DUE PASSI PIÙ IN LÀ

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La luce era bluastra e l’aria dolciastra, profumata di detersivo. Sdraiato sul letto d’ospedale, osservava quanto gli si parava di fronte. La stanza era grande, ordinata. La porta d’ingresso si apriva sulla destra, mentre la parete di fronte era occupata da piccoli quadri, indistinguibili a quell’ora. Una seggiola di metallo pareva aspettare qualcuno, mentre la flebo gocciolava poco alla volta, scandendo il tempo.

Luciano pensava, ma soprattutto cercava di ascoltarsi, quasi a conoscersi meglio.  L’operazione al ginocchio pareva andata bene, ma le gambe erano ancora ferme, immobili, solo percorse da qualche brivido. Con le idee, cercava di convincersi che tutto sarebbe tornato come prima, anzi: con prospettive nuove.

L’infermiera entrò nella stanza, con fare consumato.

«Come sta Luciano?»

«Bene, ho solo un po’ sete»

«Pensiamo più tardi a bere, lasciamo che passi l’anestesia», rispose la donna. «Si riposi, adesso».

Già, riposarsi; era difficile farlo in quel momento, proprio mentre le idee frammentavano i ricordi in istanti separati e distanti tra loro.

Si rivedeva bambino, poi ragazzo; ricordò il primo impiego e quel negozio aperto tra dubbi ed entusiasmo. In quel letto d’ospedale, bastava poco per renderlo felice: anche solo il ricordo di quel giorno particolare, che non avrebbe dimenticato più.

«È la fortuna del fotografo», si diceva. «La capacità di fabbricare ricordi, fissandoli nel tempo». Intanto iniziò a sentire le gambe, perché percepiva le lenzuola su di loro; di muoverle, non se ne parlava.

Se solo avesse potuto armeggiare la fotocamera, qualcosa avrebbe trovato da ritrarre. La luce bluastra era gradevole; e anche quella sedia metallica in basso a destra avrebbe potuto completare l’inquadratura nella parete di fronte. Già, ma a che pro? Dov’era il racconto? La visuale era stretta, ecco tutto; e il pensiero fotografico non godeva della giusta libertà. Lui era abituato a incamminarsi per sentieri, alla ricerca di storie, scorci, colori. Sì, mancava la sensazione di libertà, il che rappresentava una costrizione. Non era il letto a chiudergli la fantasia, ma l’idea di doverlo abitare. Con questi pensieri si addormentò.

 

 

«Buongiorno Luciano, dormito bene?».

Era il medico a parlare e lui non seppe cosa rispondere, con il sonno ancora negli occhi.

«Oggi ci mettiamo in piedi», continuò l’altro.

Nonostante la fatica, fu una bella sensazione: il sentirsi sorreggere dalle proprie gambe. Una possibilità nuova stava prendendo corpo, e tutto appariva diverso, migliore. La parete di fronte, la sedia di metallo, la luce, chiara questa volta, che proveniva dal corridoio.

«Come si sente?», chiese il dottore.

«Bene», rispose lui. «Mi gira un po’ la testa».

« È normale», aggiunse l’altro, mentre l’infermiera, di fianco al medico, pareva guardarlo con orgoglio.

Il tempo passava velocemente: la luce chiara di giorno e quella bluastra durante la notte. C’era del nuovo sul quale credere: nuove prospettive da percorrere; così Luciano iniziò a immaginare una vita nuova, diversa.

«Tutto come prima?», si disse. «No, sarà meglio», si promise.

Quella sera, senza più la flebo a fargli compagnia, si mise a pensare con maggiore intensità, forse con più libertà. Ricordò la sua piazza, il negozio, i monti, ma si spinse oltre: a immaginare nuove città, rinnovati orizzonti; perché è altrove che avrebbe trovato il “meglio” che si era promesso. Certo, chi sarebbe entrato in negozio gli avrebbe restituito la forza necessaria, quella ricevuta da sempre; ma anche per loro si preparavano delle novità: una motivazione nuova, un entusiasmo più forte.

«Un passo alla volta», disse l’infermiere. «Bene così», aggiunse.

La parete di fronte al letto divenne più grande e iniziò a distinguere i quadri appesi al muro. La sedia di metallo era stata spostata e la porta sulla destra lo aspettava aperta.

«Oggi camminiamo in corridoio», pronunciò l’infermiere. Sembrava un’impresa, ma tutto andava per il giusto verso. La sensazione era quella di sempre: camminava; però l’orgoglio faceva il resto.

Uscito dalla stanza, sempre con l’infermiere di fianco, alla sua vista si aprì un corridoio luminoso: lungo ed enorme. In fondo, campeggiava una vetrata che pareva gigantesca, abbagliata di luce. Ancora due passi e si sentì più forte.

«Piano», esortò l’infermiere.

Luciano non sentì quella parola. Erano stati sufficienti due passi a regalargli la libertà di esistere e pensare.

«Due passi più in là», si disse. Bastava poco.

 

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