Quando mi attanaglia quel senso di nostalgia che opprime e soffoca gola e pensieri, devo partire per ritornare alle mie radici. Il cuore mi guida, la memoria fa il resto.
Rossi mattoni accompagnano nel cimitero il mio lento incedere e lo sguardo, distratto dalla solennità. Lo scalpiccio sulla ghiaia del viale mi fa sentire in compagnia. Ultimo cipresso a destra - Come sei cresciuto! - penso, calpestando con rispetto la sua ombra. Sono arrivata. Un ciao malinconico e sussurrato ai miei genitori. Non amo le preghiere, mi concentro con affetto sui loro sguardi, fissi in cornice. Tra urne, sculture in marmo scurito dal tempo, figure di donne dal volto dolente, epigrafi toccanti che raccontano di epidemie e guerre, in questo luogo si respira la memoria dei Grandi del Risorgimento, dei troppi giovani martiri della Grande Guerra e di tante persone comuni. Mi scuote il suono della campanella che annuncia l’imminente chiusura. Esco, mandando un bacio ai miei cari.
Gironzolo fra stradine e vicoli, ancora ordinati, abbelliti da una girandola di sfumature rosa delle peonie, rosse dei gerani, blu delle ortensie che troneggiano agli angoli dei portoncini, sui balconi, nei giardini odorosi di muschio e miele, con le fioriture anticipate di tigli e gelsomini mescolate a quelle tardive di solari ginestre.
L’occasione mi porta da queste parti sempre dopo l’ora di pranzo e mi piace sentir risuonare, nel borgo antico e sonnolento, solo i miei passi solitari che rompono l’incredibile silenzio, come quelli di un timido viandante stordito da tanta magia.
Dal seminterrato di uno stabile ottocentesco provengono voci sommesse e complici risatine. Appoggiando la mano sul caldo laterizio, riesco a sbirciare l’interno dove operose sfogline, nei loro candidi grembiuli, attrezzate di cuffietta e matterello, impastano e stendono con mani agili e sapienti, enormi ruote di pasta sfoglia che già pregusto trasformata in pappardelle condite nel più saporito dei modi oppure confezionata in quell’unico ed insostituibile capolavoro della cucina emiliana che si chiama “tortellino”. Quanti ricordi! Quell’anello minuscolo di pasta farcita magicamente prendeva forma sulle abili dita di mia nonna che mi coinvolgeva in occasione delle feste importanti e delle ricorrenze. Ogni scusa era bandita, la collaborazione era d’obbligo. Così, tra profumo di farina mischiata con sapienza a uova freschissime ed un ripieno che odorava di carne sopraffina, parmigiano e noce moscata, con la calma e la sapienza delle donne di una volta, creavamo dei capolavori, disposti sul tagliere come uno squadrone ben allineato di tanti soldatini pronti ad immolarsi per la gioia del nostro palato, dentro una pentola di squisito brodo fumante.
I raggi cocenti del sole mi riportano bruscamente al presente e, con la bocca riarsa dalla calura, realizzo improvvisamente che la vista di tanta meraviglia mi ha stimolato l’appetito. Ormai si è fatto tardi, i negozi sono chiusi, ma sono fortunata, perché intravedo di lontano una panchina accanto ad una insegna. “Beh - penso quasi ad alta voce - un gelato è davvero provvidenziale in una giornata così calda!”. Mi siedo sfinita, con l’irremovibile intenzione di gustare una coppa di dimensioni gigantesche e mentre, soddisfatta, mi sto beando, con gli occhi socchiusi e tutti i sensi concentrati su quel goloso accostamento di gusti, sento un ripetuto e setoso fruscio di ruote di biciclette da corsa. Un festoso quanto invadente gruppetto di cosiddetti “ciclisti della domenica” decide di fare tappa e, in men che non si dica, in quell’oasi di pace, compaiono panini, salame, lattine di birra, persino un fiasco di vino e la pancetta dei sessantenni esposta al sole ad asciugare, come le maglie inzuppate del loro sudore. Poiché l’atteggiamento del gruppo si fa, ad un certo punto, troppo goliardico, decido di eclissarmi.
Proseguo la mia strada, cercando un poco d’ombra. È stato a questo punto che una fresca e piacevole corrente d’aria mi ha fatto alzare gli occhi verso una targa di marmo che non avevo mai notato, affissa al muro, dedicata da un gruppo di amici del paese ad un amico. Un groppo di commozione mi ha tolto il respiro per un istante, poi, con gli occhi ancora umidi, ho pensato che la gente in fondo, dopo tanto tempo, non fosse cambiata. Mi sono sentita orgogliosa di appartenere ad una terra dove ancora si rispettano i defunti, l’amicizia, le persone umili e dignitose. Solo poche parole incise su una lastra, eppure non sono riuscita a toglierle dalla mente e per tutto il pomeriggio, ho avuto la sensazione di avere accanto la presenza di quell’amico, ricordato con tanto affetto. Passo dopo passo, mi sono ritrovata davanti ad un cancello conosciuto, ora corroso dalla ruggine. Nel cortile un vecchio seduto su una poltrona traballante come le proprie gambe, chiaramente sostenute dal bastone appoggiato al bracciolo, parla con la moglie, anch’essa molto avanti con gli anni. Con sguardo orgoglioso ammirano la propria casetta, minuscola, curata nei dettagli e fiori ovunque, ci si immagina come quella delle fiabe, sulla cui porta si legge la scritta “Parva domus sed mea” che parla di sacrifici, di modestia, della capacità di gestire con onestà ciò che la vita può offrire, una immagine che, in verità, mi ha fatto stare subito bene. Con un cenno della mano saluto l’anziana coppia.
“Uei, Battista, come state?”.
“Gagina, sei tu! Oi ciò valà, mi pare di essermi un po’ invornito con questa amba qui!” - mentre mi allunga una manciata di ciliegie raccolte al momento, direttamente dalla pianta che ombreggia il vialetto.
“Grazie, ma non vi dovevate disturbare. Salutate la Rosina e voi cercate di star bene. Scappo, che arriva il temporale”.
Mi congedo avviandomi quasi di corsa, giù per la strada, perché nuvole nere come cattivi pensieri si stanno addensando all’orizzonte.
Improvvisamente il silenzio quasi surreale viene interrotto da un disperato garrito di rondini, in un fermento disordinato di voli, come la corsa affannosa di massaie, al mercato, prima della tempesta. Faccio appena in tempo a ripararmi, quando grosse gocce di pioggia, rimbalzando sull’asfalto, creano uno strano luccichio, seguito da un inconfondibile gradevole profumo che libera i polmoni e la mente e tutto il paesaggio intorno acquista quell’irresistibile fascino che solo questa terra può offrire.
INFORMAZIONI
Marisa Aneghini, da Forlì
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