MUSI NERI

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Ottobre 1970. Terminato da poco tempo il corso da aiuto-macchinista, era poi cominciato il vero e proprio servizio sui treni. A Cremona, dove ero stato assunto, in quel periodo la quasi totalità del trasporto ferroviario veniva effettuato con la trazione a vapore e quindi si trattava di imparare per bene la mansione del fuochista.

Non era certo il lavoro che immaginavo di dover svolgere un giorno, ma con volontà e grazie all’aiuto dei macchinisti incontrati, esperti e comprensivi (non tutti a dire il vero!), ho cominciato a cavarmela abbastanza alla svelta.

Sicuramente quando, tutto vestito di nero, un fazzoletto attorno al collo o calato sul viso per proteggermi dal fumo, con pesanti guantoni per armeggiare con pala e ganci vari attorno al fuoco e al carbone, sudato estate e inverno, vedevo passare i colleghi vestiti normalmente, seduti alla guida dei locomotori, una po’ d’invidia affiorava in me. Oggi invece sono fiero e contento di aver fatto parte, anche se per poco tempo, della tribù dei “musi neri”, così come sono stati definiti sin dall’inizio i macchinisti e aiuto-macchinisti che hanno operato sulle macchine a vapore.

Uno degli episodi legati a quel periodo, che ricordo ancora per le tante sensazioni provate, risale a una giornata di inizio novembre del 1970. Come servizio mi fu ordinato di raggiungere la stazione di Milano Centrale dove avrei incontrato un macchinista con il quale avrei fatto coppia. Il “maestro”, così venivano chiamati con rispetto i macchinisti, era un tipo di mezza età, brizzolato, con un aspetto distinto che incuteva un po’ di soggezione.

Mentre raggiungevamo la locomotiva a vapore che ci avevano assegnato, stazionata in un tronchino appena fuori pensilina, mi illustrò con poche parole il da farsi. Eravamo stati assegnati a svolgere una “Riserva Presenziata”, cioè avremmo preso in consegna una locomotiva, l’avremmo preparata a puntino per poi rimanere pronti a garantirne il regolare funzionamento. “Una cosa che richiede attenzione”, disse, senza aggiungere altro.

Mi sentì subito addosso una certa ansia. Il mio stato d’animo ricevette un ulteriore colpo quando giungemmo di fronte alla vaporiera. Si trattava della famosa 685, detta la “Regina” delle locomotive a vapore: una macchina dall’aspetto imponente che metteva timore solo a passarci vicino. Immaginate a salirci sopra, per me, fuochista alle prime armi. Tanta emozione e apprensione apparvero sul mio viso! Cosa che non passò inosservata al macchinista che, con una punta di sadismo, ironicamente mi disse di stare tranquillo e che se mi avevano assegnato a quel servizio voleva dire che ritenevano fossi in grado di svolgerlo. Mi limitai ad annuire con un sorriso poco convincente.

Espletati tutti i controlli previsti e portata la locomotiva ad un livello di pressione ottimale, finalmente ci fu un attimo di pausa per guardarsi attorno... Per me, abituato alle stazioncine del Cremonese, quella di Milano era veramente grande sotto tutti gli aspetti: tanti binari, tanta gente che andava e veniva, rumori, voci, suoni, e su tutto dominava il colore grigio.

Continuando a volgere lo sguardo qua e là, la mia attenzione fu attirata da un treno molto particolare in sosta su un binario non lontano da noi. Era formato da carrozze d’epoca, tirate a lucido in modo perfetto: ottoni splendenti, tendini ricamati ai finestrini, personale viaggiante in gran spolvero. Rivolgendomi al mio macchinista, chiesi se per caso stessero girando un film. La sua risposta fu a quel punto più precisa e mi fornì tutte le informazioni che riguardavano il nostro servizio. Non si trattava di un film, mi spiegò, e quel convoglio era niente meno che il treno presidenziale italiano, messo a disposizione dell’allora Presidente della Repubblica, Saragat, per l’imperatore d’Etiopia, Hailé Selassié, in visita ufficiale di alcuni giorni in Italia. Poi concluse la sua spiegazione dicendo che noi avremmo dovuto garantire eventuali spostamenti e la partenza stessa del treno in caso di avarie al locomotore e soprattutto in caso di mancanza di tensione alla linea aerea, cosa che, causa lavori, accadeva spesso in quel periodo.

Una responsabilità che non capita di avere tutti i giorni”, sentenziò fiero il mio “maestro”, provocandomi, tra una badilata e l’altra di carbone, un certo tremolìo alle gambe! Nel contempo però, piano piano, una sensazione di orgoglio mi pervase e mi sentii a quel punto veramente importante!
Fortunatamente tutto filò liscio e il treno partì regolarmente (la destinazione mi pare fosse Venezia). Dal finestrino del locomotore, il solito sguardo di commiserazione dei colleghi macchinisti verso le vaporiere incontrò questa volta il nostro che esprimeva una insolita fierezza.

Verso sera, tornando alla mia piccola Cremona, pensai che quella trascorsa sarebbe rimasta sicuramente una giornata da ricordare. Più avanti nel tempo ebbi modo di ritrovarmi ancora di fronte una locomotiva 685, ma ormai avevo raggiunto una buona pratica nella gestione del fuoco e una conoscenza di tanti particolari sul come comportarmi con la macchina: non avevo più quel fare impacciato e timoroso del primo incontro. Forse se ne accorse anche “lei” che rispose prontamente ad ogni mia sollecitazione perché tra il fuochista e la macchina a vapore era quasi normale l’instaurarsi di un rapporto.

Cantava Francesco Guccini in una sua splendida canzone, descrivendo una vaporiera: “la macchina pulsante sembrava una cosa viva”. E così mi parve! Che emozioni...

 

Luciano Caldari, DLF Rimini

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