Ci doveva essere uno sbaglio. Il Regio Carabiniere sicuramente si sbagliava. “Int i alpè? Mo s'a n so stê gnânca a Brisighèla!” (Negli Alpini? Ma se non sono mai andato nemmeno a Brisighella!).
I Regi Carabinieri si erano presentati sull’uscio di casa a mezzogiorno con la chiamata alle armi per Checo (Francesco) e gli stavano spiegando che il giorno dopo doveva prendere il treno da Ravenna per Ferrara per andare a Belluno, dove era stato arruolato nella 67esima Compagnia Alpina del Battaglione Pieve di Cadore.
Si era nel mese di maggio del 1915, appena una settimana dopo che l’Italia era entrata in guerra contro l’Austria. Checo aveva 19 anni e dall’età di 14 era di fatto il capo famiglia, essendo morto di mal sottile (tubercolosi) il padre Pirì dla strê vëcia (Pietro della strada vecchia), lasciando la Zòpa (la zoppa, sua madre) con cinque figli in tenera età. Sicuramente l’umidità del tugurio dove vivevano in tla strê di capèn (la strada dei capanni), non gli aveva giovato. Morto il padre, Checo aveva trovato lavoro come garzone da Maiì, il maniscalco, e con quel poco che guadagnava sfamava la famigliola, con l’aggiunta di qualche soldo che guadagnava la madre con il lavoro di lavandaia. Vederla arrancare verso la fossa, con al seguito la prole, ognuno con un cesto di panni da lavare, faceva tristezza. Lei, che dondolava come un’anatra, a seguito di una frattura mal curata che le era occorsa da bambina, e dietro, come pulcini, i quattro figli, due maschietti e due femminucce.
Checo guardava con tristezza la sua famigliola riunita intorno a lui con le facce tristi e gli sanguinava il cuore al pensiero di come avrebbero fatto a sfamarsi senza di lui. L’unica era che Minghì (Domenico), il maschietto di 11 anni, prendesse il suo posto dal maniscalco. Almeno avrebbe raggranellato qualche soldo per aiutare la madre. Quindi al pomeriggio, con fratellino al seguito, tornò in bottega e comunicò la notizia al padrone, a cui dispiacque molto di perdere un valido aiutante, ma si dichiarò disposto a prendere a bottega Minghì, anche se lo avrebbe pagato un terzo di quello che pagava a Checo.
L’indomani mattina di buon ora, trovato un passaggio su un biroccio che andava a Ravenna, salutò la famigliola e con il suo misero fagotto partì alla volta di Belluno, dove giunse due giorni dopo. Ebbe, quindi, inizio per Checo il classico periodo di addestramento e fu con suo immenso piacere che venne assegnato alla condotta muli con la possibilità di fare il maniscalco. La sua esperienza lavorativa aveva giocato a suo favore e sicuramente era merito del suo comandante di plotone che era a conoscenza delle sue capacità.
Ogni Alpino aveva il suo mulo da accudire, che doveva essere trattato con ogni riguardo e di cui si era ritenuti responsabili. Guai se si faceva male. Si rischiava la prigione. Il giorno dell’assegnazione a Checo toccò un mulo con il mantello chiaro, alto, superbo e con sorpresa scoprì che era una mula che aveva nome Grappa. Ogni mulo aveva un nome e con tale nome doveva essere chiamato.
I muli si rivelarono un importantissimo mezzo di trasporto per le truppe di montagna per il trasporto di viveri, munizioni e perfino dei cannoni 65/17 someggiabili, che smontati in vari pezzi venivano caricati sui muli e trasportati fino ai piedi delle più alte vette e qui issati a quote incredibili a forza di braccia. Famoso divenne un pezzo chiamato “il cannone che sparava dalle stelle”, issato a 3000 metri di quota sul Monte Popera e che investiva con i suoi colpi la Croda Rossa in mano agli Austro-Ungarici. Fu questa la prima missione di Checo e Grappa, che lui curava amorevolmente e che trattava con tutti i riguardi.
A mezzanotte si era iniziato a someggiare i muli e a Grappa era toccata la canna del cannone, un peso di circa 100 chili. Le altre parti erano suddivise su altri 4 muli più quelli che trasportavano le munizioni. Alle tre la colonna si mise in marcia per giungere alla base del Monte Popera a giorno inoltrato. Qui i muli furono scaricati ed iniziarono il viaggio di ritorno a Santo Stefano di Cadore, da dove erano partiti. Del collocamento del cannone sulla cima del monte si sarebbe occupato il Ten. De Zolt con il suo plotone di validi scalatori. Iniziò per Checo un lungo periodo fatto di levatacce e di lunghi viaggi notturni per evitare i bombardamenti. Col sopraggiungere dell’inverno la neve aggiunse ulteriori difficoltà alle corvè dei rifornimenti, spesso impedite da immensi cumuli di neve in cui bisognava tracciare un sentiero e sempre con il costante pericolo che una valanga travolgesse tutti.
In quel freddo inverno del 1915 i due eserciti erano arroccati nelle loro posizioni e la guerra consisteva nello studiare i movimenti del nemico e scambiare qualche colpo di cannone, diretto dagli osservatori posizionati sulle cime più alte. Fu per questo che il Gen. Venturi, comandante del settore, elaborò un piano per impadronirsi del Passo della Sentinella, in mano agli Austriaci, da attuare nei mesi invernali.
Checo e Grappa, insieme ai compagni, iniziarono il trasporto di materiali, munizioni, rifornimenti, esclusivamente di notte per non essere visti dall’osservatorio di Croda Rossa, con temperature che scendevano anche sotto i 30 gradi. Quel febbraio del 1916 la neve scese abbondante per giorni e giorni e le valanghe spesso interrompevano strade e mulattiere, quando non travolgevano le colonne dei soldati. Ma non ci si poteva fermare.
Occorreva il petrolio per le stufe, le coperte, i viveri e anche le munizioni per allestire i depositi. Vennero anche trasportate piccole baracche in legno smontabili, da collocare nei punti di ricovero per gli alpini di guardia sulle cime. Fu un incessante via vai notturno che si fermava solo quando imperversava la tormenta e nella tormenta Checo ci si trovò spesso, col rischio di ritrovarsi con mani e piedi congelati, ma la sua preoccupazione era per Grappa, che cercava di coprire e di riparare togliendole la neve che si accumulava sul muso.
Lui e la mula si erano capiti subito e questo era sfociato in una intesa perfetta, con la mula che eseguiva ubbidiente i comandi di Checo. Quando torno a casa, pensava, voglio comprarmi una mula così ed un biroccio e vedrai quanto lavoro troverò.
Andò avanti cosi anche per tutto il mese di marzo, facendo su e giù con tutto il necessario per rifornire tutti i punti strategici di Cima 11, da dove sarebbe partito l’attacco del Cap. Sala e dei suoi “Mascarboni”, e della base del Passo della Sentinella da dove sarebbe partita l’azione del Ten. Martini. La fatica era disumana, ma Checo non la sentiva, perché divideva il disagio con la sua adorata mula.
Avvicinandosi il momento di scatenare l’offensiva, l’impegno divenne frenetico e si azzardarono anche viaggi durante il giorno coperti dalla nebbia che spesso gravava ai piedi delle cime. Si era oramai ai primi di aprile e come sempre Checo e la sua squadra avevano iniziato il rientro alla base dopo il solito viaggio notturno. A valle aveva piovuto, portando un rialzo delle temperature in quota. Ormai giunti alla fine del nevaio Checo pensava già alla tazza di caffè caldo che lo aspettava in caserma e non fece caso al rombo che andò rapidamente aumentando di intensità. Solo quando girandosi vide il muro bianco che avanzava si rese conto di quel che sarebbe successo. Si aggrappò disperatamente alla mula, preoccupato più per lei che per se stesso, finché un mondo bianco lo avvolse strappandolo dalla sua adorata mula e scaraventandolo in una serie di giravolte fino a perdere conoscenza.
Stava sognando. Una voce lo chiamava. Non era la Zòpa, non era Minghì. Forse era suo padre perché era morto anche lui. Una mano gli tolse la neve sul viso, una mano guantata. Apri gli occhi e vide un Alpino che lo chiamava, mentre altri scavavano attorno a lui per trarlo fuori, miracolosamente vivo. “La Grappa” - gridò - “dov’è la Grappa?” - “Sì, dopo te la do” disse l’alpino convinto che delirasse. “No, la mia mula, la mia Grappa”. Si accorse di stringere in mano ancora le briglie e liberato dalla neve prese a scavare freneticamente con le mani in cerca della sua mula. In poco tempo, aiutato dagli altri, scoprirono il muso della mula, che non dava segno di vita. Di fronte ai compagni che non volevano più scavare, Checo oppose un netto rifiuto, nonostante avesse dolori in tutto il corpo e sempre chiamandola per nome continuò a liberarla dalla neve e a massaggiarla sul collo. E avvenne il miracolo: Grappa aprì gli occhi e lentamente, aiutata dagli alpini, si rimise in piedi, mentre Checo piangeva come un bambino e l’abbracciava e la baciava sul muso. Solo allora si lascio aiutare e trasportare all’infermeria.
Qualche giorno dopo, vivo e un po’ ammaccato, chiese al Ten. Medico Berti notizie di Grappa, sospirando di sollievo quando gli assicurò che stava bene, forse meglio di lui. Il medico lo informò che, purtroppo, avendo perso uno scarpone nella valanga, aveva un piede congelato irrimediabilmente e che avrebbe dovuto essere amputato. Questo significava che per lui la guerra era finita, ma significava anche non rivedere più la sua adorata Grappa. Qualche mese dopo, dimesso dall’ospedale e congedato, aiutandosi con una stampella si recò alla stalla e disse addio fra le lacrime alla sua mula, promettendole che a guerra finita sarebbe tornato e se la sarebbe portata via. Dopo qualche giorno, quando si presentò sull’uscio di casa, con in testa il suo cappello d’Alpino con la penna nera e sul petto la croce al merito di guerra, i fratelli e le sorelle lo accolsero gioiosi, mentre la Zòpa vedendolo senza un piede scoppio in lacrime disperata per la sua menomazione, al che Checo, abbracciandola, le disse: “Mâma no stasi piânzar par me. Vò l'è una vita c a sì zòpa!” (Mamma non piangete per me. Voi è una vita che siete zoppa!).
Il 16 aprile del 1916 alle ore 13.45 gli Alpini conquistavano il Passo della Sentinella.
Note: Pur essendo un racconto di fantasia i fatti storici sono realmente accaduti come pure sono reali i nomi degli ufficiali, tratti dal libro “Guerra in Ampezzo e Cadore” del Tenente Medico Antonio Berti.
INFORMAZIONI
Claudio Dumini, Presidente Associazione DLF Ravenna
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