Troncan ai liberi
Tuoi dì lo stame:
Viva Venezia:
Muor della fame!
Sulle tue pagine
Scolpisci, o Storia,
Le altrui nequizie
E la tua gloria,
E grida ai posteri
Tre volte infame
Chi vuol Venezia
Morta di fame.
Viva Venezia!
Feroce, altiera,
Difese intrepida
La sua bandiera;
Ma il morbo infuria,
Il pan le manca;
Sul ponte sventola
Bandiera bianca!
Ed ora infrangasi
Qui sulla pietra,
Finch’è ancor libera,
Questa mia cetra.
A te, Venezia,
L’ultimo canto,
L’ultimo bacio,
L’ultimo pianto!
Ramingo ed esule
Vivrai, Venezia,
Nel mio pensiero;
Vivrai nel tempio
Qui del mio cuore,
Come l’imagine
Del primo amore.
Ma il vento sibila,
Ma l’onda è scura,
Ma tutta in gemito
È la natura:
Le corde stridono,
La voce manca,
Sul ponte sventola
Bandiera bianca!
(19 agosto 1849)
Una frase al giorno
“Se tutta l’umanità giacesse addormentata, dal suo volto sarebbe impossibile conoscerne la vera indole e si potrebbe essere tratti in inganno”.
(Andrej Platonovič Platonov, 28 agosto 1899 - Mosca, 5 gennaio 1951, in russo Андрей Платонович Платонов, pseudonimo di Andrej Platonovič Klimentov. Voronež, è stato un grandissimo scrittore sovietico).
“Andrej Platonovic Platonov nasce nel 1899 a Jamskaja Sloboda, un sobborgo di Voronez; il padre è operaio alle ferrovie. Per mantenere la famiglia numerosa si adatta a ogni tipo di lavoro, ma non abbandona gli studi né la passione per la letteratura. Nel 1920 aderisce al Partito comunista ma l'anno seguente restituisce la tessera. Con la qualifica di ingegnere viene destinato a opere di bonifica nella campagna remota dove, soprattutto di notte, scrive i suoi primi racconti. Dilaniato tra l'amore per il suo lavoro di tecnico e la passione per la scrittura, entrambi strumenti per contribuire all'edificazione della nuova società nella quale crede, continua a comporre opere che avranno sempre problemi con la censura. Nel 1931 la pubblicazione del racconto A buon pro provoca l'intervento dello stesso Stalin: «Punire in modo esemplare i redattori, e che buon pro gli faccia». Intorno a Platonov è terra bruciata: qualche anno dopo suo figlio appena adolescente viene arrestato e deportato in un lager. Nonostante tutto continua a scrivere: Lo sterro, Mosca felice, Dzan, Fro, Il fiume Potudan', Il terzo figlio, saggi, pièce, favole e racconti di guerra, ma solo raramente le sue opere superano il vaglio della censura e l'ostracismo della critica. Muore di tubercolosi a Mosca nel 1951”.
Un brano musicale al giorno
Leontyne Price canta “La Mamma Morta” dall’Andrea Chenier di Umberto Giordano.
Immagini:
- Lutto per la musica: 28 agosto 1948 muore Umberto Giordano, compositore e accademico italiano (nato nel 1867).
Un fatto sportivo al giorno
28 agosto 2008 muore Phil Hill, pilota automobilistico americano (nato nel 1927)
Philip Toll Hill Jr. (Miami, 20 aprile 1927 - Salinas, 28 agosto 2008) è stato un pilota automobilistico statunitense, campione del Mondo di Formula 1 nel 1961 con la Scuderia Ferrari. Alla pari di Mike Hawthorn è il pilota vincitore di almeno un titolo mondiale con il minor numero di vittorie all'attivo, tre. Hill è stato descritto come un "uomo gentile e premuroso".
Immagini:
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org
UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.
È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.
Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.
“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”
(Wikipedia)
“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”
(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)
“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.
(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)
“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”
(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)
“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”
(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)
“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.
(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)
Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/
Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0
https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs
https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4
https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk
Una poesia al giorno
Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].
Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?
Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?
Nell'amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.
Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.
Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.
Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l'anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?
Nous serons
N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants
Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,
Nous serons fiers parfois et toujours indulgents
N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie
Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,
Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.
Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,
Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,
Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.
Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible
Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,
S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.
Unis par le plus fort et le plus cher lien,
Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,
Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.
Sans nous préoccuper de ce que nous destine
Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,
Et la main dans la main, avec l'âme enfantine
De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?
Un fatto al giorno
17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.
(da Focus)
Una frase al giorno
“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”
(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)
Un brano al giorno
Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k