“L’amico del popolo”, 9 aprile 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

CHE COSA SONO LE NUVOLE? (Italia, 1967), regia di Pier Paolo Pasolini. Soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini. Fotografia: Tonino Delli Colli. Montaggio: Nino Baragli. Musica: Domenico Modugno. Con: Totò (Jago), Ninetto Davoli (Otello), Laura Betti (Desdemona), Adriana Asti(Bianca), Franco Franchi (Cassio), Ciccio Ingrassia (Roderigo), Carlo Pisacane (Brabanzio), Francesco Leonetti (il burattinaio), Domenico Modugno (il netturbino), Luigi Barbini (un burattino), Mario Cipriani (un burattino), Piero Morgia (un burattino).

In un paesino di provincia, due marionettisti mettono in scena una rivisitazione comica dell’Otello: mentre sul palco le marionette sono costrette a interpretare i ruoli shakespeariani imposti dall’alto, dietro le quinte hanno vita e pensieri propri. Il canovaccio della tragedia di Shakespeare è, però, stravolto proprio all’apice del consueto climax: gli spettatori non accettano le malefatte di Jago e Otello e vi si avventano contro fino a smantellarli, salvando Desdemona dal funesto destino che il copione le riservava.

CHE COSA SONO LE NUVOLE? (Italia, 1967), regia di Pier Paolo Pasolini

Daniele Gallo, docente al CIELS di Padova, sottopone il corto pasoliniano “Che cosa sono le nuvole?” al filtro di una personale lettura spirituale, che ne valorizza la profonda stratificazione di senso, il rinvio alla filigrana dell’Otello di Shakespeare e la tensione alla sacralità dell’essere. Una interpretazione che è stata presentata al Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia il 14 marzo 2014, in occasione della presentazione del volume Pasolini e l’interrogazione del sacro, a cura di Angela Felice e Giampaolo Gri (Marsilio 2013).

“Non è possibile introdurre una benché sommaria analisi di uno degli innumerevoli segmenti della dimensione artistica pasoliniana senza sottolineare in premessa che Pasolini è stato soprattutto un uomo, un uomo innamorato del Creato e della vita, della cultura e della visione, della natura e della dimensione trascendente. Pochi come lui hanno saputo esprimersi con tanta passione e ispirazione, con altrettanta consapevolezza della solenne importanza di “dare tutto se stesso”, fino all’ultimo respiro. Ed è proprio questo amore che costituisce il valore aggiunto della sua vita e della sua opera, rese per questo archetipiche e simboliche fino al limite estremo. E questo amore, ancora, rende più credibile la sua ricerca, la sua aspirazione, la sua domanda di “sacro”: la “scandalosa ricerca” matura e trova un terminale di senso nell’unione con il trascendente, nella consapevolezza di un collegamento creaturale con il numinoso nell’aspirazione alla bellezza, alla giustizia, al mistero, alla pietas, categorie che Pasolini rende antropologicamente più accessibili.
Una delle opere in cui più evidente si delinea la declinazione della sacralità è il film Che cosa sono le nuvole? ispirata allegoria sulla vita, in cui l’autore abbandona l’approfondimento ideologico per accarezzare soprattutto la dimensione poetica, attraverso la proposizione in chiave delicatamente surreale della tragedia shakespeariana Otello: ne sono interpreti alcune marionette parlanti, metà uomini, metà pupazzi. Il vero protagonista è Jago-Totò, che architetta alle spalle dell’ingenuo Otello il falso tradimento di Desdemona con Cassio, vantandosi con il pubblico della propria perfidia.
All’ingresso dello strampalato teatro il titolo dello spettacolo del giorno Che cosa sono le nuvole? è sovrapposto e messo in relazione con Las Meninas: la scelta di utilizzare il quadro di Velazquez raffigura visivamente la visione di sacralità dell’autore.
Infatti Pasolini ci invita ad entrare dentro il quadro, mostrandoci il doppio livello della messa in scena: da una parte la tragedia rappresentata dai pupi-personaggi, dall’altra la prospettiva secondo la quale lo “spettatore” sarebbe solo osservatore falsamente privilegiato ma che in realtà non può vedere, né percepire i dialoghi e i caratteri dei pupi/attori, non può entrare nelle pieghe recondite, in quelle sfumature segrete e “irrazionali” del senso, non può calarsi nell’abisso della rappresentazione che si svolge. È come se Pasolini ci invitasse a guardare il film e a leggere la sceneggiatura come si guarda Las Meninas, cioè trovando la “verità” dell’inganno: il bene nel male, la realtà nella finzione, le cose importanti nelle futili. Pasolini nell’opera ci propone continuamente doppi piani di lettura, a partire dall’idea del teatro nel cinema, dalla separazione elementare tra il mondo della finzione e il mondo reale, fino ad arrivare alla riflessione sui significati dell’esistenza umana e sui rapporti tra “apparire ed essere”, tra vita e morte. Individuiamo, utilizzando la sceneggiatura del film, alcuni momenti in cui Pasolini esprime il suo anelito al sacro.

1.La nascita e la relazione.
Nella sceneggiatura la proposta del doppio piano è immediata ed esplicita, al contrario della versione cinematografica in cui è solo intuita. All’inizio della rappresentazione il burattinaio si propone come voce esterna e didattica, dall’alto: “Questa non è solo la commedia che si vede e che si sente; ma anche la commedia che non si vede e non si sente. Questa non è solo la commedia di ciò che si sa, ma anche di ciò che non si sa. Questa non è soltanto la commedia delle bugie che si dicono, ma anche della verità che non si dice”. Sono parole misteriose che rimandano alla dimensione sacra del “nascosto, dell’incomprensibile, dell’inaudito divino”. L’ascesi al numinoso può prendere avvio e si manifesta nella nascita del burattino: l’inizio della sceneggiatura rappresenta una sorta di Genesi. Non conta il contesto in cui vieni alla luce, è importante che la creatura si sovrapponga alla bellezza della creazione, se ne senta coinvolta, la duplichi, si senta adeguata e coerente ad essa. Ogni nascita si porta dietro il mistero della creazione, la scintilla di un collegamento con l’ignoto. Successivamente, dallo sgabuzzino al ripostiglio, assistiamo a un salto di qualità: nello sgabuzzino è avvenuta la nascita, nel ripostiglio, luogo in cui vengono conservati tutti i burattini, si impara la socializzazione, si apprende che attorno a noi esiste un progetto comune, nel quale far maturare la consapevolezza del nostro senso di appartenenza: “Il Burattinaio trascina paziente il nuovo burattino allegro nel ripostiglio dove, ai loro fili luccicanti, sono appesi tutti gli altri burattini...Sono tutti appesi lì ai fili, immobili e ciondolanti, nel silenzio segreto di quel ripostiglio...Otello il Moretto arde dal desiderio di parlare con qualcuno, di esprimere qualcosa che ha dentro, che non sa cosa sia, ma lo rende espansivo come un cagnolino... Si rivolge al più vicino, alla dolce faccia verde di Jago”. Fondamentale per l’uomo e la sua evoluzione è la ricerca della conoscenza della realtà e di quanto è esterno a noi. Otello, alter ego di Pasolini, mette in evidenza la gioia dell’essere nato ed esprime, convinto e felice, la sacralità della vita: egli è puro e incontaminato, come la verità che è dentro di noi, come vedremo in seguito; la felicità deve essere la condizione normale del genere umano: nella nebésnaia tiagà (l’attrazione celeste della poetessa russa Marina Cvetaeva) si afferma che solo nell’entusiasmo l’uomo può scorgere Dio esattamente perché Dio ha Creato il mondo nell’entusiasmo. La parola entusiasmo tra origine dalla radice greca thus (in sanscrito dhus) da cui il verbo greco enthousiazein, cioè essere ispirato dall’avere un dio dentro, da una forza divina irresistibile.

2. La lotta tra bene e male.
Ma la purezza della nascita e l’ingenua gioia lasciano presto il posto alla consapevolezza della presenza del male nel mondo e la rassegnazione di trovarsi di fronte a una doppia dimensione:
“Nell’angoletto dietro le quinte dove si mettono gli attori in attesa che venga il loro turno di entrare nel palcoscenico, Otello accoglie Jago con uno sconcertato sorriso di innocente offeso, che ancora non si capacita della sua triste esperienza...”
Otello: Ammazza, Jago, io te credevo tanto bono, tanto onesto... Un pezzo di pane... e invece quanto sei cattivo... Com’è?
Dall’istintiva gioia creaturale si precipita dunque in un momento in cui l’uomo non ricorda perché è sulla terra, si scollega dalla propria anima, è costretto a recitare un altro ruolo e a essere così diverso da come credeva: sembra spinto da una forza imperiosa che lo spinge a dire parole e a fare gesti che non condivide e che anzi egli stesso respinge. Ben presto Otello, con l’aiuto di Jago, si rende conto di non vivere nella realtà, nella sua realtà, ma in una rappresentazione di essa in cui tutti gli altri burattini, come lui, sono costretti a svolgere azioni decise da qualcun altro per loro, dal grande burattinaio (i condizionamenti, la cattiva cultura, i giudizi degli altri...) che dirige la rappresentazione. Noi siamo in un sogno dentro un sogno in cui viviamo accettando il copione che ci viene affidato, e che non ci appartiene, per un’interpretazione esterna a noi.

3. La consapevolezza della lotta e la relatività della verità.
Tutto è finzione, apparenza, anti-sacro:
Otello: So’ un assassino! So’ un assassino! Chi se lo credeva! Io, io so’ un assassino, mannaggia! Si rivolge verso l’alto, al Burattinaio...
Otello: A sor Maè! Ma perché io credo a Jago? Perché so’ così stupido?
Burattinaio: Forse...è perché sei tu che vuoi ammazzare!
Otello: Come? Me piace ammazzare? E perché?
Burattinaio: Forse perché a Desdemona piace essere ammazzata...
Otello: Ah! E’ così? (Ha una faccia sconvolta dal terrore e dalla meraviglia)
Burattinaio: Forse è così.
Otello (rivolgendosi a Jago) Ma allora qual è la verità? Quello che penso io de me, quello che pensa la gente o quello che pensa quello là dentro...
Jago: Mah... Qualcuno dice che la verità non c’è... qualcuno dice che la verità è ‘na media de tutte le verità diverse che ce stanno...Ma tu non dà retta a nessuno de questi... Perché c’è la verità.
Otello: E qual è?
Jago: Senti qualcosa dentro di te? Concentrati bene! Senti qualcosa? Eh?
Otello (dopo essersi ben concentrato) Sì...sì sento qualcosa... che c’è...
Jago: Beh... Quella è la verità...Ma ssst, non bisogna nominarla, perché appena la nomini non c’è più...
La finzione è appunto ciò che si mostra dentro al teatro dei burattini, costretti a un ruolo, a una maschera. Otello non vorrebbe uccidere Desdemona e non vorrebbe essere tradito da Jago, ma il burattinaio (colui che tira le fila, che rappresenta l’ineluttabilità del destino, in altre parole colui il quale rappresenta i condizionamenti cui siamo sottoposti) gli propone un’altra chiave interpretativa per dare un senso alla sua domanda sul perché è diventato assassino, evidenziando un altro doppio piano della verità nascosta e della verità-realtà. Forse il teatro stesso e l’arte in generale rivelano le verità nascoste, quelle che apparentemente non si possono dire. La verità è fuori dal linguaggio, fuori dalla rappresentazione e va tenuta nascosta. Hanno valore solo le cose che si vedono: la modernità ha quasi negato le cose nascoste, profonde, invisibili. La psicoanalisi ci conferma che siamo il prodotto, il risultato di fattori contingenti, del nostro apparato simbolico, di casualità complesse, del nostro sistema di vita, della nostra cultura, della nostra classe di appartenenza, dei rapporti fra struttura e sovrastruttura. Ognuno recita a soggetto copioni non scritti da noi. Shakespeare diceva che il mondo è un palcoscenico e noi siamo comparse. Persino i nostri desideri sono i desideri del mondo, come ha ben sintetizzato il filosofo e antropologo René Girard, evidenziando la teoria del “desiderio triangolare” e il “carattere mimetico del desiderio”: il desiderio non è una linea retta, soggetto-oggetto, ma un triangolo soggetto-modello-oggetto: il desiderio presuppone la presenza dell’Altro, noi desideriamo per imitazione del desiderio di un altro al punto che noi desideriamo meno l’oggetto di quanto invidiamo la persona che lo possiede. Le nostre aspettative sono quelle degli altri, i nostri sogni non sono i nostri. Così, la verità è concetto altrettanto relativo: essa è, appunto, fuori dal linguaggio, da ogni possibile rappresentatività e rappresentazione di se stessa. Non deve essere nominata, deve essere tenuta nascosta: la verità rimane concetto puro e astratto solo fino a quando dimora nella sacralità della nostra interiorità e si contamina non appena si mostra, si fa parola al mondo.

4. L’anima.
Alla fine dell’opera l’immondezzaio, novello Caronte, carica i corpi di Otello e Jago, uccisi dal pubblico, sullo sgangherato camioncino per portarli in una discarica, insieme al resto della spazzatura e canta una canzone in cui si evidenzia, ancora nella doppia polarità, un modello di comportamento per l’uomo alla ricerca del senso della sacralità della sua esistenza.
Evidenziamo inoltre un’altra dualità: nel testo della canzone, scritta dallo stesso Pasolini e musicata da Domenico Modugno, possiamo apprezzare lo splendido riferimento all’amore soffiato dal cielo: il vento come simbolo e metafora dell’anima (l’ebraico ruah). Sia il vento che l’anima non si vedono ma si possono vedere i loro frutti, le loro conseguenti azioni.
Il testo della canzone non compare nella sceneggiatura, ma è importante ricordare la penultima strofa per la sua coerenza alla riflessione complessiva.

Il derubato che sorride
ruba qualcosa al ladro
ma il derubato che piange
ruba qualcosa a se stesso
perciò io vi dico
finché sorriderò
tu non sarai perduta.

Pasolini è ispirato direttamente dallo stesso Shakespeare che scrive nell’Otello:
Quando non c’è più rimedio è inutile addolorarsi, perché si vede ormai il peggio che prima era attaccato alla speranza.
Piangere sopra un male passato è il mezzo più sicuro per attirarsi nuovi mali.
Quando la fortuna toglie ciò che non può essere conservato, bisogna avere pazienza: essa muta in burla la sua offesa.
Il derubato che sorride, ruba qualcosa al ladro, ma chi piange per un dolore vano, ruba qualcosa a se stesso.
(Otello, atto primo, scena III)

L’invito dell’autore è chiaro: l’uomo deve abituarsi a mettere tutto nella corretta posizione, nel giusto ordine gerarchico delle priorità, senza dimenticare mai il motivo del nostro passaggio sulla terra. Dobbiamo abituarci alla sapienza della pazienza: solo questa può restituirci la solennità della nostra dimensione, la cui comprensione può rendere irrilevante anche la stessa sottrazione di un nostro bene. Quando l’uomo riesce a trasformare un fatto negativo in positivo (cfr. la “resilienza” di Beppe Fenoglio) e a non conferire importanza a fatti comunque trascurabili se giudicati nella complessità cosmica, recupera, attraverso il vero significato della sua esistenza, la comprensione della sua costitutiva sacralità.

5. Morire alla vita.
Nella faccia spaccata e gonfia di Otello gli occhi luccicano di ardente curiosità, di intrattenibile gioia. Anche gli occhi di Jago guardano strabiliati e in estasi quello spettacolo mai visto del cielo e del mondo.
Otello: Iiiiih, che so’ quelle?
Jago: Sono...sono le nuvole...
Otello: E che so’ le nuvole?
Jago: Boh!
Otello: Quanto so’ belle! Quanto so’ belle!
Jago: (ormai tutto in comica estasi) Oh, straziante, meravigliosa bellezza del Creato!
Le nuvole passano veloci nel gran cielo azzurro.
Sono le ultime, storiche, parole di Jago, ma anche dell’attore Totò, che morirà poche settimane dopo. Come nel dipinto di Velazquez il lato nascosto dal quadro, ciò che nessuno “vedeva” o voleva vedere, è il mondo, qui rappresentato da una discarica abusiva dove vengono portate le due marionette. Scivolando lungo la cascata dei rifiuti, osservano un cielo con le nuvole di una bella giornata. Fuori dal “teatro-cubo” non sono più marionette, ma essenze del mondo. E’ la morte delle marionette, della finzione, delle creature del pensiero, che di solo dramma umano sanno nutrirsi, a rivelare improvvisamente la grandiosità dell’apparente assenza di senso, di quell’unicità senza scopo che è l’attimo folgorante della vita. Ed è qui che ritroviamo, forse con maggiore evidenza, la dicotomia vita-morte, come ben espresso dallo stesso Pasolini: “Quell’ideologia che fa corpo con l’inesplicabile mistero della vita, di quella disperata vitalità che assume valore e significato solo grazie al mistero del suo avere fine”. In quest’ottica l’autore ritrae la vita come un viaggio senza senso e la morte come nascita, come recupero del senso della vita. Vita nella vita attraverso il suo compiersi nella morte. La comprensione, la vera fascinazione della vita avviene con la morte, che regala senso alla vita e alla successiva trilogia della fede: vita – morte – resurrezione. Cosa c’è di più sacro dell’azione di fidarsi e di affidarsi al mistero, al nostro istinto di umani destinati all’eternità, di nutrire la consapevolezza di custodire dentro di noi già tutto, compreso il senso di appartenenza a un’altra dimensione, quella dell’immortalità? Prova ulteriore per Pasolini, come abbiamo già evidenziato, è il concetto di verità che nella sua astratta purezza appartiene al nostro intimo nel collegamento con la nostra anima e che, quando la esteriorizziamo, svanisce di fronte alle contaminazioni del mondo corrotto. L’opera diventa quasi una via di fuga per l’autore. Forse che in quel silenzio, nella scena finale del film, lontani dalla maledetta “struttura” (i simboli, il palco, il pubblico, l’apparato che ci circonda e penetra in noi), si possa scorgere la nostra vera interiorità, ciò che non fa parte del mondo, in uno slancio di divina libertà? Un assaggio mistico, nient’altro, un’intuizione che scompare nel momento stesso in cui nominiamo questa verità sommersa, nel momento stesso in cui cerchiamo di dire cos’è, di formalizzarla con la parola. Sappiamo dal film che dietro all’immagine del conducente si intravede il quadro di Velazquez Venere allo specchio. La bellezza considerata come simbolo di creazione, da opporre alla morte: infatti il funerale dei due burattini diventa il rovesciamento di un funerale: si perfeziona una seconda nascita di Otello e Jago che “muoiono alla vita”. Ma è proprio lì che, abbandonati a se stessi, per la prima volta a contatto con la realtà, tra i rifiuti (il mondo materiale) faranno un’importante scoperta; addolcendo il loro decesso, contemplano la perfezione e la bellezza delle nuvole (il mondo ideale), misteri sconosciuti per la loro misera condizione di marionette. Ci imbattiamo ancora in un doppio piano di lettura: la sacralità del cielo rispetto alla volgarità dell’immondizia. Per i due burattini essere gettati fuori dal teatro, dalla finzione, ha significato entrare nel mondo della vita. Non più finzione, gelosia e cattiveria, ma solo la sacralità del Creato. La fine si ribalta in un nuovo inizio e la realtà riconquista la sua dimensione sacrale con le nuvole, testimonianza del Creato”.

(Daniele Gallo)

Totò (Jago) 

 

Una poesia al giorno

Ghitangioli 140, di Rabindranath Tagore (Scrittore, poeta, drammaturgo e filosofo indiano, 1861-1941)

O mio barcaiolo, o barcaiolo
del fragile legno della mia vita,
non senti che dalla lontana riva
si è alzato un suono di liuto?

La tua barca potrà raggiungere
il porto prima della fine del giorno?
Là nel buio della sera
si mostrerà una luce amica?

Nella leggera, carezzevole brezza
dalla sponda dell'oceano
mi par di sentire un riso
portato sulle ali del crepuscolo.

Al momento di partire
ho raccolto un po' di fiori,
ed ora mi farò una corona
coi petali che ancora hanno vita.

 

Un fatto al giorno

Il 9 aprile 1865, ad Appomattox, il generale Lee, comandante in capo dell'esercito della Confederazione del Sud, firma l'atto di resa al generale Grant: è la fine della guerra di secessione americana. La Treccani on line la spiega così: “Conflitto (1861-65) scoppiato negli USA dopo il tentativo di secessione degli Stati meridionali, riuniti in Confederazione contro il governo federale dell'Unione. Le origini della g.c.a. sono legate ai diversi sistemi economici e doganali: gli Stati del Sud, agricoli e latifondisti, erano favorevoli al libero commercio, quelli del Nord, industriali e commerciali, erano fautori di tariffe protezionistiche. Su questa base si inserì la disputa tra il Nord abolizionista e il Sud schiavista, che sfociò nella g.c.a. a seguito dell'elezione a presidente di A. Lincoln (1860), favorevole a una graduale abolizione della schiavitù. Nel dicembre 1860 undici Stati sudisti si staccarono da Washington e si unirono in una Confederazione con una propria capitale (Richmond in Virginia) e con un proprio presidente, J. Davis (1808-1889). Nell'aprile 1861, un mese dopo che Lincoln aveva assunto la presidenza, scoppiò la guerra civile con l'attacco dei sudisti a Fort Sumter. Nel corso del conflitto le armate sudiste guidate dal generale R. Lee opposero una straordinaria resistenza, ma alla fine dovettero cedere alla supremazia dell'esercito nordista al comando di U. Grant (sconfitta di Gettysburg, luglio 1863) e si arresero nell'aprile 1865. La guerra, resa cruenta dall'impiego delle prime armi automatiche, era costata oltre 600.000 morti. La sconfitta degli Stati del Sud e la scomparsa della schiavitù posero le premesse di una rifondazione della nazione americana sulla base della supremazia industriale del Nord e del rafforzamento del governo federale.”

Il 9 aprile 1865, ad Appomattox, il generale Lee, comandante in capo dell'esercito della Confederazione del Sud, firma l'atto di resa al generale Grant 

 

Una frase al giorno

“Al mio funerale sarà bello assai perché ci saranno parole, paroloni, elogi, mi scopriranno un grande attore: perché questo è un bellissimo paese, in cui però per venire riconosciuti qualcosa, bisogna morire”

(Antonio Vincenzo Stefano Clemente, in arte Totò, 1898 - 1967)

 

Un brano al giorno

Cosa Sono Le Nuvole, di Domenico Modugno, dal film di Pier Paolo Pasolini (1967)

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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