LA COSTA DALMATA - In occasione della Pasqua del 2007, avevo deciso di fare pace coi paesi confinanti della ex Jugoslavia. Dopo un disgustoso soggiorno invernale, avvenuto in passato sulle nevi di Kranjska Gora, non venivo più attratto dalle mete turistiche di quelle località oltre confine. Ma nel decennio precedente, c’era stata la tremenda guerra dei Balcani.
“Nessuna guerra, solo massacro di civili” scriveva Paolo Rumiz nel suo “E’ oriente”: “Nelle guerre vere gli eserciti si scontrano in guerre campali. Nei Balcani non è andata così. Non c’è stata guerra, ma semplicemente un latrocinio infinito”.
Eppure quelle violenze e massacri etnici, avvenuti alle porte del nostro paese dopo quasi mezzo secolo di pacifica integrazione, avevano segnato la storia dell’Europa e fatto riflettere il mondo intero. Erano prevalsi gli interessi nazionalistici, facendo leva sulle differenze che distinguevano la popolazione locale, di diverso livello economico, di diverse ideologie, culture e religioni: cattolici, ortodossi, musulmani ed ebrei. La caduta del Muro aveva fatto riemergere queste differenze e, con esse, l’odio. La via più facile l’avevano trovata, dopo poco tempo, le repubbliche jugoslave a noi più vicine, approvando ognuna per proprio conto, le loro nuove Costituzioni. La Slovenia proclamò ufficialmente la sua indipendenza nel giugno del 1990. La Croazia e la Macedonia seguirono il suo esempio poco dopo.
Nel primo mattino del 7 aprile 2007 ero partito per la Croazia come capogruppo di una comitiva di trenta persone. Con Alex, l’autista del piccolo pullman della Saf, avevo concordato di consegnare ai posti di frontiera un biglietto di auguri del presidente del dopolavoro ferroviario e una colomba pasquale. Dopo alcuni chilometri in territorio sloveno, abbiamo incontrato il confine croato. La prima sosta per la colazione, era prevista in un locale preceduto da un vasto parcheggio.
Qui abbiamo incontrato il nostro accompagnatore croato Piero, un arzillo settantenne, un po’ grosso e di statura media, che parlava perfettamente la nostra lingua. Dall’alto del promontorio, il cielo terso e i raggi del sole illuminavano la città di Fiume, Rijeka in croato, che si affacciava sul golfo del Quarnero. Poi abbiamo proseguito verso sud, sulla strada costiera della Dalmazia, una regione dell’antico impero romano che si allungava dall’Istria fino alla Macedonia.
Il paesaggio che scivolava sul vetro del pullman verso la costa, era incantevole! La trasparenza di quelle acque era data, in parte, dalla purezza delle numerose sorgenti che sgorgavano direttamente sul mare dalle rocce. Tra gli azzurri del cielo e del mare, c’era una sequenza di lunghi e desertici isolotti rocciosi che si susseguivano in lontananza. Ma ecco il nuovo ponte della Maslenica che ci ricordava l’ultima guerra dei Balcani. L’esercito serbo aveva preso a cannonate quello vecchio, facendolo precipitare nel mare cobalto e tagliando in due la Dalmazia.
Siamo arrivati a Zara nella tarda mattinata. La città di mare dalmata, ancora delimitata dalle antiche mura, aveva una posizione invidiabile: l’arcipelago di fronte, coi suoi parchi nazionali più belli, attiravano gli amanti del mare e dei velieri. Passeggiando nelle vie del centro, avevamo incontrato alcuni monumenti d’epoca romana. Il clima era mite e, i nostri tavoli per il pranzo a base di pesce, erano stati preparati all’aperto in un ristorante di una graziosa piazza tutta lastricata.
Quando siamo ripartiti, il nostro bus aveva preso la strada che si collegava all’arteria autostradale. Ai lati, c’erano rimasti i segni della recente guerra: case distrutte e abbandonate, chilometri e chilometri di terreno recintato, pieno di mine. Piero, al microfono, diceva che sarebbero stati necessari anni e anni di lavoro per bonificarlo. All’Hotel Lubineca di Gradac, sulla riviera di Makarska, siamo arrivati quando il sole aveva già infuocato il mare.
Il confine era lì vicino. L’indomani mattina, abbiamo passato il posto di frontiera bosniaco. Poi, per poter proseguire verso sud sulla strada costiera, dopo pochi chilometri di Bosnia, siamo rientrati in terra croata. La vista di Dubrovnik, l’antica Ragusa, dall’alto della strada ci aveva lasciato tutti senza fiato. Si presentava con le sue imponenti mura di pietra e la fortezza tondeggiante. Molte case del centro storico prospiciente al mare erano state prese di mira dagli ultimi bombardamenti dei serbi. Poi erano state riparate, e i suoi tetti di tegole erano di un rosso fiammante. Era il giorno di Pasqua e, il lastricato pedonale di pietra bianca della principale Stradun, era affollatissima. Dalla porta di Pile, avevamo raggiunto la torre di Minceta. Nella piazza c’erano gli stupendi palazzi di pietra dorata dei Rettori e della Gran Guardia e, in alto alla gradinata, l’ingresso alla cattedrale di Santa Maria Maggiore, affollato all’inverosimile. Poi, alla fine della messa, tutti i fedeli si erano riversati sulla piazza antistante, da dove provenivano cori di voci. Il nostro pranzo pasquale era stato prenotato in un ristorante lì vicino. Dalla grande vetrata del nostro tavolo c’era la vista suggestiva del porticciolo con le sue piccole imbarcazioni ancora coperte, tutte allineate sotto le mura di pietra bianca. Più in alto, si presentava un colorato ammassarsi di palazzi e case dai tetti rossi, mosse da un rincorrersi di logge e balconi, inframmezzate al verde di pini e palme, con sullo sfondo i primi rilievi rocciosi che si affacciavano sul mare.
Il tempo libero del pomeriggio, io e mia moglie, lo abbiamo trascorso in compagnia di Gigi e Roberta, una coppia di coetanei del nostro gruppo che avevamo avuto modo di conoscere in occasione di un precedente viaggio. Dopo aver percorso alcune strette viuzze scoscese verso la riva, ci eravamo sdraiati a riposare al sole, nei pressi di un bar. Lì vicino, due grossi faraglioni scuri cariati, dalla forma contorta, uscivano dall’acqua. Da dietro spuntava l’isoletta di Lokrum e poi tutta la costa meridionale fino a scomparire. Quella direzione, l’avevamo presa subito dopo, quando siamo ripartiti col nostro pullman. Nei pressi del piccolo aeroporto, avevamo lasciato il mare, percorrendo la stretta vallata che portava al confine montenegrino. Prima di passare il posto di frontiera in entrata, ero stato costretto a compilare un modulo con l’elenco di tutti i nominativi dei partecipanti e le relative generalità. Fino al giugno dell’anno precedente, il Montenegro faceva parte della repubblica di Serbia. Poi, aveva ottenuto l’indipendenza a seguito di un referendum della popolazione montenegrina. La nuova repubblica aveva deciso di aderire simbolicamente all’Europa, adottando la valuta europea.
L’Hotel Mediterranski si trovava subito dopo la località di Igalo. Era situato al centro di un immenso parco sulla riva del mare. “Un albergo socialista!” Così lo aveva definito Piero, il nostro accompagnatore croato. Era una struttura molto grande e moderna, dotata di ampie vetrate, di saloni dai soffitti molto alti con pitture astratte. Era attrezzata di piscine e di zona benessere, sala da ballo e un locale notturno. In camera, anche l’odore della moquette era dell’era socialista; munita di tutti i comfort, guardava verso il mare. In una sala ristorante riservata al nostro gruppo, un esercito di camerieri ci aveva servito quella che, secondo il menù, avrebbe dovuto essere una tipica cena montenegrina: niente di particolare. Poi, con alcune coppie del gruppo, abbiamo trascorso un paio d’ore nella sala da ballo.
L’indomani c’era l’escursione sulle Bocche di Cataro. Le sue limpide acque marine penetravano per ben vent’otto chilometri nella costa. Ricco patrimonio artistico, costituiva una simbiosi armonica tra i vari ambienti naturali. Si trattava del più grande fiordo del Mediterraneo ed anche del più bello. Questo territorio era diventato patrimonio mondiale dell’umanità. In fondo al fiordo c’era la città di Kotor. Siamo scesi dal nostro bus nei pressi del porto, dove sostava una nave passeggeri di stazza media. Lì ci attendeva la guida locale per accompagnarci alla visita del posto. Quell’area era fortemente carsica: l’acqua piovana formava fiumi sotterranei che sfociavano nel mare, causandone un basso tasso di salinità. Il centro urbano era situato all’interno delle mura che, per le loro peculiarità, costituivano un esempio unico di fortificazione urbana, sia dal punto di vista militare che estetico. Dopo aver varcato la porta d’ingresso, siamo arrivati nella più bella piazza del posto col suo stile misto rinascimentale e barocco, dove spiccava la torre dell’orologio in pietra bianca che segnava le dieci e un quarto. Ci siamo seduti a prendere il caffè in un bar all’aperto, constatando l’aspetto molto dignitoso della gente del posto che passava sulla vicina via pedonale.
Poi siamo ripartiti alla volta di Budva, la capitale del turismo montenegrino. Eravamo attesi per un pranzo di pesce in un noto ristorante nei pressi della spiaggia, di fronte a un porticciolo. Per arrivarci, avevamo percorso a piedi un viale alberato fra ville e alberghi. Il locale sul lungomare e il pesce erano di ottima qualità. Poi ci siamo addentrati nelle viuzze di pietra del centro storico. Di origine greca e romana, dopo la divisione dell’impero, la città si trovò al confine tra Occidente e Oriente. Un’esperienza storica unica, al confine di due mondi.
Durante il viaggio di ritorno, avevamo evitato di rifare tutto il giro del fiordo, imbarcandoci sul traghetto da Lepetane a Kamenari. Poi abbiamo cominciato a risalire la costa, fermandoci a passare la notte nuovamente sulla riviera a Gradac, in territorio croato. Le feste pasquali erano passate. Sulla via del ritorno, lungo la strada costiera, non c’era traffico.
Siamo arrivati a Spalato, cuore della Dalmazia, verso le dieci del mattino. Sotto l’impero romano la città si chiamava Spalatum, Spalatro nella lingua dalmatica del Medioevo e Split in lingua slava. Con la guida locale, dopo una passeggiata sui lucidi lastroni di marmo, fra le eleganti palme in fila sulla Riva, ci siamo spinti verso il palazzo di Diocleziano. Eravamo nel centro storico di quella tipica città mediterranea. Famosa anche per la sua porta Aurea e la cattedrale col suo celebre campanile, non mancavano le rovine romane, né i palazzi e le logge che testimoniavano quasi quattro secoli di presenza della Serenissima.
Nel pomeriggio, dopo pochi chilometri, avevamo raggiunto anche Trogir, l’antica città greca, una delle mete migliori per i turisti che volevano abbinare ai monumenti storici, le splendide spiagge del posto e la vita notturna. In quanto a divertimenti, quella località sembrava perfetta con i suoi lounge bar verso il mare. Nei pressi del parcheggio dei bus c’erano alcune bancarelle colorate di orto-frutta e di pesce azzurro con sgombri a volontà e vasetti di acciughe sott’olio, confezionati in casa. Il centro era racchiuso dalle mura di cinta: non solo chiese e vie pedonali, ma piccole piazze con bar, molti negozietti con bussole di telo colorato sopra la porta e le vetrine, graziosi ristorantini in pietra chiara e i tipici locali chiamati knobe. Belle ragazze dai visi acqua e sapone, con vistosi occhiali da sole, camicette colorate aderenti e jeans stretti, si soffermavano a guardare le vetrine delle boutique.
Proseguendo col nostro bus sulla strada costiera verso nordovest, abbiamo deviato a Vodizze, una cittadina dall’aspetto moderno, a pochi chilometri da Sibenik. Qui, in una larga baia, c’era l’Hotel Imperial, un grosso complesso turistico, dove siamo stati ospiti durante le ultime notti di questo viaggio dalmata.
“Lirica”, la piccola motonave della nostra crociera di giornata, era arrivata puntuale a raccoglierci sulla banchina della baia. Dal rumore scoppiettante, aveva un aspetto molto raffinato: tinta legno. Considerata la frescura mattutina, avevamo tutti preferito prender posto all’interno. Dalle ampie vetrate, gli azzurri del cielo e del mare sembravano tutt’uno. Natasa, la moglie del comandante al timone, si era data da fare per rendere più piacevole la crociera: salame e formaggio e vino bianco per tutti.
Una volta al largo, ci siamo inoltrati verso il famoso arcipelago delle isole Incoronate. Il nostro accompagnatore Piero, dal microfono, aveva iniziato la sua spiegazione sulla rassegna delle isole che scorrevano lentamente al nostro fianco. L’arcipelago era composto da 152 isole, isolotti e grossi scogli, per la maggior parte, completamente disabitati. Di queste, solo 89 formavano il parco nazionale, prendendo il nome dall’isola più grande. Generalmente dalla forma conica, le cime rocciose più alte, raggiungevano un’ottantina di metri. Sulle isole, la flora, molto scarsa, era formata da piccoli arbusti bassi. Il mare limpido faceva trasparire le bellezze del fondo marino: coralli, conchiglie e molte specie di pesci che si muovevano a branchi. Queste isole erano un vero paradiso per i nautici, subacquei e per quanti volevano godere una natura intatta e meravigliosa. Inoltre, le correnti marine particolari e la direzione del vento, erano congegnali alle barche a vela. Dopo un’ora e mezza di navigazione, siamo approdati su una di queste isole. L’unica costruzione del posto era un ristorantino, situato nei pressi del punto d’attracco. Dopo aver perlustrato tutta la zona fino in cima, siamo ritornati a bordo, dove Natasa aveva preparato sgombri e cefali alla griglia.
Ad attenderci, al ritorno, c’era Alex il nostro autista, per accompagnarci alla visita guidata di Sebenico. Fra i più importanti monumenti di quella città movimentata, la bianca cattedrale di San Giacomo si distingueva per la sua artistica bellezza. Giunti sul lungomare, ci siamo seduti a gustare un cono di gelato, dicendo grazie al sole per le giornate che c’aveva regalato, mentre spariva lentamente dietro i rilievi scuri delle isole. Col crepuscolo, le ombre dei passanti che passeggiavano sulla panchina, si allungavano sempre di più fino a disperdersi nel buio della sera.
Il giorno dopo, un nitido sole rendeva ancora più vivaci i colori del paesaggio marino che si presentava sulla strada del ritorno. Era l’ultimo giorno di questo bellissimo e interessante itinerario della Dalmazia. Sulla superficie del mare più azzurro di sempre, brulicavano dei puntini bianchi e le isole, che scorrevano al nostro fianco, presentavano alture rocciose leggermente rosate. Drage, Biograd, Bibinje, dall’alto della strada sembravano fiori sbocciati dal cobalto marino. Poi, a Zara, Piero aveva voluto guidarci a piedi in un determinato punto del lungomare, per farci sentire il suono d’organo che emettevano quelle onde. Era più forte di me, ma la tristezza di allontanarmi da questi incantevoli paesaggi, prevaleva sulla contentezza di tornare a casa.
Dopo aver ripreso la corsa, abbiamo raggiunto il Fortica most, il ponte che univa l’isola di Pago alla terra ferma. Il nostro bus si era fermato subito dopo. Siamo scesi a fotografare quel lungo ponte a forma d’arco, avvolto in un silenzio surreale. La superficie del mare sottostante, al riparo di golfi e isole, era piatta come una laguna e rifletteva la luce del sole sulle pareti scoscese di roccia grigia macchiata da bassi arbusti selvaggi. Davanti a noi, la strada asfaltata tagliava diritta un paesaggio pietroso e arido, quasi lunare. Durante i dieci minuti della nostra sosta, sul ponte non c’era passata anima viva.
L’isola di Pago, lunga e stretta, era percorsa da due catene montuose parallele alle sue rive. La costa rivolta verso la terraferma, in battuta di bora, era priva di vegetazione. Nella piazza dell’omonima città, avevamo trovato una cattedrale di stile romanico e gotico a tre navate, divisa da colonne con bellissimi capitelli in pietra bianca, con un rosone e una lunetta sopra il portale della facciata. Abbiamo percorso la stretta via pedonale lastricata di pietra, dove c’erano un paio di bar, piccoli negozi e abitazioni di pescatori. Poi col nostro pullman siamo passati nei pressi di Novalja, nota al pubblico giovanile per essere un’ambita meta estiva provvista di divertimenti e discoteca. Abbiamo proseguito la corsa su di una strada stretta, fiancheggiata da muretti a secco, contornati qua e là dalla salvia in fiore. Poi la strada aveva iniziato a scendere, proseguendo in mezzo al verde degli ulivi e delle viti. Sull’estremità superiore dell’isola, c’era Torvatele col suo piccolo porto: poche case e qualche modesta villetta affacciata al mare. Sullo sfondo s’intravedeva la costa occidentale dell’isola di Rab.
Alla Costionica Palma, l’unico ristorante di quella località, abbiamo fatto un’abbuffata di altri tempi: frutti di mare, calamari fritti e spigola ai ferri di grandi dimensioni. Nel frattempo, Piero, aveva fatto venire un signore con un furgoncino pieno di forme di pecorino: il prelibato formaggio locale, paski sir. Il segreto della sua bontà veniva attribuito alle foglioline di salvia di cui si nutrivano le pecore al pascolo. Dopo pochi minuti di strada, il nostro pullman profumava di pecorino. Imbarcati sul traghetto di Zigljen, a Kovaci abbiamo ripreso la strada verso Fiume, dove abbiamo salutato Piero, il nostro prezioso accompagnatore croato.
Il ponte di Mostar
Sempre con Piero, ero ritornato a fare il capogruppo il primo di giugno di due anni dopo. Gli incantevoli paesaggi della Dalmazia e l’interessante storia di quei popoli, mi avevano spinto a far modificare quell’itinerario. Così per rendere più completo il mosaico storico, avevamo sostituito la giornata della crociera nelle isole Incoronate con un’escursione in Bosnia-Erzegovina fino alla città di Mostar.
La nuova Bosnia-Erzegovina si era formata nel 1991 a seguito dell’indipendenza ottenuta da Slovenia, Croazia e Macedonia. Negli anni che seguirono, il suo territorio era stato massacrato da uno scontro armato interno fra le opposte fazioni mussulmana e croata, oltre che dalle truppe serbe e croate, provocando una violenta e sanguinosa pulizia etnica nei confronti della popolazione locale.
Poi la situazione era sfociata in un “tutti contro tutti”. Questo succedeva dopo quasi mezzo secolo di repubblica jugoslava, che aveva visto un lento processo d’integrazione fra bosniaci mussulmani, croati e serbi.
Erano passati quindici anni dalla fine di quell’orribile conflitto. Mentre percorrevamo in pullman la strada verso nord, nella vallata del fiume Neretva, la vista di alcuni nomi di località sui cartelli stradali bilingue, manomessi da bombolette spray, mi avevano fatto pensare alla presenza di un male che avrebbe persistito ancora a lungo. Eppure era così bello vedere sul pendio di quelle colline illuminate dal sole, gruppi di case, da dove spiccavano i diversi campanili: quello di una chiesa cattolica con la croce, quello a cupola con la croce doppia e un sottile appuntito minareto, a fianco della sua moschea.
Eravamo arrivati a Mostar, nel cuore dell’Europa geografica, verso l’ora di pranzo. Nel parcheggio del ristorante, ai piedi del centro storico, c’era ad attenderci Majda, la guida locale bosniaca. La città, adagiata fra le brulle montagne della Erzegovina, era tagliata come una lama gelida dalle acque del fiume Neretva. Era stata fondata dai turchi nell’epoca dell’impero ottomano e la costruzione del ponte sul fiume, avvenuta nel sedicesimo secolo, era diventata simbolo di unione e integrazione tra popoli e culture diverse. In quelle acque azzurre da brivido, nel 1993, si erano tuffate per sempre le pietre dello Stari most, il vecchio ponte distrutto dalla devastante guerra che spaccò per sempre la Jugoslavia.
Quel ponte di pietra bianca a schiena d’asino, con la fine del conflitto, era stato ricostruito sotto la protezione dell’Unesco. Si alzava per più di venti metri sulle sponde rocciose ammantate di verde del fiume Narenta. Da una parte la zona cristiana: povera, dalle case fatiscenti sfinite da proiettili.
Dall’altra quella musulmana: opulenta, meglio conservata, ricca di minareti che bucavano il cielo.
Majda, la nostra giovane guida, bosniaca di origine mussulmana, descrivendoci brevemente gli orrori che avevano subito centinaia di migliaia di donne bosniache durante quella tremenda guerra etnica, mentre parlava si asciugava le lacrime. Sul ponte, pieno di visitatori che passavano, alcuni giovani si guadagnavano da vivere in costume da bagno. Sfidando il loro coraggio, si tuffavano dall’alto del parapetto di pietra nelle profonde e gelide acque del Narenta.
INFORMAZIONI
Sergio Virginio
Associazione DLF Udine
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