“L’amico del popolo”, 8 aprile 2020

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

Un film malamente dimenticato su un tema sempre attuale:

MY SIX CONVICTS (I miei sei forzati, US, 1952), regia di Hugo Fregonese. Produzione: Kramer/Columbia. Produttore Stanley Kramer; Sceneggiatura: Michael Blankfort; Basato sul libro di Donald Powell Wilson; Camera: Guy Roe; Montaggio: Gene Havlick; Musiche: Dimitri Tiomkin; Art Director: Edward Ilou. Cast: Millard Mitchell è James Connie. Gilbert Roland è Punch Pinero. John Beal è Dr. "Doc" Wilson. Marshall Thompson è Blivens Scott. Alf Kjellin è Clem Randall. Henry Morgan è Dawson. Jay Adler è Steve Kopac. Regis Toomey è Dr. Gordon. Fay Roope è Warden George Potter. Carleton Young è Capitano Haggerty. John Marley è Knotty Johnson. Russ Conway è Dr. Hughes. Byron Foulger è Dr. Brint. Charles Buchinsky (il futuro Charles Bronson) è Jocko il condannato.

MY SIX CONVICTS (I miei sei forzati, US, 1952), regia di Hugo Fregonese

Il dottor Wilson è uno psicologo penitenziario che sottopone i detenuti ad alcuni test al fine di procedere, in base ai risultati ottenuti, alla loro rieducazione. Gli inizi sono poco incoraggianti: il direttore del carcere è scettico e i primi esperimenti sono disastrosi. Wilson però non demorde: sceglie sei detenuti per fargli da assistenti e fa partire l'esperimento. Uno dei sei ha accettato l'incarico per rompere la monotonia, uno per simpatia verso il dottore, un omicida per avere un minimo di libertà e tentare l'evasione.

I sei uomini vengono a poco a poco trasformati da Wilson grazie alla comprensione, all'affetto, alla solidarietà e all'umanità. Quando l'omicida decide di tentare l'evasione esponendo il medico a un pericolo mortale, gli altri cinque bloccano l'esecuzione del piano, ma uno di essi rimane ferito. Gli episodi che si verificano nel carcere dimostreranno che i sei uomini sono stati trasformati dall'esperienza. Quando anch'essi usciranno dal penitenziario, potranno reinserirsi senza problemi nella società.

MY SIX CONVICTS (I miei sei forzati, US, 1952), regia di Hugo Fregonese 

Il regista: Fregonese, Hugo (propr. Hugo Gerónimo)

Regista cinematografico argentino, nato a Mendoza l'8 aprile 1908 e morto a Buenos Aires il 17 gennaio 1987. Eclettico per formazione e per gusto, F. spaziò tra tutti i generi cinematografici più popolari, lavorando a lungo sia negli Stati Uniti sia in Europa, anche se i risultati migliori e più apprezzati dal pubblico li offrì prevalentemente con i film d'avventura e d'azione.
Visse per alcuni anni negli Stati Uniti, dove dal 1935 frequentò la Columbia University e successivamente curò per Hollywood la promozione di film con tematiche latinoamericane. Tornato in Argentina, dopo essere stato assistente di Lucas Demare per La guerra gaucha (1942), esordì come regista nel 1943 e ottenne un buon successo con film quali Pampa bárbara (1945), De hombre a hombre (1949) e Apenas un delincuente (1949), ma nel 1949 si trasferì di nuovo negli Stati Uniti, anche per evitare la difficile situazione politica del suo Paese e sottrarsi al declino della cinematografia locale. Per Hollywood diventò un artigiano del b-movie, capace di muoversi agevolmente tra western, thriller e commedia, ottenendo anche lusinghieri riconoscimenti da parte della critica, in particolare con My six convicts (1952; I miei sei forzati), film di ambiente penitenziario dove il classico tentativo di fuga di un detenuto viene sventato grazie allo psicologo del carcere.
Negli anni Cinquanta ebbe l'opportunità di dirigere anche grandi attori hollywoodiani come Barbara Stanwyck, Anthony Quinn e Gary Cooper, interpreti di Blowing wild (1953; Ballata selvaggia), film drammatico girato in Messico. Per F. recitarono inoltre Joan Fontaine, in Decameron nights (1953; Notti del Decamerone), bizzarra commedia ispirata a Boccaccio, e Edward G. Robinson, attore-icona del gangster film che proprio per F., con Black Tuesday (1955; Pioggia di piombo), tornava dopo vent'anni al genere grazie al quale era diventato celebre. Sempre negli anni Cinquanta girò uno dei suoi film più riusciti, Man in the attic (1953; Una mano nell'ombra), interpretato da Jack Palance, singolare rivisitazione della leggenda sorta intorno alla figura di Jack lo Squartatore. Anche l'attività di regista che F. svolse in Europa e specialmente in Italia lo vide impegnato nei generi più diversi. Essa comprende vari film in costume e d'avventura, tra cui I girovaghi (1956), e western all'italiana come La battaglia di Fort Apache (1964), nonché film fantastici e horror come Die Todesstrahlen des Dr. Mabuse (1964; I raggi mortali del dr. Mabuse), interpretato da Yvonne Furneaux e Claudio Gora, che riprende il personaggio reso celebre dal film di Fritz Lang, e Los monstruos del terror (1969), realizzato in collaborazione con Tulio Demicheli.”

(Fabio Giovannini - Enciclopedia del Cinema, 2003)

Hugo Fregonese (Mendoza, 8 aprile 1908 - Buenos Aires, 17 gennaio 1987), regista cinematorgrafico argentino

 

Una poesia al giorno

Le plat pays, di Jacques Brel

Avec la mer du Nord pour dernier terrain vague

Et des vagues de dunes pour arrêter les vagues

Et de vagues rochers que les marées dépassent

Et qui ont à jamais le cœur à marée basse

Avec infiniment de brumes à venir

Avec le vent de l'est écoutez-le tenir

Le plat pays qui est le mien

Avec des cathédrales pour uniques montagnes

Et de noirs clochers comme mâts de cocagne

Où des diables en pierre décrochent les nuages

Avec le fil des jours pour unique voyage

Et des chemins de pluie pour unique bonsoir

Avec le vent d'ouest écoutez-le vouloir

Le plat pays qui est le mien

Avec un ciel si bas qu'un canal s'est perdu

Avec un ciel si bas qu'il fait l'humilité

Avec un ciel si gris qu'un canal s'est pendu

Avec un ciel si gris qu'il faut lui pardonner

Avec le vent du nord qui vient s'écarteler

Avec le vent du nord écoutez-le craquer

Le plat pays qui est le mien

Avec de l'Italie qui descendrait l'Escaut

Avec Frida la Blonde quand elle devient Margot

Quand les fils de novembre nous reviennent en mai

Quand la plaine est fumante et tremble sous juillet

Quand le vent est au rire quand le vent est au blé

Quand le vent est au sud écoutez-le chanter

Le plat pays qui est le mien.


Il piatto paese (traduzione in www.poesie.reportonline.it)

Con il mare del Nord come unico terrapieno,

e delle onde di dune per fermare le onde

e delle onde di roccia che le maree oltrepassano

che hanno per sempre il cuore in bassa marea,

con infinità di nebbie a venire,

con il vento dell’Est, ascoltatelo trattenere

il piatto paese che è il mio

Con le cattedrali come sole montagne,

e campanili neri come alberi della cuccagna,

dove diavoli di pietra agguantano le nubi,

con il filo dei giorni per unico viaggio

e delle strade di pioggia come sola buonasera,

con il vento dell’Ovest, ascoltatelo desiderare

il piatto paese che è il mio

Con un cielo così basso che un canale s’è perduto,

con un cielo così basso da creare l’umiltà,

con un cielo così grigio che un canale s’è impiccato,

con un cielo così grigio da farsi perdonare,

con il vento del Nord che viene a tormentarsi,

con il vento del Nord, ascoltatelo battere

il piatto paese che è il mio

Con l’Italia che scenderebbe l’Escaut,

con Frida la bionda quando diventa Margot,

quando i figli di novembre ci tornano in maggio,

quando la piana è fumante e trema sotto luglio,

quando il vento ride, quando il vento è sul grano,

quando il vento è a Sud sentitelo cantare

il piatto paese che è il mio

 

Jacques Romain Georges Brel (Schaerbeek, 8 aprile 1929 - Bobigny, 9 ottobre 1978) fu cantautore, compositore, attore e regista belga di lingua francese

 

 

Jacques Romain Georges Brel (Schaerbeek, 8 aprile 1929 - Bobigny, 9 ottobre 1978) fu cantautore, compositore, attore e regista belga di lingua francese.

«Se Brassens influenzò alcuni cantautori in modo intenso, specifico e però (o perciò) circoscritto, l'influsso di Brel è stato più indiretto e proprio per questo più diffuso, più pervasivo, più insinuante: è quello che, in maniera meno precisa e specifica ma molto più sottile e strisciante, penetra in misura più massiccia nel gusto dei cantautori italiani, che finiranno per saccheggiarlo a man bassa. Non stiamo cioè parlando solo delle traduzioni che Duilio Del Prete, Gino Paoli, Herbert Pagani, Bruno Lauzi, Patty Pravo, Ornella Vanoni, Dino Sarti, Enrico Medail, Franco Visentin, Renato Dibì, Grazia De Marchi, Rossana Casale e altri hanno curato o inciso in italiano (e qualcuno anche in dialetto, ovvero Joe Sentieri in genovese e Walter Di Gemma in milanese, come Svampa per Brassens). C'è tutto un gusto della parola cantata, vivo ancora oggi, che porta la sua cifra. In Paoli, Tenco, Gaber, Endrigo, Lauzi, De André, Guccini, Vecchioni... in questi e altri ancora c'è molto o un po' di Brel.»

(Enrico de Angelis. Articolo completo in wikipedia.org)

Jacques Romain Georges Brel (Schaerbeek, 8 aprile 1929 - Bobigny, 9 ottobre 1978) fu cantautore, compositore, attore e regista belga di lingua francese 

“Il 9 ottobre del 1978 muore all'ospedale di Bobigny, un sobborgo di Parigi, Jacques Brel. Un cancro al polmone lo schianta definitivamente, dopo una lunga lotta, a 49 anni. Ma chi è Jacques Brel? Se qualcuno (gli Stadio) ha già retoricamente posto la domanda su "…chi erano mai questi Beatles?” è altamente probabile che il nome di Brel dica poco o niente alle generazioni italiche succedutesi negli ultimi vent'anni. A volerla facilmente sbrigare si può asserire che JB, insieme a George Brassens, è il più influente cantante/cantautore che abbia calcato le scene francesi nella seconda metà del secolo scorso. Meglio comunque approfondire quella che potrebbe sembrare una semplice boutade, intrecciando cenni biografici, opere e poetica della parabola umana ed artistica di questo magnifico chansonnier.

Jacques Brel nasce l'8 aprile 1929 a Bruxelles, da padre fiammingo ma francofono e madre con sangue francese e spagnolo nelle vene, retaggio del dominio castigliano del XVI e XVII secolo; il rapporto con la parte fiamminga del suo paese sarà sempre problematico ed altalenante (memorabili le scudisciate satiriche de "Les Flamandes" e "Les f…") mentre la figura di Don Chisciotte ed atmosfere spagnoleggianti ritorneranno sovente nell'immaginario creativo dell'artista. Il padre gestisce una fabbrica di cartoni, nella quale il giovane Brel presto si sentirà, parole sue, "encartonnée": comincia infatti a lavorare come impiegato, rinunciando nel frattempo anche agli studi. Così, più che all'ambito scolastico o familiare, Jacques deve la sua prima rilevante formazione culturale alla Franche Cordée, movimento giovanile di ispirazione cristiano-sociale: nella sua prima produzione s'incapperà sovente in spunti di religiosità e di umanitarismo evangelico, che via via sfumeranno e si evolveranno in un esistenzialismo umanistico alla Camus, in un socialismo libertario e anarcoide, decisamente antimilitarista. Ingabbiato nell'azienda paterna da un lato, sensibile e impegnato dall'altro, Brel trova sfogo alla sua personalità comunicativa e anticonformista in numerose recite teatrali e soprattutto in canzoni di sua composizione, eseguite in cabaret locali, feste studentesche e da ballo. In un arco di tempo che va dal 1948 al 1953 JB si costruisce un piccola ma solida fama nella sua città natale; nel febbraio 1953 incide il primo disco, un 78 giri con due canzoni: "La foire" e "Il y a". Fortunatamente queste due tracce vengono ascoltate da un celebre scopritore di talenti, Jacques Canetti, fratello del più famoso Elias. Canetti significa grande occasione, Canetti significa Parigi. In un attimo Brel si lascia tutto alle spalle, lavoro, ricchezza, moglie e figlie, quell'imborghesimento che permea la società della capitale belga e del quale lui si farà sovente beffe in memorabili canzoni (una fra tutte, "Les Bourgeois"), e si trova a debuttare nel locale dello stesso Canetti, il Trois Baudets, dove qualche tempo prima anche Brassens si era presentato in grande stile al pubblico della Ville Lumiére. Brel rimarrà in cartellone per cinque anni, superando critiche feroci e le solite facezie sui belgi, mangiando per mesi solo sandwich al camembert e pommes frites, alternando quella esibizione contrattuale ad altre, in un attivismo frenetico che lo porterà a esibirsi in sette locali per notte, dalle otto di sera all'alba. Costa così sudore e sangue la pubblicazione del primo album, "Grand Jacques" (1954); fortunatamente egli viene notato, soprattutto da Juliette Gréco, dea di Saint-Germain-des-Prés e della corrente esistenzialistica, che registra una sua canzone, "Le diable".

Juliette GrécoL'incontro con la Gréco è fondamentale per il belga, il quale comincia una collaborazione straordinariamente fruttifera con Gérard Jouannest, pianista e compagno della cantante, e con l'arrangiatore François Rauber, entrambi spesso decisivi nell'economia della melodia breliana. Nel 1957 tutta la Francia si accorge di quel ragazzo alto, allampanato, con dentoni da cavallo: con "Quand on n'a que l'amour" vince il Gran Prix du Disque e le tournée diventano nazionali. Nel 1959 è la vedette all'Alhambra e da Bobino e nel '61 il patron dell'Olympia, Bruno Coquatrix, decide di rimpiazzare l'improvviso forfait di Marlene Dietrich con Jacques Brel. Quella che poteva sembrare una scelta alquanto azzardata proietta il cantante nel firmamento della chanson française ed internazionale: l'uomo dà tutto sé stesso, ad ogni concerto, oltre ogni limite. Fino al 1966 il ritmo di esibizioni è sovrumano, arrivando a volte a 350 serate l'anno…

E' proprio nel '66 che Brel decide inopinatamente (almeno per il costernato pubblico) di dire basta agli appuntamenti live: sarà uno dei pochissimi musicisti che non tornerà mai sulla propria decisione. Jacques è prosciugato - lo si può immaginare! - e nel contempo voglioso di emozioni nuove, confacenti ad una personalità sfaccettata ed inquieta come la sua. Il teatro diventa il primario interesse: nel 1968 riadatta una commedia americana, "L'uomo della Mancia", prendendo per sé ovviamente il ruolo di Don Chisciotte, una parte calzante a meraviglia sul già forte idealismo breliano e sulla comunanza tra le due figure, magre, stralunate, affaticate, sofferenti, scavate da qualche malattia fisica e del vivere. La pièce teatrale non avrà un grande successo e ciò farà propendere Jacques per il definitivo addio al palcoscenico e per l'immersione quinquennale nel mondo della celluloide, come attore e regista. Delle performance attoriali si ricordano quelle ne "La Bande à Bonnot" e ne "L'emmerdeur", mentre commercialmente fallimentari si rivelano le due esperienze alla regia, "Franz" e "Far West". Volatilizzatasi anche la chance cinematografica, nel 1974 assistiamo al secondo addio alle scene, questo molto più radicale ed esistenziale: Brel si lascia alle spalle ogni rapporto col mondo dello spettacolo, lascia Parigi, la Francia e i propri affetti. Grazie ai suoi brevetti aeronautici e marini, prende a vagabondare per cielo e per mare. Sorvola l'Europa, novello Saint-Exupéry (mito che lo aveva da sempre accompagnato), poi con un veliero di 18 metri, l'Askoy, parte per un giro del mondo che si ferma a metà strada, in Polinesia. Jacques si stabilisce definitivamente ad Atuona, un villaggio di Hiva Oa, isola dell'arcipelago delle Marchesi, lo stesso sito dove si esiliò Paul Gauguin. In quelle isole lontane Brel non cerca un eremitaggio, ma un rapporto con una realtà totalmente diversa, una società sconosciuta e per certi versi incontaminata. Egli s'impegna a combattere l'isolamento, offrendo il proprio bimotore per il collegamento postale tra le isole più distanti; saltuariamente allestisce per i locali spettacoli e cineforum. Un anno prima della morte, l'ultimo coup de theatre: torna a Parigi in gran segreto e incide in presa diretta diciotto canzoni, dodici delle quali saranno pubblicate su un album atteso da quasi dieci anni, un album chiamato sobriamente "Brel". Il disco è splendido, più di un milione di copie vengono vendute in prenotazione e settecentomila direttamente nei negozi al primo giorno di uscita! Incurante del successo commerciale, torna alla sua isola, per la penultima volta. L'ultima sarà da morto nell'ottobre del 1978, volando dall'ospedale di Bobigny al cimitero di Hiva Oa, vicino a Gauguin.

Jacques BrelLa morte non potrà comunque cancellare la potenza di un artista completo, cantante, mimo, teatrante. La sua voce è impetuosa, sonora, nervosa, ora impettita, ora sinuosa, ora saltellante. Il canto è terso, nitido, totalmente descrittivo e funzionale al corpo testo-melodia. E poi quella incredibile gestualità, quelle lunghe braccia che si muovono dando vita ed espressione a personaggi - attraenti o repulsivi - che non vengono volutamente descritti in modo dettagliato attraverso il testo. Jacques Brel ha scritto canzoni straordinarie, eterne, tra le quali "Ne me quitte pas", "On n'oublie rien", "La valse a mille temps", "Marieke", "La chanson des vieux amants", "Jef", "Amsterdam", "Jojo", "La ville s'endormait". In esse e nel resto della produzione si alternano temi contrastanti, ironia, sarcasmo, dolcezza, amour fou, anarchia, amicizia e tenerezza, quest'ultimo probabilmente il sentimento più caro al cantautore, presentato in modo mai sdolcinato e carico di espressività, ma candidamente, quasi con distacco. Gioie e dolori sono inglobati in strutture sonore che paiono moti perpetui: la tecnica del crescendo-decrescendo in Brel è raffinata, selvaggia ed erotica al tempo stesso. Ci sono impennate in cui la musica va quasi verso l'alto, come le cattedrali gotiche che spuntano da quella terra piatta e da lui tanto amate. Tali sussulti sovente appartengono a composizioni dove il rapporto con la morte (o con cose o situazioni destinate a concludersi, stagnanti, putride) è palese e quasi scandaloso. Brel affronta il tema della morte lungo tutta la sua carriera, la evoca, la sfida, è un'amica-nemica innalzata a sublimazione di vita: tutta l'esistenza non è altro che un "arrivare" a quel punto. Jacques le va incontro cantando, laggiù a "Les Marquises", dove "per assenza di vento il tempo si immobilizza, dove "si parla della morte come tu parli di un frutto".”

(Riccardo Venturi in: www.antiwarsongs.org)

L'8 aprile 1929 nasce Jacques Brel, cantautore e attore belga (morto nel 1978).

 

Un fatto al giorno

8 aprile 1945: Seconda guerra mondiale. Dopo che un'incursione aerea distrusse accidentalmente un treno che trasportava circa 4.000 internati nazisti nel campo di concentramento di Hannover in Prussia, i sopravvissuti vengono massacrati dai nazisti...

“La notte dell'8 aprile 1954 i bombardieri alleati colpirono un treno fermo alla stazione di Celle che trasportava circa 4.000 deportati dai sottocampi di Salzgitter-Drütte e Salzgitter-Bad, circa la metà perse la vita, alcuni riuscirono a fuggire ma furono massacrati dalle SS e dalla polizia, circa 1.100 vennero catturati. 500 vennero costretti a marciare verso Bergen-Belsen dove arrivarono il 10 aprile. Coloro, circa 600, che erano stati feriti durante il bombardamento e quindi erano "inabili alla marcia" vennero lasciati in un caserma di Celle dove furono liberati dalle truppe britanniche il 12 aprile”

(In wikipedia.org)

Stazione ferroviaria di Celle

“La questione del rifiuto dei governi alleati di bombardare sia le ferrovie che trasportavano i prigionieri ad Auschwitz sia le installazioni destinate allo sterminio ha suscitato nel dopoguerra grandi polemiche e aspri dibattiti; ancora oggi sull’argomento sono in uscita ben due volumi: Bombardare Auschwitz di Umberto Gentiloni Silveri (Mondadori) e Bombardate Auschwitz di Arcangelo Ferri (Il Saggiatore). Perché queste linee di comunicazione non furono poste tra gli obiettivi alleati? Perché gli angloamericani non cercarono di fermare così la macchina dello sterminio? La richiesta di bombardare le linee che terminavano nel binario morto di Auschwitz-Birkenau fu rivolta agli alleati dalle istituzioni ebraiche e dal governo polacco in esilio nella primavera-estate del 1944. All’epoca, Auschwitz funzionava a pieno regime ed era rimasto l’unico in funzione dei 5 campi di sterminio iniziali: Belzec era stato chiuso nel 1943, Majdanec stava per essere smantellato in previsione dell’arrivo dell’Armata Rossa, mentre a Treblinka e Sobibor erano state sospese le esecuzioni di massa dopo due tentativi di rivolta. Ad Auschwitz, invece, i treni piombati continuavano a fermarsi, rigettando sempre nuove vittime. Solo a novembre l’attività del campo si sarebbe arrestata, in seguito all’avanzata dell’Armata Rossa che il 27 gennaio avrebbe liberato il campo. Cominciavano allora le marce della morte per spostare i prigionieri verso ovest, nei campi di concentramento in Germania. Cominciava anche la demolizione delle strutture di Auschwitz, per tentare di celarne il funzionamento ai vincitori. Nella primavera del 1944 stava per iniziare la deportazione degli ebrei ungheresi, che fu diretta da Eichmann e si svolse con grande velocità tanto da portare allo sterminio di mezzo milione di ebrei ungheresi in pochi mesi. I treni dei deportati viaggiavano a pieno regime perché lo sterminio fosse completato prima che le truppe russe arrivassero in Polonia. Per fermarlo era essenziale quindi impedire i trasporti. Ma era anche essenziale avvisare gli ebrei ungheresi che la deportazione non era rivolta a un campo di lavoro, ma alle camere a gas. Nessuna di queste due condizioni fu realizzata.

Proprio allo scopo di impedire la deportazione degli ebrei ungheresi, la rete clandestina di resistenza aiutò nell’aprile 1944 la fuga da Auschwitz di due giovani prigionieri ebrei, Rudolf Vrba (il vero nome era Walter Rosenberg) e Alfréd Wetzler. Essi riuscirono a raggiungere la Slovacchia dove resero una testimonianza accuratissima, ratificata e controfirmata, di quello che avevano visto nel campo. Sono i cosiddetti «protocolli di Auschwitz», che l’organizzazione clandestina ebraica mise subito in circolazione insieme con la raccomandazione agli stati maggiori dell’esercito alleato di bombardare le linee ferroviarie per Auschwitz. I protocolli raggiunsero le cancellerie europee, la stampa, i Paesi neutrali, la Croce Rossa, il Congresso Mondiale Ebraico. Si ottenne un primo arresto delle deportazioni dall’Ungheria, seguito però nell’autunno, dopo la presa del potere diretto da parte dei nazisti, dalla deportazione a tappe forzate di quasi tutti gli ebrei ungheresi. Intanto, nell’estate del 1944, l’aviazione inglese aveva fotografato il campo di Auschwitz dall’alto. L’impresa era stata resa possibile grazie all’installazione nell’Italia meridionale liberata di basi aeree. Le foto miravano però non ad individuare gli obiettivi di Auschwitz da colpire, ma a preparare il terreno al bombardamento degli stabilimenti della Farben, l’industria chimica importantissima per le sorti della guerra, che aveva stabilito i suoi modernissimi impianti presso Auschwitz, a Buna, utilizzando come manodopera i prigionieri del lager (fra loro Primo Levi ed Elie Wiesel). Le bombe colpirono ben 5 volte la fabbrica, e in un caso raggiunsero per errore anche Auschwitz, senza tuttavia recar danno alla linea ferroviaria. Ma perché questa decisione dei comandi alleati? Da una parte c’era la volontà di evitare che il conflitto si trasformasse in una guerra a difesa degli ebrei; dato l’antisemitismo presente anche nei Paesi in lotta con Hitler, combattere «per gli ebrei» avrebbe potuto diventare un’arma di propaganda nelle mani dei nazisti. Inoltre l’essenziale era vincere la guerra: non esistevano obiettivi intermedi. Lo aveva già detto il vice primo ministro inglese Clement Attlee nel gennaio 1943: «L’unico rimedio reale alla pesante politica nazista di persecuzione razziale e religiosa consiste nella vittoria degli Alleati. Ogni risorsa deve essere impiegata in vista di questo obiettivo supremo».In quest’ottica tutti i tentativi di salvataggio organizzati dall’Agenzia Ebraica fallirono, compreso quello di liberare un milione di ebrei in cambio di diecimila camion, bloccato dagli inglesi con l’arresto a Istanbul del negoziatore che trattava con Eichmann, Joel Brand: un’iniziativa che avrebbe salvato tutti gli ebrei ungheresi.

Gli alleati, quindi, non misero la salvezza degli ebrei fra gli obiettivi prioritari. Lo sguardo era già volto al dopoguerra, al processo di Norimberga, ai rapporti tra le potenze vincitrici. Le foto di Auschwitz, con il fumo dei crematori, restarono 60 anni sepolte negli archivi, senza essere neppure analizzate. Intanto si compiva lo sterminio.”

(Anna Foa, martedì 20 gennaio 2015, in: www.avvenire.it)

Il binario morto di Auschwitz-Birkenau

 

Una frase al giorno

“La Francia ha cominciato a decadere da quando si è gettata nelle braccia della democrazia. Il Primo Impero è stata la sua ultima follia vitale. Da allora è finita. L'Inghilterra è arrivata prima grazie al conformismo e alla stupidità illuminata dei suoi abitanti. La Svizzera è un paese nato morto. Il virus della libertà [...] è la fine dei popoli. Finis Europae, come diceva un mago, il Sâr Péladan. Dal momento che il virus è entrato nel sangue, ils sont foutus. Absolument. [...] i barbari stessi si sono oramai contagiati al virus della libertà. Il disgelo, appunto, e col disgelo la valanga, l'apocalisse: l'invasione cinese, l'invasione africana”.

(Emil Cioran, dall'intervista di Luigi Bàccolo, Viaggetto letterario a Parigi, L'Approdo Letterario, IX, 32, ottobre-dicembre 1965, pp. 63-64.)

Emil M. Cioran (Rășinari, 8 aprile 1911 - Parigi, 20 giugno 1995) è stato un filosofo, saggista e aforista rumeno

Emil M. Cioran (Rășinari, 8 aprile 1911 - Parigi, 20 giugno 1995) è stato un filosofo, saggista e aforista rumeno, tra i più influenti del XX secolo. Nato in Romania, dal 1933 al 1935 visse a Berlino, e dalla seconda guerra mondiale in avanti risiedette in Francia con lo status di apolide; scrisse i primi libri in lingua romena, ma dalla fine del conflitto scrisse sempre in francese e, nonostante questo non fosse il suo idioma di nascita, viene considerato da molti critici come uno dei migliori prosatori in questa lingua.

Vicino al pensiero esistenzialista, si distacca comunque dal movimento esistenzialista francese per la sua distanza ideologica dai principali esponenti quali Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Albert Camus, rifiutando l'impegno politico attivo sul fronte progressista e condividendo la filosofia dell'assurdo del suo amico Eugène Ionesco, benché venata dal suo pessimismo radicale. Il pensiero di Cioran è infatti influenzato da Nietzsche, Schopenhauer, Heidegger (rispetto al tecnicismo di quest'ultimo maturerà peraltro un'estrema reazione) e successivamente anche da Leopardi (benché, per sua stessa ammissione, mai profondamente conosciuto, ma avvertito quale "fratello d'elezione"), dai quali trae il suo nichilismo e il suo pessimismo. I suoi aforismi, anche per esperienze personali, sono infatti pervasi da una profonda amarezza e misantropia, che però vengono temperate dalla sua acuta ironia e dalla sua capacità di scrittura…”

(In wikipedia.org)

Immagini:

8 aprile 1911 nasce Emil Cioran, filosofo e accademico rumeno-francese (morto nel 1995)

Emil M. Cioran (Rășinari, 8 aprile 1911 - Parigi, 20 giugno 1995) è stato un filosofo, saggista e aforista rumeno 

Un brano musicale al giorno

Amilcare Ponchielli, La Gioconda, Danza delle ore.

Orchestra dell'Accadamia Nazionale di Santa Cecilia. Direttore: A. Pappano. Auditorium del Parco della Musica di Roma 29/12/2012.

La Gioconda, melodramma in quattro atti di Tobia Gorrio (Arrigo Boito), dal dramma “Angelo, tyran de Padoue” di Victor Hugo. Musica di Amilcare Ponchielli, 1834-1886. Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 8 aprile 1876.

Amilcare Ponchielli (Paderno Fasolaro, 31 agosto 1834 – Milano, 16 gennaio 1886), compositore italiano

La composizione dell’opera occupò il musicista dall’autunno del 1874 all’aprile 1876, ma gran parte del tempo fu in realtà dedicato ad alcuni lavori di circostanza (la cantata a Donizetti), alla revisione dei Lituanie alla realizzazione di progetti operistici meno ambiziosi (Lina). Oltre a ciò, il lavoro procedeva a rilento per via delle perplessità del musicista nei confronti della drammaturgia di Boito, incline a privilegiare il realismo drammatico a scapito di quella concezione lirica, di stampo donizettiano, nella quale tutto sommato Ponchielli si riconosceva ancora.

La prima rappresentazione fu un successo, ma Ponchielli decise di apportare alcune modifiche alla partitura (tagli, specie nel secondo atto, vistose modifiche al finale primo e al terzo atto, l’aggiunta della ‘furlana’ ecc.), illudendosi così di emendare definitivamente difetti dovuti a una gestazione tormentata e allo scarso tempo a disposizione. La nuova versione fu poi data alla Fenice di Venezia, nell’autunno dello stesso anno, e a Roma l’anno successivo; ma Ponchielli, grazie anche alla collaborazione del librettista Angelo Zanardini, si risolse a revisionare ancora una volta la partitura, riscrivendo in pratica gran parte del terzo atto. L’opera fu ripresa dapprima a Genova (1879) e infine nuovamente alla Scala (13 febbraio 1880); da allora è una delle opere più amate dal grande pubblico.

La Gioconda è senz’altro il progetto più ambizioso ancorché tormentato di Ponchielli, ossessionato - oltre che dalla consapevolezza di un’affermazione professionale tarda e dalla preoccupazione di confermare le aspettative sorte nel pubblico dopo I promessi sposi (1872) e I Lituani (1874) - dall’incertezza di un periodo inquieto, nel quale il successo di un’opera dipendeva da fattori imponderabili, spesso sapientemente mediati tra l’ossequio per la tradizione e una generica esigenza di rinnovamento. Il risultato riflette in pieno le aspettative dell’italiano medio nella seconda metà dell’Ottocento, teso com’è a ribadire un rassicurante legame con la tradizione (di Donizetti soprattutto) e con le tendenze drammatiche del melodramma italiano contemporaneo espresse da Verdi, e a lusingare i più esigenti richiamandosi eloquentemente al melodramma straniero, segnatamente francese; il tutto confezionato con una scrittura musicale che, a dispetto di molti giudizi della critica di un tempo, non appare certo più sprovveduta - né dal punto di vista dell’orchestrazione, né da quello della concezione compositiva (si pensi alla ‘Danza delle ore’, certamente uno dei più raffinati ed elaborati esempi di musica coreutica prodotti al tempo) - di molte creazioni coeve. Convinto assertore della validità delle formule melodrammatiche, sia pure adattate al gusto internazionale di fine Ottocento, Ponchielli, morto prematuramente, non partecipò che in minima parte al rinnovamento attuato da Verdi nelle sue ultime opere; tuttavia, Gioconda possiede alcune pagine nelle quali la compresenza di due piani distinti, uno lirico-contemplativo e l’altro drammatico, anticipa alcune soluzioni dell’Otello verdiano (il dialogo Gioconda-Laura con la ‘serenata interna’ nel terzo atto, il concertato del primo atto e il finale del terzo). Più del Verdi del Falstaff inoltre, troppo radicale per costituire un esempio da seguire, il modello di romanza offerto da Ponchielli, inteso ora come puro sfoggio lirico avulso dal contesto della scena (“Cielo e mar”), ora come monologo drammatico, animato da passioni più ostentate che intimamente avvertite e caratterizzato da una vocalità intensa e di grande coinvolgimento emotivo (“Suicidio!”), costituì un punto di riferimento irrinunciabile per gli operisti della ‘giovane scuola’.”

(Fonte: Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi)

Amilcare Ponchielli (Paderno Fasolaro, 31 agosto 1834 – Milano, 16 gennaio 1886), compositore italiano

 

8 aprile 1876: Milano, al Teatro alla Scala si tiene la prima de La Gioconda di Amilcare Ponchielli, e libretto di Arrigo Boito.

  • Ascoltare l’opera intera di Amilcare Ponchielli: La Gioconda

La Gioconda. Dramma lirico in quattro atti di Tobia Gorrio (Arrigo Boito) da "Angelo, tyran de Padoue" di Victor Hugo.

La Gioconda: Montserrat Caballé
Laura Adorno: Agnes Baltsa
Alvise Badoero: Nicolai Ghiaurov
La Cieca: Alfreda Hodgson
Enzo Grimaldo: Luciano Pavarotti
Barnaba: Sherrill Milnes
Zuane: John Del Carlo
Un Cantore: Stephen Varcoe
Isepo: Regolo Romani
Un Pilota: Neil Jenkins
National Philharmonic Orchestra - Bruno Bartoletti

 

Mary Pickford, pseudonimo di Gladys Louise Smith (Toronto, 8 aprile 1892 - Santa Monica, 29 maggio 1979)

P.S.: Buon compleanno Mary!

L’8 aprile 1892 nasce la leggendaria Mary Pickford, attrice, produttrice e sceneggiatrice canadese-americana, co-fondatore di United Artists (morta nel 1979).

Basato sul dramma francese Au Telephone (Al telefono) del 1901 di André de Lorde, The Lonlely Villa è uno dei primi ruoli cinematografici di Mary Pickford ed è il più antico sopravvissuto.

Mary Pickford, pseudonimo di Gladys Louise Smith (Toronto, 8 aprile 1892 - Santa Monica, 29 maggio 1979)

E naturalmente... un Mary Pickford, da assaggiare!

  • 6 cl Rum bianco
  • 1 cl Maraschino
  • 6 cl Succo di ananas fresco
  • 1 cl Sciroppo di Granatina

Versare tutti gli ingredienti nello shaker con ghiaccio.
Shake. Filtrate in una coppa da cocktail ben fredda.

Cocktail I.B.A. (International Bartenders Association) del 2011
Cocktail I.B.A. (International Bartenders Association) del 2004
Cocktail I.B.A. (International Bartenders Association) del 1987
Cocktail I.B.A. (International Bartenders Association) del 1961

Arte, spettacolo e cinematografia spesso si intrecciano con i classici del beverage dando vita alla tradizione di dedicare un particolare cocktail all’immagine di una grande attrice, in questo caso parliamo di un’icona del cinema muto americano, la celebre Gladys Smith, nome d’arte “Mary Pickford”, nata a Toronto nel 1892, che nei primi del novecento interpretò numerosi film determinandone un incredibile successo fino ad essere ribattezzata “The America’s Sweetheart”, l’attrice inoltre creò insieme a Charlie Chaplin la “United Artists” e tra i suoi film più famosi ricordiamo “Pollyanna”.

Da lei nasce questo cocktail creato a San Francisco da un Barman che volle celebrarne la sua naturale bellezza e femminilità, assemblando con classe Rum, succo d’ananas, il maraschino e la granatina e decorando con lo stesso ananas e una ciliegina, creando uno dei primi cocktail a base Rum, emblema di un’epoca e di un’arte che che non ci sono più, “Il film Muto”.

Il fascino del cinema nel successo di un cocktail.”

(In: barmanitalia.it)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k