La casa dei ricordi

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Ai piedi dell’argine del Grande Fiume c’è ancora una casa imponente, avvolta dalla nebbia in inverno, bruciata dal caldo in estate, abbandonata ormai da decenni, con persiane di un colore antico spaccate dal sole e tegole sbiadite sconnesse dal vento. Tutt’intorno, quella che una volta era stata l’aia di terra battuta, regno incontrastato di galline ed oche prepotenti, che ripulivano avide lo spazio circostante da residui di ogni genere, ruspando compulsive il terreno con unghie robuste, come rastrelli nelle abili mani del contadino.

Ora è rimasta solo una spianata arida, piena di erbacce che si estendono fino a quello che era stato un orto ben curato, a giudicare dai muretti in cemento che ne delimitavano i contorni e dai filari che sorreggevano le svariate colture, sopravvissuti all’erosione del tempo. Ma… dopo il tramonto, quando gli ultimi bagliori rossastri si perdono all’orizzonte dietro le cime di pioppi ormai spogli, se accosti un orecchio al portone scrostato e lo colleghi con molta attenzione al battito del cuore, ecco che ritornano alla mente tanti ricordi.

Ritornano a quel cortile nella casa di campagna dei nonni, dove noi bambini, sempre i medesimi, ci ritrovavano nel periodo delle vacanze a giocare per ore, organizzando ed inventando passatempi. Le gambe graffiate e le ginocchia “sbucciate” una chiara dimostrazione di tanta sfrenata attività.

 

 

La vacanza dai nonni materni era una gioia immensa. La bimba, abituata alla vita di città, veniva improvvisamente catapultata in una realtà diversa, fatta di aria pulita, di cielo terso, di corse a perdifiato lungo l’argine, di profumo di acqua e pesce che esalava dai gorghi o dalla golena scivolosa, di polvere, di sudore, di grandi bevute dal secchio del pozzo di un’acqua gelata dal sapore di metallo, come il mestolo di rame che la conteneva. Fatta di divertimento con i cuginetti ed i loro amici, inselvatichiti da una vita libera da quelle regole cittadine che ne avrebbero limitato grida e schiamazzi. Fatta anche di razzie di pomodori maturi e profumati dall’orto del nonno, addentati con straordinaria voracità dopo averli strofinati alla bell’e meglio sui corti pantaloncini di cotonina fiorata oppure sulla canottiera che, già dal mattino, aveva perso le originali sembianze fresche di bucato.

Una vita ricca di avventurosi inseguimenti di galline grassottelle e morbide, un insostituibile piacere da accarezzare, come si fa con i cuccioli domestici.

Un mondo abituato ad irrinunciabili momenti di siesta, accompagnati dal monotono frinire delle cicale anch’esse impigrite dal caldo, sotto gli alberi del frutteto. Peschi stracarichi di frutti maturi, che potevi cogliere allungando semplicemente la mano, rimanendo sdraiati sulle zolle di colore gessato screpolate da un sole che martella impietoso sulle teste e sulla pelle, in quella parte di provincia della Bassa Padana.

 

 

Accanto a noi c’era un compagno di giochi un po’ singolare, che ogni anno, da quando ho memoria, ritrovavamo sempre nello stesso periodo. Sembrava conoscere giorno ed ora del nostro arrivo e per tanti anni ci ha atteso alla fermata della corriera. La gioia di vederci era tanta, poco mancava che ci abbracciasse e da quell’istante per tutta la durata della vacanza non ci abbandonava più. Il suo nome? Per noi figli ignoranti del dopoguerra, cui era ancora sconosciuta la K degli “americani”, era semplicemente Blec. Un cagnone meticcio dal mantello a pelo raso color nocciola, visibilmente un incrocio tra un Labrador con la corporatura di un Pastore abruzzese, con gli occhi umidi e buoni e lo sguardo fiero e deciso di chi sa di essere importante. Camminava ciondolante al nostro passo e con noi a galoppare sull’argine sollevando nuvole di polvere. Si era specializzato nel gioco di ruba bandiera ed era sempre il primo a strappare dalle nostre mani un drappo rosso. Bastava che abbaiasse per scoraggiare qualunque intruso e quando era il momento della siesta, consumava lo spuntino in nostra compagnia, poi si sdraiava all’ombra, stiracchiandosi come un bambino. Lo conoscevano tutti in paese ed anche gli accalappiacani, che ai tempi non risparmiavano certo i poveri randagi, lo rispettavano e magari gli allungavano anche qualche gustoso boccone. Era ben nutrito e pulito perché da tutta la popolazione riceveva cibo e cure. Non avrà avuto un pedigree da cane di pura razza, ma possedeva una cosa molto più importante: il rispetto e la stima della gente perché, anni prima, aveva salvato dai gorghi del fiume un bambino della zona che stava per annegare, afferrandolo con le potenti mascelle e trascinandolo fino a riva. Blec è stato il nostro beniamino e compagno di scorribande per tanti anni e ad ogni ritorno lo vedevamo con i baffi sempre più bianchi e l’andatura sempre più lenta. Poi un’estate non ci ha più aspettato alla fermata della corriera. Ci dissero che se ne era andato serenamente qualche giorno prima, durante il sonno, stringendo tra i denti un logoro drappo rosso. 

D’improvviso un altro ricordo si sovrappone ai precedenti, come se la memoria li stesse prepotentemente selezionando in una slot machine.

È il cigolio dei freni di una bicicletta ad interrompere la quiete dei lunghi e sonnolenti pomeriggi estivi. Era il nonno, che rientrava dal lavoro nei campi.

 

 

Sulla strada del ritorno aveva già falciato e riposto in un sacco di juta appoggiato al manubrio, una grande quantità di erba spagna, un foraggio salutare, una vera ghiottoneria per i suoi amati conigli, meravigliosi campioni da esposizione: unico motivo di orgoglio di un uomo indurito dalle fatiche e dalle preoccupazioni.

Il tempo di rinfrescarsi e cambiare la camicia intrisa di sudore e poi mi invitava a salire su quel pesante ferrovecchio. Si trattava di una bici da donna, l’ideale per la sua figura tarchiata, di altezza medio bassa e con le gambe corte, così riusciva a pedalare senza fatica, mantenendo l’equilibrio, anche quando percorreva impervi viottoli, su e giù dall’argine. Per portare in giro i nipoti e prima ancora i figli, aveva adattato al telaio del suo insostituibile mezzo di trasporto, un seggiolino di legno da lui sagomato e levigato alla perfezione, per evitare che qualche scheggia si conficcasse nella pelle nuda delle gambe dei bambini.

L’invito a salire era un grande privilegio, il momento più atteso della giornata. Risalendo l’argine, si arrivava sul sentiero stretto e sterrato e mentre pedalava, con lentezza e a cadenza ritmata, il nonno, osservando il fiume, sembrava captare, dal fluire di quella corrente dagli strani bagliori sotto l’accecante luce del sole, lontani ricordi. Era uomo di poche parole, ma certe rimembranze lo facevano divenire loquace, specialmente con me perché - diceva - sapevo ascoltare. Con lo sguardo concentrato oltre il punto più lontano dell’argine, rievocava i tristi periodi della guerra, il fischio agghiacciante delle bombe che cadevano, la fame, il saccheggio di quel poco cibo e degli animali da cortile che avrebbero dovuto garantire la sopravvivenza della famiglia, da parte di un nemico in fuga che lasciava dietro di sé solo miseria e desolazione.

Poi ricordava la carenza di acqua potabile che veniva contaminata dai tedeschi, le invalidanti febbri malariche a gran parte della popolazione e l’angosciante difficoltà a reperire il prezioso chinino di Stato, l’unico mezzo conosciuto per combattere la malattia. Gli occhi gli diventavano improvvisamente lucidi di orgoglio quando ricordava di avere salvato, assieme ad altri uomini fidati del paese, alcuni alleati feriti, nascondendoli in un fienile poco distante e curandoli come meglio potevano.

Gli ritornava in mente anche la vecchia gracchiante radio a valvole, dono alla famiglia, in segno di riconoscenza per averli curati e nutriti, dei medesimi soldati salvati a rischio della propria e altrui vita.

Poi, sentendo sopraggiungere la commozione, il nonno cambiava immediatamente discorso e mi rinfrescava la memoria sul modo di “fare fascine” che sarebbero servite durante l’inverno per “avviare” il fuoco del camino, raccogliendo solo i rami secchi, senza danneggiare le piante.

Una volta arrivati nel pioppeto che degradava dolcemente verso il fiume, era però impossibile non essere attirati dagli invitanti cespugli ripiegati su se stessi dal peso delle more mature, gonfie di succo profumato che tingeva le labbra di un colore violaceo, scuro ed indelebile, palese dimostrazione a chiunque ci avesse visto, della furtiva abbuffata. Era la nostra merenda. La gerla che il nonno portava, grazie a robuste cinghie di cuoio che avvinghiavano le spalle, veniva riempita con rapidità e competenza, ottimizzando al massimo lo spazio disponibile, giusto in tempo per far rientro alle prime luci rosate di un tramonto che preannunciava per l’indomani un’altra splendida giornata.

E ancora oggi, dopo tanti decenni, quando ritorno in quel luogo per il doveroso omaggio a chi non c’è più, non posso rinunciare a risalire l’argine per il solito sentiero, con la piacevole fatica che si accompagna ad un incontenibile stato d’ansia. Nella mia mente sento riecheggiare, quasi con infantile suggestione, voci e risate provenire dalla riva del mio fiume, così magico circondato dalla sua inseparabile nebbia mattutina e mi pare di scorgere ancora l’inconfondibile figura di un vecchio che si allontana curvo su una bicicletta, accompagnata da un familiare cigolio.

 

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  • Marisa ANEGHINI e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.