Cronaca di un Natale

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Quando non esisteva ancora Internet e la televisione era un privilegio di pochi, il periodo precedente il Natale veniva vissuto con tale intensità che si arrivava al fatidico giorno della vigilia stremati dall’emozione. Questo stato d’animo non riguardava solamente noi bambini ma anche le nostre mamme e nonne, coinvolte in operazioni di grande spolvero e abbellimento della casa, in previsione dell’arrivo di parenti e amici, ai quali mia madre non faceva mai mancare un casalingo ciambellone profumato con semi di anice, da mangiare a merenda tutti in compagnia.

Dai primi giorni di dicembre si preparava il calendario dell’Avvento, tutto rigorosamente confezionato a mano. A casa mia non esisteva la “paghetta” e ci si doveva arrangiare in qualche modo: la colla fatta con la farina andava benissimo e soddisfaceva sia lo scopo sia la tasca.

Cronaca di un Natale, di Marisa AneghiniIl giorno dell’Immacolata, da uno scatolone impolverato, sempre lo stesso e con le stesse cose, che abitava ormai da tanti anni in soffitta, si tirava fuori il Presepe, con pastori, pecorelle, qualche lucina, palline di vetro e… sempre qualcuna rotta. “Toh, guarda la contadinella, l’anno scorso l’avevo dimenticata! Nonna, sai che vicino a Betlemme, al tempo di Gesù c’era il deserto? Mi daresti un po’ di farina della polenta per fare le stradine che portano alla capanna? Il Bambinello lo nascondiamo qui, dietro il bue e l’asinello, in attesa che nasca e gli agnellini li sdraiamo vicini alle loro mamme, perché saranno stanchi di camminare”.

La letterina a Babbo Natale era di norma molto essenziale, più che altro una dettagliata informativa di come si fosse stati ubbidienti, rispettosi e studiosi; i regali che desideravamo, magari anche costosi, non si aveva neanche il coraggio di elencarli. Il cappellino di pelo di marmotta con la codina, che mi piaceva tanto, era troppo caro e mi avevano detto che sarei stata ugualmente calda con una cuffietta di lana dal ridicolo pon pon. Fine della storia, l’argomento era chiuso. Però, quando in giro per la città, tutta illuminata e parata a festa, passavo davanti a quella vetrina, con quel delizioso stivaletto bianco, giusto della mia misura, la speranza si riaccendeva: forse chissà, Babbo Natale sarebbe potuto passare proprio di lì. Il giorno della vigilia, a casa mia si spandeva tutto un miscuglio di odori, profumo di cibo buono, nel pieno rispetto della tradizione emiliana.

Un brodo magico, da far recuperare i sensi ai moribondi, avrebbe accompagnato l’indomani i cappelletti di nonna, “sfoglina” provetta, che mi concedeva il privilegio di distribuire il ripieno su centinaia di piccoli quadrati di pasta, che poi richiudeva e inanellava con straordinaria abilità e del cui ricordo, a distanza di sessant’anni, ancora mi stupisco.

Mio padre rientrava la sera con una sportina piena di mandarini, arance, datteri, prugne e fichi secchi che noi bambini appendevamo con tanto impegno al piccolo abete profumato di resina, assieme a variopinti bastoncini e animaletti di zucchero.

Era una festa nella festa e ci si coricava soddisfatti con la favola della buonanotte, sempre la stessa, ma a volte con qualche opportuna variante, che accompagnava il nostro sonno sereno.

Ci risvegliavamo con il profumo del pane abbrustolito in forno e in cucina ci attendeva una scodellona di latte macchiato con la “miscela Leone”, un lontano parente del caffè, che ci dava l’illusione di essere diventati improvvisamente adulti. Dopo colazione si rispettava il rito della visita ai Presepi, nelle chiese del “centro”. Il mio preferito era quello del Duomo: una lunga processione per scendere la ripida scala che portava alla cripta e poi la meraviglia di quel paesaggio che passava dal giorno alla notte, in un abile gioco di luci, suoni e musiche soffuse.

Mi sembrava tutto vero a quel tempo; e Gesù Bambino, vestito di poco o niente ed ancor più povero di noi, già sorrideva al Mondo.

 

INFORMAZIONI

Marisa Aneghini

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