“L’amico del popolo”, 28 maggio 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

DOM ZA VEŠANJE (Serbo: Дом за вешање; italiano: Il tempo dei gitani, Jugoslavia, 1988), regia di Emir Kusturica. Sceneggiatura: Emir Kusturica, Gordan Mihic. Fotografia: Vilko Filac. Montaggio: Andrija Zafranovic. Musica: Goran Bregovic. Con: Davor Dujmovic, Bora Todorovic, Ljubica Adzovic, Husnija Hasimovic, Sinolicka Trpkova, Elvira Sali, Zabit Memedov, Suada Karisik, Sedrije Halim, Ajnur Redzepi, Edin Rizvanoic, Ibro Zulic.

Perhan, un ragazzo nomade molto timido ed ingenuo, vive in Yugoslavia con la vecchia nonna Atiza, guaritrice, che lo tiene con sé dalla nascita e lo ama più di un figlio. Vivono nella misera casetta anche la sorellina del ragazzo, Daza, zoppa ad una gamba per una malattia congenita, e il figlio della donna, reduce da un viaggio in Germania, con la mania del gioco e un po' spostato. Il giovane Perhan si innamora della giovane Asra ma la madre di lei, Luza, non vuole saperne del ragazzo povero e senza prospettive di lavoro. In seguito ad un intervento quasi miracoloso di Atiza sul figlioletto del ricco Amed, detto 'Sceicco", la donna prega l'uomo di prendersi cura di Daza, di farla operare in un ospedale di Lubiana per guarirla. Amed promette di fare tutto il possibile e con lui va anche Perhan: quest'ultimo è convinto dal boss a lasciare la piccola in ospedale e a seguirlo in Italia dove si possono fare affari d'oro. Perhan lo segue ma ben presto si accorge che Amed è un delinquente a capo di un'organizzazione per la compravendita di bambini, sfruttamento della prostituzione, avviamento al furto e alla mendicità. Perhan è sconvolto, non vuole diventare disonesto, ma Amed con mezzi poco ortodossi lo persuade a darsi da fare per il bene della sorellina. Subito Perhan si fa notare per le sue capacità e quando Amed si sente male, è proprio lui a prendere in mano le redini dell'organizzazione criminale. Successivamente, per ordine di Amed, torna in Yugoslavia, nel suo paese, dalla nonna, ricco ed importante e trova Asra incinta: è convinto che la ragazza l'abbia tradito. Ciononostante la sposa con la determinazione di vendere quel bambino di dubbia paternità e di continuare a seguire le orme di Amed. Si rende purtroppo conto che questi l'ha ingannato raccontandogli un mucchio di bugie. Comunque ritorna dal boss: Asra dà alla luce un maschietto e poi muore. Passano quattro anni: Amed sparisce con una nuova donna lasciando dietro di sé tanti problemi. Perhan si reca a Roma per cercare la sorellina Daza che Amed aveva fatto uscire dall'ospedale per metterla sulla strada a mendicare. Finalmente la trova e decide quindi di riportare la ragazza ed anche suo figlio, il piccolo Perhan, dalla nonna. Li mette sul treno e lui si avvia all'accampamento dove Amed sta per sposarsi. Lì, aiutato da un amico, uccide Amed con le sue capacità telecinetiche, e i suoi fratelli ma viene poi colpito a morte da uno di loro e dalla stessa sposa. Al suo funerale al paese partecipano tutti: la nonna può finalmente averlo tutto per sé lontano da ogni male.

Ti ricordi di Dolly Bell? (1981) e Papà è in viaggio d'affari (1985), i primi due film di Emir Kusturica, sposavano la dimensione della storia e della memoria, in un viaggio a ritroso, dagli anni sessanta ai cinquanta, che, se non proprio all'autobiografia (non foss'altro che per questioni anagrafiche, essendo il regista nato nel 1955), tendeva alla ricostruzione fantastica di un vissuto “nazionale” (con tutte le cautele che tale aggettivo deve necessariamente comportare ogni volta che si parla dell'arcipelago jugoslavo). Con Il tempo dei gitani, il giovane, dotatissimo regista bosniaco affronta un tema e un ambiente a lui estranei, che quindi gli richiedono uno sforzo di penetrazione e comprensione, prima che di reinvenzione. Se infatti l'avventurarsi nel “paese straniero” del passato, con quanto di “fantascientifico” l'operazione comporta, mette comunque in gioco esperienze personali, il confrontarsi con un altro da sé quasi paradigmatico implica un coinvolgimento in ogni caso traumatico, una necessità di documentazione che, pur senza voler invocare scorciatoie sociologistiche, risulta talvolta salutare anche per i poeti. Questo spiega probabilmente la minore compattezza stilistica del film rispetto a quelli che lo hanno preceduto, nel rischio che Kusturica assume coscientemente di fronte ad un materiale primigenio.

Immergendosi nell'universo Rom, una cultura millenaria, refrattaria ad ogni influenza esterna, conservatasi miracolosamente nonostante la mancanza di una letteratura, di una religione, di un territorio, non poteva non fare i conti con due precedenti illustri, Ho incontrato anche zingari felici (1967), di Aleksandar Petrovic, e L'angelo custode (1987), di Goran Paskaljevic. Dal primo, pur apprezzandolo, Kusturica prende le distanze, in quanto “basato su idee dostoevskijane e non sulla mitologia tzigana”, mentre confessa di non aver visto il secondo, pur avendolo citato (“Su queste cose ci hanno fatto anche un film”, recita Ahmed, il boss dello sfruttamento dei bambini). Noi che abbiamo amato il bellissimo, commovente film di Paskaljevic, possiamo tranquillamente affermare che si tratta di una scelta agli antipodi, che parte dall'inchiesta, dal dato sociologico, per poi decollare verso la tragedia classica, della quale sposa alcuni archetipi. Kusturica, viceversa, come abbiamo anticipato, parte da altri presupposti. “Non utilizziamo la povertà per fare del miserabilismo o per dire che bisognerebbe aiutare questa gente... Vogliamo mostrare che c'è una cultura della povertà, che la loro vita è strutturata culturalmente”. Niente moralismi manichei, dunque, ciascun personaggio si porta appresso il proprio fardello di ambiguità, in una sorta di realismo magico che presuppone una scommessa audace: fare proprio il magma, ribollente di vitali e irrinunciabili contraddizioni, dell'anima Rom.

L'incipit, come del resto anche negli altri film di Kusturica, è letteralmente strepitoso. Gli schizzi, affettuosi e picareschi, struggenti e francamente comici, della vita di villaggio, hanno una loro precisa radice antropologica eppure rimandano a tanta letteratura sudamericana, in particolare al Gabriel Garcia Marquez di Cent'anni di solitudine. Ma le fantasmagorie del regista si organizzano secondo una serie di coordinate linguistiche e culturali estremamente variegate: Ivan Cancar e Carl Barks (la straordinaria sequenza della “casa da appendere” a cui fa riferimento il titolo originale, imparentata sia con il finale visionario di Il servo Jernej e il suo diritto che ai momenti più poeticamente strampalati dell'autore delle grandi storie di Paperino, nostro premio Nobel per la letteratura in pectore per omnia saecula), Hieronymus Bosch e Tod Browning (la “mostruosità” degli abitanti, che non ha bisogno del confronto con il “normale” per un maupassantiano capovolgimento di valori), Marc Chagall e Andrej Tarkovskij (il primo per la “sospensione” magica dell'autorappresentazione di una cultura, il secondo per l'uso simbolico della telecinesi e per l'idea di sopravvivenza sotterranea - il magnifico tableau dei riti di San Giorgio - di una tradizione: insieme Stalker e Andrej Rubliov). Le figure che il regista mette in scena sono diversamente connotate in base alla comune matrice di un irrefrenabile vitalismo: dallo zio germanofilo ed erotomane allo stagionato amante della nonna, tutti “afferrano il tempo” con voracità inesausta, che è fame di cibo e di sesso, ma non di sicurezza. È un universo dominato da una sorta di fantastica follia, innervato di fatalismo (le considerazioni della vecchia sul comportamento della figlia, quelle, simmetriche, della madre di Azira), scandito dai riti più eterogenei (l'infrazione dei quali è considerata una colpa imperdonabile: “Hai rovinato le mie nozze”, grida la nana al marito ubriaco nella sequenza d'apertura - ripete la vedova di Ahmed inseguendo Perhan), solennizzato dall'elegante maestà dei gesto, che un generoso retaggio ha distribuito con larghezza, ad illuminare di astorica nobiltà stracci e miseria. In questo contesto, centrale risulta il personaggio di Baba, la nonna che non è solo saggia (di una saggezza fondata sugli archetipi più assoluti, legati ad una cosmogonia dell'altro ieri, che è ancora possibile toccare con un dito) e insieme attaccata ad una carnalità che sopravvive agli anni, ma anche depositaria di un potere magico che, saltando una generazione - la madre era “solo” bellissima - si è trasmesso direttamente a Perhan. Questi è a tutti gli effetti “figlio della nonna”, e come tale rimane un “casto folle” fino a quando esigenze materiali (la necessità di sposarsi, illusoria possibilità di guarire la sorella paralitica) lo costringono a fare i conti con una realtà che non gli appartiene. Non a caso fino a questo momento egli intrattiene un rapporto privilegiato con un tacchino che lo seguirebbe ovunque e che è a sua volta dotato di capacità intuitive straordinarie. Come ha dichiarato lo stesso Kusturica, il tacchino gioca un ruolo importante nel folklore dei gitani, per i quali è dotato di capacità straordinarie, come quella di sentire fino a trecento chilometri di distanza. “Ho voluto dargli una dimensione mitica facendolo volare. Come l'eco di un'epoca in cui questo animale era capace di servirsi delle ali. Quando lo zio del ragazzo mangia il tacchino, la sua vita cambia radicalmente, il suo rapporto con la vita eterna passava attraverso il tacchino”. Da questo momento il film muta registro, tempi e movenze. La sequenza-cerniera è rappresentata dal lungo addio al villaggio, frammentato da un montaggio che sembra voler accumulare brandelli di ricordo per l'emigrante Perhan, accompagnato da una canzone di straziante bellezza, che attribuisce spessore emotivo al “trauma del distacco” e insieme sembra presagire un futuro di tragedia.

Varcando clandestinamente il confine italiano, Kusturica si avventura in una dimensione onirico-melodrammatica che forse gli risulta meno congeniale, ma che comunque riesce a padroneggiare con sicurezza, organizzandola secondo una logica che scardina l'accumulo di stereotipi interni al genere. A Milano, luogo dell'alterità così come il villaggio lo era della tradizione, il talento dello zingaro diventa tecnica truffaldina, la fantasia, marginalità organizzata per delinquere. La struggle for Iife piega gradualmente le resistenze di Perhan, fondate sull'abitudine alla sopravvivenza “sotterranea” (la scatola di cartone) e sul gruzzolo di ricordi che lo tiene legato al paese (la bellissima sequenza dei sogno della nonna in piazza del Duomo, nella quale viene letteralmente “bruciato” il cordone ombelicale con il passato). Eppure, la sua purezza primigenia risulta refrattaria ad ogni inquinamento etico, l'ispirazione è ancora l'elemento prevalente, da assecondare in ogni circostanza (si veda la magnifica idea dei pianoforte nella villa svaligiata). Fotografato in variegate tonalità di giallo e arancio, come i colori di cui amano circondarsi i gitani, il suo calvario assume quasi li senso di un percorso di perdita di innocenza, le cui stazioni sono fatalisticamente predeterminate, e appunto per questo prevedibili. Come prevedibile, ma perciò non meno affascinante dal punto di vista figurativo, risulta la vendetta telecinetica di Perhan, anch'egli poi fermato da un colpo d'arma da fuoco nell'ultimo, illusorio volo, quando il tacchino, bianco come il velo della madre e della sposa, bianco come un angelo del Paradiso, lo recupera a quella dimensione di metafisica purezza dalla quale lo aveva strappato Ahmed. La stessa che presumibilmente praticherà il figlio, rubate le monete d'oro che coprono gli occhi del suo cadavere e fuggito dentro a una scatola di cartone, a perpetuare la sopravvivenza sotterranea della cultura e dell'anima Rom. Le ascendenze tarkovskijane, trasferite in un contesto che oscilla tra la commedia picaresca e il melodramma, si colorano della tipicità di una situazione assolutamente peculiare, eppure portatrice di significati universali. Rischiando un percorso che un fantasioso critico francese assimila alle montagne russe, Kusturica ci offre con Il tempo dei gitani l'esempio - tanto più intenso quanto più raro - di come sia ancora possibile oggi la pratica di un cinema epico”.

(Paolo Vecchi, Cineforum n. 300, 12/1990)

“Figlio naturale di una zingara, il giovane Penhan (D. Dujmovic) è costretto a seguire il capo in Italia, a rubare e trafficare in bambini, nani, infermi. Perde l'innocenza, le illusioni, la vita. Opus n. 3 del bosniaco Emir Kusturica (1955), scritto con Gordan Mihic, è un film d'amore, di avventure e un romanzo di formazione che nell'edizione originale, destinata alla TV, durava 5 ore. La sua tumultuosa vicenda procede per accumulazione su un arco di quindici anni attraverso peripezie ora buffe, ora sanguinose in altalena tra tenerezza e ignominia. Il regista s'è immerso nel mondo e nelle cultura dei Rom con passione senza benevolenza, con una partecipazione che non esclude la lucidità, con una simpatia che non diventa idealizzazione. Sconnesso, ridondante, visionario. L'organizzazione del materiale è discutibile, ma le invenzioni strepitose abbondano. Mai vista al cinema una Milano così onirica e stralunata”.

DOM ZA VEŠANJE (Serbo: Дом за вешање; italiano: Il tempo dei gitani, Jugoslavia, 1988), regia di Emir Kusturica

 

Una poesia al giorno

Post scriptum, di Izet Sarajliä

E ricordati:
solo la guerra non suona
entrando in casa della gente.

Entra come se ne avesse il diritto.

La gente smette di attendere i buoni incontri.

Tu stai seduta sola con tua figlia
e fra un allarme e l’altro
le stai leggendo la poesia di suo padre
“Qualcuno ha suonato”.

Fra quattro anni
qualcuno suonerà di nuovo.
Rovesciando la sedia
Correrai
ad aprire.

Sulla porta,
avvolto nella barba,
uno sconosciuto
ti parlerà di me
al passato.

 

Un fatto al giorno

28 maggio 1974: ore 10, in Piazza della Loggia, durante un comizio antifascista, esplode un chilogrammo di tritolo, nascosto in un cestino della spazzatura, causando la morte di 8 persone e il ferimento di altre 94. La strage di piazza della Loggia è un altro episodio della strategia della tensione, una lunga scia di attentati, da Piazza Fontana, alla Bomba alla Questura di Milano, al treno Italicus, che insanguinano l’Italia dal 1969 al 1984.
C'era stata la strage di Gioia Tauro nel 1970, quella di Peteano del 1972, e la strage della Questura di Milano del 1973. Pochi mesi dopo sarà la volta dell'Italicus e il 2 agosto 1980 la strage della stazione di Bologna (ottantacinque vittime e oltre duecento feriti). Alle 10.12 del 28 maggio 1974 il cuore pulsante di Brescia è radunato in un comizio antifascista. "La nostra Costituzione, voi lo sapete, vieta la riorganizzazione sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista..." arringa Franco Castrezzati, segretario generale della Cisl bresciana. All'improvviso la grande e colma piazza di Brescia è scossa da una bomba nascosta in un cestino portarifiuti. E' il panico. E tragico è il bilancio finale: 8 morti e oltre 100 feriti. Solo dopo quarantadue anni, dodici processi e cinque istruttorie si è giunti all‘ergastolo per Carlo Maria Maggi, leader di Ordine Nuovo e di Maurizio Tramonte, accusato di aver partecipato alle riunioni preparatorie dell’eccidio. Il dispositivo che inchioda i colpevoli è del luglio scorso ma le motivazioni della sentenza ancora non sono state depositate. La giustizia e la verità sulle stragi è una strada sempre troppo lunga ed irta di ostacoli.

(Archivio RAI)

“Brescia, 11 febbraio 2017 - Chi ha messo la bomba nel cestino sotto i portici in piazza Loggia la mattina del 28 maggio 1974? A distanza di 43 anni dalla strage i magistrati non abbandonano le due indagini bis nate dalla maxi inchiesta che ha portato alle condanne all’ergastolo del medico Carlo Maria Maggi, ritenuto leader indiscusso di Ordine nuovo nel Triveneto e organizzatore dell’eccidio, e dell’infiltrato nel Sid «Fonte Tritone» Maurizio Tramonte (a giugno per la seconda volta si pronuncerà la Cassazione). Hanno per le mani un nuovo nome: quello di uno dei presunti esecutori materiali, l’ultimo tassello che manca alla ricostruzione giudiziaria della vicenda sulla quale non ha mai smesso di lavorare il sostituto procuratore Francesco Piantoni L'indagine stralcio di cui è titolare non rimane dunque aperta a carico di ignoti dopo la morte nel 2013 di colui che si pensava fosse l’unico indagato, ma promette ulteriori sviluppi. E per seguirli Piantoni, trasferito alla Procura generale di Roma dopo 33 anni di lavoro negli uffici bresciani, è stato riapplicato a Brescia. Un fascicolo che viaggia in parallelo a un’altra inchiesta di cui si occupa invece il procuratore dei minori Emma Avezzù, nel quale è iscritto il veronese di estrema destra Marco Toffaloni. Un capitolo che si avvia alla conclusione e a una richiesta di processo. La pista è la stessa, l’humus politico e culturale pure, ossia l’ordinovismo veneto. Toffaloni, che oggi vive nei Grigioni e porta il cognome svizzero della moglie, il 28 maggio 1974 non aveva nemmeno 17 anni. La Procura è convinta che quella mattina fosse in piazza. Una foto lo ritrae vicino al corpo dilaniato di Alberto Trebeschi, uno delle vittime, subito dopo l’esplosione. Una perizia ha stabilito un’alta compatibilità tra il volto di quel ragazzo e quello che appare in altri scatti sequestrati ai suoi familiari. Così come combacia l’altezza del soggetto raffigurato. Il legame poi con Brescia è sospetto: Toffaloni frequentava a Verona lo stesso poligono dove si esercitavano l’esperto di esplosivi veneziano Carlo Digilio e il veronese Marcello Soffiati, morti entrambi da tempo. Per i giudici avevano procurato loro i candelotti di gelignite infilati nel cestino da una mano finora ignota. E contro Toffaloni pesano le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gian Paolo Stimamiglio («mi disse di avere avuto un ruolo tutt’altro che marginale nella strage»). Interrogato tempo fa dal procuratore Avezzù che si era recato in Svizzera, era rimasto in silenzio. Nei mesi scorsi però ha fatto sapere di voler dire la sua”.

(www.ilgiorno.it › Brescia › Cronaca)

 

Una frase al giorno

“I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni a partire dal governo, gli enti locali, gli enti di previdenza, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai tv, alcuni grandi giornali”.

(Enrico Berlinguer, 28 luglio 1981)

 

Un brano al giorno

Milva, Nell'attimo breve

Canzone dedicata alle vittime della strage di Piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974). Scritta da Gino Negri, compositore e autore di opere contemporanee, fu inserita nell'album "Libertà" (1975), in cui a dieci anni di distanza dal primo storico lavoro sul tema, intitolato "Canti della Libertà", Milva torna a interpretare con incredibile trasporto alcuni canti pescati dalla tradizione sudamericana (in gran parte) ed ovviamente europea.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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