BLOCK NOTES PERU’

In Viaggio...
Grandezza Carattere

Aggrappato alla maestosa catena montuosa delle Ande, che come una spina dorsale divide gli aridi deserti costieri dall’umida foresta amazzonica, il Perù è un paese dai molti volti e dalle molte anime, dove convivono i culti delle divinità indigene rimescolati in chiave cattolica, le meraviglie archeologiche precolombiane dagli ancora sconosciuti significati e una voglia di affrancarsi dal passato di colonia spagnola che emerge evidente come il profilo del vulcano ‘El Misti’ ad Arequipa al visitatore attonito.

E’ possibile racchiudere l’anima del Perù in un pugno di parole? Ce lo siamo chiesto spesso. Macchu Pichhu, Cuzco, il Lago Titicaca, le linee di Nazca, il Monastero di Santa Catalina, le Islas Ballestas, la penisola di Paracas, la Cordilera Blanca, la fauna amazzonica, le vigogne, le alpache, le saline a cielo aperto, le stoffe, la lana, le feste popolari e le meraviglie inca della valle Sacra, la pacha mama, l’Intipunku e la cucina di tradizione e d’avanguardia. Sono sufficienti per descrivere ciò che abbiamo visto, quasi di sfuggita, in sole poco più di due settimane? Difficile...

Il Perù è un continente in sé, dalle scenografie naturali inimmaginabili in cui si passa dai picchi incapucciati di neve alle gigantesche dune di sabbia, dagli uccelli tropicali coloratissimi agli aridi altipiani del sud, dai vulcani imponenti e severi alle zone costiere dell’oceano, tutt’altro che pacifico, disseminato di isolotti abitati da pinguini e leoni marini. A questa grande varietà di ecosistemi corrisponde un’incredibile ricchezza di specie vegetali e animali, tanto che il Perù è une delle pochissime nazioni al mondo ad essere definite ‘Paesi della megadiversità”. Nonostante il nostro faticoso girovagare per forza di cose selettivo, che si è concentrato soprattutto nel sud del paese, tanto di tutto questo si è rivelato come una goccia nel mare: più cose vedi, meno ti sembra di vedere.

La megalopoli Lima, fondata in un tratto di costa da Francisco Pizzarro nel lontano gennaio del 1535, non ci affascina. Una cattedrale nel deserto, abbarbicata su polverose scogliere e avvolta perennemente in una nebbia che rende il cielo plumbeo, non si può definire una bellezza, a parte il centro coloniale perfettamente mantenuto. Ci stiamo un giorno, giusto il tempo per una visita al Museo Precolmbino e una passeggiata a Miraflores, il quartiere moderno affacciato su quell’oceano che si dimostra una vera pacchia per miriadi di surfisti.

L’indomani puntiamo alla volta della penisola di Paracas, percorrendo in direzione nord-sud la famosa Carretera Panamericana, che con il suo marcato tratto incide geograficamente su tutta la costa dell’america centrale e meridionale, fino all’estremo sud del Cile. Le desertiche pianure meridionali del Perù, che sono punteggiate da palmeti e bagnate dalle minacciose onde oceaniche, ospitano alcuni dei più importanti siti precolombiani e preincaici di tutta l’america latina.

L’inizio della nostra avventura è una barca, una lancia a motore del tutto priva di cabina di coperta, che trasporta circa una ventina di persone, e che non proprio puntualissima parte alla volta dell’arcipelago delle Isole Ballestas, una manciata di rocce affioranti dall’oceano che ospitano inaspettate colonie di otarie, sule, pellicani, cormorani, delfini e pinguini di Humboldt. Tutta questa varietà di pennuti, complice anche la preziosa presenza dei Marangoni di Boungainville, contribuisce ormai da secoli alla produzione in gran quantità di guano. Ci raccontano che in alcuni posti lo spessore di questa miniera d’oro raggiunge perfino i 2 metri. Dallo spettacolo che ci si presenta davanti non abbiamo alcun dubbio. Augurandoci di non diventare bersaglio mobile dei milioni di uccelli che ci girano intorno, sul nostro natante solchiamo risoluti le acque agitate delle piccole baie popolatissime e chiassosissime. Ci accorgiamo da noi che questa sorta di girone infernale a cielo aperto, maleodorante e inquietante, deve aver offerto alle popolazioni costiere una fonte inesauribile di sussistenza: le proprietà fertilizzanti del guano, conosciute già in epoca preincaica, hanno fatto sì che a metà del XIX secolo, quando sacchi pesantissimi partivano dal piccolo porticciolo dell’isolotto maggiore, questa risorsa diventasse il principale prodotto di esportazione del Perù. Il guano delle Islas Ballestas veniva usato nei Giardini di Kengsinton a Londra, per il parco del Retiro di Madrid e per rendere più fertili le piante di alcuni degli orti botanici delle maggiori città europee e nordamericane. Oggi la chimica ha confinato queste isole a riserva naturale e i leoni marini, come vedette assonnate, ne stanno a guardia senza troppa convinzione.

Al rientro, dal mare, scorgiamo sulla fascia di costa, in posizione strategica, il grande ‘Candelabro’, una gigantesca forma a tre bracci incisa sulle colline sabbiose, alta circa 150 metri. Ad oggi non è chiaro né chi l’abbia disegnata, né perché: qualcuno la collega all’uso che ne potevano fare i naviganti, come un faro bidimensionale; altri ne scorgono un riferimento alla costellazione della Croce del Sud. Resta il mistero, come tanti altri, in questo strano paese.
Dopo esserci ristorati in una simpaticissima locanda di un villaggio costiero, riparati dai venti di ponente e in compagnia di curiosi pellicani che stazionano davanti alla cucina in attesa degli avanzi del pranzo, partiamo con un piccolo e scassatissimo pullmino alla volta della Penisola di Paracas. Questa vasta porzione di terra, affacciata su un mare impetuoso, ospita una riserva nazionale di tutto rispetto. Oltre alle rovine di una necropoli risalente a 5000 anni fa, testimonianza di una civiltà tra le più feconde tra quelle preincaiche, la strada asfaltata in mezzo a questo deserto ci porta dritti dritti sulla scogliera de La Mina, da cui la vista si apre sull’oceano e sulle sue poderose onde che si infrangono decise e spietate su un tratto di costa erosa. Camminando lungo la spiaggia, o tra i dirupi, si possono scorgere le Iepri di mare, mentre in cielo il condor delle Ande vola sul litorale in caccia di prede. I giochi di colore che ci si presentano dinnanzi sono di grande effetto, la maestosità del posto e la perdita a vista d’occhio ci fanno capire, come se ce ne fosse bisogno, che il piccolo lembo di terra sul quale siamo affacciati è una goccia nell’oceano di un paese immenso. Da spaesati che siamo, sulla strada che ci riporta al nostro colectivo, ci imbattiamo in quello che crediamo sia un miraggio: in mezzo al nulla ci appare un ciclo porta gelati, con tanto di annesso gelataio, in posa plastica, lì vicino. Un attimo prima non c’era. Da dove è arrivato? Dove se ne andrà in queste lande desolate ora che noi ripartiamo? Anche questo è Perù.

Il giorno seguente, non appena la Carretera Panamericana lascia le depressioni desertiche e comincia a salire lungo i rilievi costieri, ci si imbatte in quella che fino al 1939 era solo un’arida piana battuta dal sole. Un sorvolo in aereo fu sufficiente a far capire allo scienziato americano Paul Kosok che le enormi figure incise nel paesaggio sottostante non erano fenomeni naturali, ma l’opera precisissima e inimmaginabile dell’uomo. La linee di Nazca, che per scelta visitiamo da terra, da un mirador, anziché vederle da un rocambolesco volo aereo, sono uno dei principali misteri archeologici del mondo. 800 linee perfettamente dritte (alcune lunghe chilometri), 300 figure geometriche, rappresentazioni stilizzate di animali (tra le più famose la scimmia, il colibrì, il gufo) e di piante, furono disegnate rimuovendo le pietre scurite dal sole e ammucchiandole ai lati, lasciando così scoperta una striscia di suolo gessoso più chiaro. Il mantenimento nei secoli di queste opere misteriose è dovuto alla completa assenza di venti e al fatto che le precipitazioni piovose si contano nell’ordine di una ogni 25-30 anni.
Poi basta un passaggio notturno su un bus di linea, per raggiungere la bianca città di Arequipa, per sperimentare quanto nera può essere la notte. Un assalto di un commando armato sulla strada deserta che si inerpica sugli alti passi centrali porta con sé un sequestro di alcune ore. Con una ventina tra turisti e peruviani siamo alla mercé di un gruppo di bandidos che con pistole puntate, urla incomprensibili, passamontagna scuri che lasciano intravedere pupille lucide e dilatate, ci tengono in ostaggio per un ricco bottino. L’esperienza sarebbe incancellabile nel suo complesso, se non fosse per il cielo, scuro e strepitosamente stellato: una miriade di stelle luminosissime e rassicuranti riempiono tutto il firmamento sopra le nostre teste, schiacciate a terra sotto la pressione di pistole nere e luccicanti. Quelle stelle, così splendide e avvolgenti, non le dimenticheremo mai. Il resto per fortuna sì.

Per riprenderci dalla ‘lunga notte’ il meglio che possiamo fare per scacciare il brutto sogno è partire alla scoperta della bianca Arequipa, patrimonio di tutto rispetto protetto dall’Unesco, e secondo centro del paese. Questa città, di chiara impronta coloniale spagnola, è circondata da un territorio tra i più selvaggi del Perù: una terra di vulcani attivi e coperti di neve, di deserti d’alta quota, di laghi salati e di sorgenti termali. La bianca pietra, che riverbera prepotentemente la luce del sole, accecandoti, è un continuo su palazzi religiosi e civili, su piazze e marciapiedi, su loggiati e portici. Da Plaza de Armas alla Catedral, dalla Iglesia de la Compania al monastero di Santa Catalina fino agli edifici coloniali perfettamente mantenuti, l’architettura, la storia e l’urbanizzazione ci riportano al Perù coloniale, al vice-regno, a quando dopo il 1540 gli spagnoli arrivarono qui e non se ne andarono più.

L’esempio più chiaro di questa impronta esterna lo si ha visitando il Monastero di Santa Catalina, una cittadella nella città, un dedalo di viuzze, palazzi e piazze in cui si respira un’aria mistica e disincantata. Questo convento, che ospitava le secondogenite delle migliori famiglie spagnole, destinate per tradizione alla vita religiosa, era in realtà un riparo in cui poter condurre una vita comunque agiata, con servitù, visite, feste e intrattenimento di qualsiasi tipo. Ci vollero trecento anni per ristabilire un certo ‘ordine’ all’interno di questo isolato complesso che era tutto fuorchè monastico. Nel 1871 papa Pio IX inviò una severa suora domenicana a mettere ordine: da allora la festa si tramutò in clausura. La possibilità di visitare questi luoghi, rimasti immutati, si è trasformato come un viaggio nel tempo, quando al vasto e articolato culto delle divinità indigene si insinuò un cattolicesimo contraddittorio e a tratti distruttivo. Le profonde ferite inferte dalla Chiesa cattolica al popolo peruviano, con la stretta complicità della mano armata della corona di Spagna, per piegare e sottomettere al proprio credo le popolazioni locali, hanno tutt’oggi i loro ampi strascichi. Ne è derivato un sincretismo religioso del tutto peculiare, in cui persino l’immagine sobria del Cristo sulla croce porta le tracce di interventi ‘correttivi’, residuo di credenze e spiritualismi che hanno tutto il sapore di braci ardenti sotto una coltre di cenere ancora fresca.

Da questa città, che ci pare un avamposto anacronistico e stucchevole di un passato per alcuni non proprio glorioso, riprendiamo il nostro viaggio immergendoci nello stupefacente entroterra pre-andino. Lasciamo le pietre calde e assolate delle caotiche strade che cingono Plaza de Armas e ci inoltriamo verso gli altopiani del sud, sulla strada che, dopo la zona delle lagune di Lagunillas, porta al lago Titicaca. Percorriamo chilometri e chilometri di nulla, accompagnati nel nostro ondeggiare da gruppi di alpache e vigogne in cattività sulla destra, e fiumi e torrenti che serpenteggiano sulla nostra sinistra. Lo sguardo si posa sull’orizzonte, che cambia sempre direzione, in una strada che per forza maggiore insegue le pendenze dettate da madre natura. Si sale fino a 3800 metri sul livello del mare, incontrando laghi immensi popolati da colonie di fenicotteri, nuvole cangianti ma mai minacciose, zone desertiche in cui predominano i colori declinati nei marroni e nei nocciola, zone d’ombra che fanno da contraltare a chiarori improvvisi, piccoli negozi d’artigianato locale a cielo aperto. E su tutto una strana nostalgia, un senso di appartenenza a questo compendio che, complice il tramonto che si approssima, ci da la sensazione di stare bene, di essere a casa e non a Puno, sulle sponde peruviane dell’immenso mare andino, il Titicaca.

In un viaggio in Perù l’unica cosa che è impedita è il riposo. L’importante è esserne consapevoli fin dall’inizio. Per cui l’indomani all’alba si scende sulle sponde del lago, pronti per una traversata di un giorno alla scoperta delle sue bellezze. Situato in un punto geografico in cui lo spoglio altopiano incontra le prime vette e le fertili vallate delle Ande, questa sorta di mare immenso è un mondo di contrasti, fatto di assolate isole verdissime e di piccole fattorie, di antiche comunità agricole che convivono (e a volte sopravvivono) con il mercato internazionale. Qui si possono trovare campesinas che indossano capi tradizionali e coloratissimi, comunità di uros che ancora vivono, almeno così ci viene detto, su isole galleggianti costruite con le canne di totora che crescono in abbondanza sulle sue rive, donne e uomini che lavorano la lana di alpaca per destinarla ai mercati equi e solidali, imbarcazioni che a prima vista sembrano più attrazioni turistiche che non veri e propri mezzi di trasporto. Sebbene su queste prime isole che attraversiamo con un imbarcadero, questo sì adatto ai turisti, la sensazione a prima vista è di disorientamento, a poco a poco incontriamo abitazioni, botteghe artigianali e persino una scuola.

BLOCK NOTES PERU’, di Francesca Marsilio e Andrea ZamparoCi chiediamo se credere alla versione edulcorata o a ciò che vogliamo e desideriamo sia: un microcosmo armonioso con le acque scintillanti di un blu intenso, i colori dei vestiti tradizionali che trasmettono felicità e solarità, il bianco intenso delle vette boliviane della Cordilera Real sullo sfondo e l’aria frizzante e rarefatta che si respira a più di 4000 metri d’altitudine. Ci manca, a quasi due ore di distanza dalla riva, la visita alla grande isola di Taquile, nel bel mezzo del lago. I 500 gradini che conducono alla sua sommità, al centro del villaggio principale, ci sfiancano: una ad una queste pietre, osservate con la lentezza dettata dalla salita, ci raccontano di storia, di isolamento, di vita dura, e di semplicità, di un borgo agricolo in cui la vita non è facile solo se paragonata alla nostra. Gli abitanti, in tutto duemila persone, ci dimostrano tutto l’orgoglio nel possedere una terra così speciale e unica al mondo: il colore rossastro del suolo e gli alberi sparuti che si stagliano sulla linea dell’orizzonte contrastano con il blu brillante del lago. Abbiamo l’impressione, perdendo la vista verso sud, di essere sull’ultimo avamposto abitato prima di un grande nulla: dietro di noi le Ande con le loro civiltà e i loro misteri; davanti mezzo continente sudamericano. Sarà per l’aria rarefatta e il battito che pulsa lento come la lancetta di un orologio che qui, su questo puntino da carta geografica, realizziamo di essere veramente lontani da tutto.

Il giorno successivo siamo al giro di boa: il viaggio da Puno attraverso il passo montano di Abra la Raya, che con i suoi 4470 metri sul livello del mare è il punto più alto sulla strada verso il cuore Inca, si rivela ricco di sorprese. Dopo una sosta veloce su questo fazzoletto di terra stretto da alte vette innevate, e impreziosito dai colori allegri dell’artigianato andino, la strada scende dolcemente verso la capitale dell’antico impero: fiumi e acquitrini ci accompagnano, chiese coloniali ci fanno capolino, antiche rovine si stagliano davanti come cattedrali nel deserto. Merita sicuramente una sosta il sito di Raqchi, la cui struttura ci ricorda quella degli antichi acquedotti romani. In realtà questo è il famoso tempio di Viracocha che in passato era uno dei luoghi più sacri di tutto l’impero Inca. Veniva chiamato ‘il granaio’ ed era strutturato per contenere derrate alimentari in quantità tali da poter affrontare, quasi serenamente, annate di siccità, guerre e periodi di carestia. L’attuale condizione la si deve alla distruzione da parte degli spagnoli, ma l’importanza del sito è ancora distinguibile nella sua vastità. Da qui alle porte di Cuzco il passo è breve, è necessario solo attraversare la grande porta del Rumicolca, la cui struttura di pietra rossa sottolinea in maniera evidente il ruolo di taglio, di passaggio, di limite per cui era stata eretta.

L’ombelico del mondo. Così è chiamata Cuzco. E’ la più antica città del sud america ad essere stata abitata senza soluzione di continuità sino ad oggi. E’ l’indiscussa capitale archeologica di tutto il continente americano. E’ un vortice di odori, colori, musica, arte, religione, cibo, fiestas e racchiude in sé ogni possibile espressione del vasto sincretismo culturale incaico-spagnolo. Lungo le sue strade acciottolate si passano in rassegna come militari al fronte costruzioni inca, cattedrali cattoliche, portali castigliani, poggioli andalusi, piazzette in salsa coloniale, riutilizzi urbanistici di vestigia ormai decadute. Non capiamo se ci troviamo in una città spagnola costruita ad un metro da terra, o in una capitale antica che sopravvive nelle sue fondamenta ad un metro sotto terra. Una base solida, riutilizzata dopo distruzioni di massa, per fondare un nuovo ordine politico, militare e soprattutto religioso. La chiesa di Santo Domingo, per esempio, costruita sulle rovine del grande tempio di Qorikancha. Il palazzo di Francisco Pizzarro, costruito sui i resti del tempio di Moche. Le cattedrali di Plaza de Armas, costruite usando i blocchi di pietra del vicino sito di Sacsaywaman. E così per chiese minori, conventi, monasteri, palazzi nobiliari e dimore dei conquistadores. Un riutilizzo che a tratti sconvolge, per il modo cruento con cui si è determinato. Un lavaggio della storia e delle credenze indigene che ha però trovato un certo grado di resistenza: l’anima di Cuzco è andina, la parlata quechua è autoctona, i profili di uomini e donne sono classicamente sudamericani, il pagano resiste e si mescola al religioso. Quando Francisco Pizzarro puntò sulla capitale il giorno del Signore dell’8 novembre del 1533, il Perù era già stato quasi del tutto sottomesso, l’ultimo imperatore Atahualpa assassinato e Cuzco era il più importante centro del Nuovo Mondo.

Basta posizionarsi in un qualsiasi punto della città vecchia, o in qualche angolo apparentemente insignificante delle strette e ripide viuzze che scendono dalla collina, e che immaginiamo siano cambiate ben poco nel corso dei secoli, per capire che l’organizzazione di uomini, mezzi e risorse deve aver dato vita ad un esempio meraviglioso di civiltà perduta. I templi dedicati a molte delle divinità precolombiane, con le loro possenti mura e le loro strutture antisismiche che hanno retto alla perfezione a più di un terremoto, ci raccontano, per quel che possono, di studi, ricerche, prove statiche, abilità artigianali, artistiche e manufatturiere che hanno cessato di esistere per sempre, nel momento in cui sono state svelate e private della loro originalità. La cosa sorprendente di questa città è che nei secoli ha riassorbito le sue mancanze, le sue perdite, le sue ferite: ci è restituita in questa giorni una Cuzco cosmopolita, fiera, matura. Un’ insieme di modernità e classicità che ne svela il fascino, il contatto quasi fisico con la Storia.

Ma la città è anche il centro di un vasto territorio in cui le cose da scoprire sono molte. Un giorno intero lo dedichiamo a due siti di interesse diverso, naturalistico e botanico. D’altronde una grande civiltà nata e cresciuta in uno dei territori più impervi al mondo doveva basarsi per forza su uno sfruttamento altrettanto incredibile delle risorse naturali.

Il primo luogo che visitiamo, a qualche chilometro dal centro, è Moray: lo straordinario anfiteatro naturale che si presenta dinnanzi è uno spettacolo davvero affascinante. Sulle pareti di un’enorme cavità sono stati ricavati diversi livelli di terrazze concentriche, ciascuna delle quali, così ci viene raccontato, sembra essere caratterizzata da un suo particolare microclima. Per questo motivo si ritiene che gli Incas le utilizzassero come una sorta di laboratorio a cielo aperto per scoprire quali fossero le condizioni più favorevoli alla vita delle diverse coltivazioni agricole. Non per niente, nel girovagare per la valle sacra, i campi coltivati a cereali si inerpicano quasi aggrappandosi alle montagne che li ospitano, alla ricerca di tutto il terreno coltivabile possibile. Persino le scalinate per scendere o salire di livello impedivano metri preziosi alle coltivazioni, facilitavano l’erosione e richiedevano maggiore manutenzione. Ecco la ragione delle pietre da lastrico inserite nel terreno: dei perfetti gradini che permettevano di muoversi agilmente in diagonale senza recar disturbo alcuno alle preziose piante coltivate al di sotto. L’altro sito naturalistico che visitiamo sono le Salineras de Maras. Dopo un’impervia strada di montagna, appena superata una curva, ci troviamo all’improvviso di fronte a quella che a prima vista sembra una cava. In realtà si tratta di un’immensità di vasche utilizzate sin dall’epoca degli Incas per l’estrazione del sale. Da una sorgente calda in cima alla valle scende un piccolo torrente d’acqua molto salina che viene deviata in queste pozze e fatta evaporare. Quello che ci ritroviamo sotto i nostri piedi è un dedalo di piccoli muretti, di bianchi argini di salsedine seccata al sole, di pozze dalle colorazioni chiare e calde che ci fanno venire alla mente le vasche dei conciatori di pelli a Fez, in Marocco. Qui, come là, la vita per chi ci lavora non dev’essere facile. Qui, come là, il visitatore attento e curioso si inserisce in un ambiente arcaico, fatto di gesti semplici ma faticosi che si ripetono da secoli, dove il commercio diventa sopravvivenza, e il sacrificio alle volte ha il sapore amaro dell’espiazione.

L’interesse dei dintorni è però fagocitato dal così detto El Valle Sagrado, la Valle Sacra, percorsa in tutta la sua lunghezza dal corso tortuoso e ondulato del rìo Urubamba e presidiata dalle fortezze a chiusa di Pisac e Ollantaytambo che controllavano gli accessi a Cuzco da un lato, e agli alti passi che conducevano alla giungla dall’altro. Come ogni sito inca che si rispetti queste due fortezze potevano contare su un centro cerimoniale, certamente provvisto di strumenti astronomici, su un sistema avanzatissimo di acquedotti, su vari templi dedicati al culto delle divinità, su ampie aree militari e su un sistema difensivo talmente perfetto che resistette all’assalto, in tempi diversi, degli spagnoli, che qui una volta tanto dovettero arrendersi e battere in ritirata. Le ripide scalinate, i vasti terrazzamenti oggetto tutt’oggi di ripristino e rinforzo, le muraglie difensive e la vista a perdita d’occhio sulla valle sottostante ci immergono in un’atmosfera irreale: costruite per difesa e sostanzialmente mai utilizzate sino all’arrivo di Pizzarro, furono abbandonate prima dall’esercito Inca in ritirata nella giungla, e poco dopo dagli spagnoli che non ne ravvisarono più l’utilità. Strano destino per opere di fortificazione per la cui costruzione passarono decine d’anni, e per il cui abbandono bastarono una manciata di settimane. Basta perdersi, gironzolando a Sacsaywaman, tra le rovine che rappresentano il 20% del sito originario, per capire ad occhio nudo la portata degli eventi.

Nel 1536 qui fu combattuta una delle battaglie più aspre della conquista spagnola, persa per un soffio dagli Incas insorti che furono costretti a scappare per sempre nella giungla, portandosi dietro nell’oscurità della selva la loro civiltà, la loro storia, la loro identità, i loro misteri. Narrano le cronache dell’epoca che le migliaia di cadaveri lasciati a terra attirarono stormi di condor dalle Ande, ragione per cui allo stemma della città di Cuzco venne aggiunta l’immagine di otto fieri rapaci. Gli spagnoli depredarono quello che poterono per le loro case di Cuzco, ma furono costretti a lasciare i massi più grandi e imponenti, quelli degli spalti principali. E’ evidente anche ad un occhio inesperto il carattere militare di quest’opera fortificata, la cui disposizione delle pietre a zig-zag sulle prime rampe permetteva da un lato un’ottima resistenza alle forti scosse sismiche che continuamente si avvertivano nella zona; dall’altro la possibilità di tenere il nemico, in caso di attacco, sempre su un fronte esposto. Se pensiamo che uno dei massi più grandi raggiunge il peso di 300 tonnellate, e che nel giro di chilometri non sono state trovate cave o siti con pietra delle medesime caratteristiche, possiamo ben renderci conto del mistero che avvolge tutt’oggi questi bastioni.

Il lento e faticoso avvicinamento a quella che sarà l’ultima meta del nostro viaggio, Macchu Picchu, ha avuto un senso nella misura in cui ci siamo resi conto che scoprire, capire, conoscere il Perù e il suo stupefacente passato è come un ossimoro. Una civiltà che non conosce la scrittura, che forse incide la sua storia su foglie d’oro che i conquistadores poi fonderanno, ma che è capace di tagliare la pietra in maniera precisissima, di spostarla per chilometri e issarla su rupi strapiombanti a decine di metri d’altezza, che riconosce i movimenti sussultori e ondulatori dei terreno, ne studia le conseguenze e i metodi costruttivi per far fronte senza troppi problemi all’elevata sismicità, che coltiva centinaia di specie di patate e di mais dalle basse pianure fertili agli impervi passaggi andini, che costruisce a servitù di comunità degli acquedotti le cui fonti si trovano nei posti più impensabili e soprattutto che ha una conoscenza dell’astronomia, della matematica e dell’ingegneria i cui cardini sono ancora di difficile decifrazione anche per i più grandi esperti del settore al mondo, e che frana miseramente al primo e sostanzialmente unico attacco esterno è una civiltà che merita tutto il nostro rispetto. Abbiamo cercato di conoscerla in punta di piedi.

Siamo quindi emozionati il giorno prima di raggiungere Macchu Picchu, perché sappiamo che qui gli spagnoli non sono arrivati. La città non fu mai scoperta dai conquistadores, e rimase pressochè dimenticata fino agli inizi del XX secolo. Ed è qui che la purezza dell’aria si mescola al sapore di originale e incontaminato che non abbiamo mai veramente avvertito in altri posti.
Ci siamo a lungo chiesti cosa dire su questo monumento alla bellezza universale, dove ogni pietra, ogni selciato, ogni contrafforte, ogni colore, ogni alito di vento, ogni filo d’erba e ogni ramo d’albero si fondono, non sono più cosa a sé, ma fanno parte di un progetto dove l’opera dell’uomo e quella della natura si sono prese per mano, e hanno proseguito nei secoli la loro fitta e costante collaborazione. Non possiamo immaginare cosa fosse questo posto all’arrivo di Hiram Bingham, l’archeologo americano che per primo, in un piovoso 24 giugno del 1911, inciampò tra queste pietre e ufficializzò la scoperta. Una selva intricata, probabilmente. Certo è che l’opera dell’uomo e quella della natura seguirono la medesima sorte: l’oblio.

Da luogo dimenticato a luogo tra i più calpestati al mondo, tanto che si sta pensando nei prossimi anni di limitare gli accessi ad un numero chiuso di visitatori. Ma la di là del lato puramente storico o archeologico, cosa significa Macchu Picchu per noi? La meta di un viaggio, certo. Ma più nel profondo crediamo che rappresenti la possibilità che abbiamo tutti noi di essere riscoperti, nella nostra essenza, a distanza di tempo. Che anche se una coltre di ruderi, o di piante, o di inattività, o di silenzio, o di dimenticanza dovesse caderci addosso, possiamo sempre rinascere. Che rimanere qui, seduti su un prato bagnato dalla pioggia mattutina, a fissare inebetiti il panorama che ci si presenta davanti, ci riporta per forza di cose a immaginare la vita di chi sicuramente non ha mai guardato la propria città nello stesso modo. A sforzarci di capire cosa può aver spinto probabilmente un paio di migliaia di persone a isolarsi su questa terrazza tra i monti, oggettivamente inaccessibile ma presumibilmente al centro di ancora poco studiate rotte commerciali.

Eppure la magia del posto sta proprio in questo: nell’aver reso possibile l’impensabile. Nell’aver strutturato una città con palazzi signorili, con zone residenziali, con un centro religioso, un osservatorio astronomico, un insieme di edifici militari, con magazzini per le derrate alimentari, stalle per gli animali, vasche per la raccolta dell’acqua. Senza dimenticare l’arte e le opere scultoree, come la riproduzione della grande montagna che ci sta di fronte, venerata come la Grande Madre, colei che proteggeva e sulla quale faceva perno tutta l’esistenza terrena; o la dedica in pietra alla testa del condor (le cui rocce alle spalle ne rappresentano le ali) archetipo del rapporto tra terra e cielo, venerato messaggero degli Dei. E ci siamo chiesti cosa succederà se tra cinquecento anni o più troveranno sepolta dalla vegetazione una qualche cittadina italiana, magari una perla del Rinascimento come Pienza, o forse Urbino, o Matera.

In fondo anche noi che vaghiamo tra questi edifici siamo come degli alieni, in un paese che spesso, per le sue inspiegabili meraviglie, è stato accomunato a qualcosa di totalmente e radicalmente estraneo alle conoscenze e possibilità umane.
E non erano forse alieni gli spagnoli arrivati a cavallo, animale mai visto prima di allora, con le loro corazze d’acciaio, luccicanti e impenetrabili, simbolo della forza del Cinquecento europeo? E non era forse aliena l’immagine del Cristo che in ogni cruenta e sanguinosa battaglia veniva brandito come una spada, benedicendo i massacri dei senza-Dio? E che dire poi dell’invasione europea, iberica soprattutto, nei primi anni di conquista: saranno stati considerati decisamente alieni tutti questi uomini e donne che parlavano un’altra lingua, vestivano in un altro modo, avevano altri tratti somatici e un’altra carnagione. Calati dall’alto, in quell’impero che non aveva mai avuto nei due secoli precedenti sostanziali contaminazioni con l’esterno. E a proposito di contaminazioni aliene, come spiegarsi le varie epidemie, di cui la più terribile fu il vaiolo, trasmesse dai soldati europei sbarcati sulle coste atlantiche qualche anno prima, che si propagarono così rapidamente in tutto il territorio sudamericano arrivando sulle Ande ancor prima degli spagnoli, e decimando le popolazioni locali? Chissà se qualcuno pensò ad una punizione divina... Eppure Macchu Picchu si è preservato da tutti questi avvenimenti, ed è meraviglioso, noi crediamo, proprio per questo. Ha il fascino del puro, dell’incontaminato, del passato che ritorna dal suo silenzioso isolamento.

BLOCK NOTES PERU’, di Francesca Marsilio e Andrea ZamparoEd è pur vero che il Perù è anche altro, nel bene e nel male: è il paese dalla cucina straordinariamente varia e gustosa, dove le ricette locali vengono rivisitate in salsa europea; è il paese dei colori e del mate de coca; di invidiabili ricchezze paesaggistiche e di una fauna selvatica dalle infinite specie; è il paese dello scrittore Vargas Llosa, della musica folk, della lana d’alpaca e di vigogna, ma è anche il paese delle dittature militari, del terrorismo di Sendero Luminoso, di un’economia fragile ed eterodiretta; è il paese della deforestazione, dell’inquinamento industriale e del caotico iper-sviluppo urbano, della povertà dilagante e di tante altre cose ancora...

Per noi il Perù comunque si chiude qui, in questa sera di ottobre, dove incredibilmente da soli e per ultimi, in religioso silenzio, lasciamo quasi in punta di piedi la città perduta: dietro di noi il sipario di montagne si chiude lentamente. Per me e Francesca quei panorami, quelle pietre, quegli scorci, quel profondo significato di rinascita ci fanno ripartire, anche se stanchi, più forti di quando siamo arrivati.
Perché a noi il Perù ha regalato la bellezza della riscoperta, qualunque essa sia.


Francesca e Andrea sono sposati, vivono a Tavagnacco e sono iscritti entrambi alla sezione del CAI di Udine dove si sono conosciuti. Oltre alla passione per la montagna e per la natura, il loro passatempo preferito è viaggiare: non importa se vicino o lontano, se dietro casa o a migliaia di chilometri di distanza. Perché l’andare porta sempre con sé la meraviglia. Dal Messico alla Birmania, dall’India al Perù, dal Guatemala alla Giordania, dal Marocco all’Islanda e a numerosi piccoli e grandi spezzoni d’Italia e d’Europa cercano di rincorrere la loro voglia di conoscere. Non sono fotografi, ma come tutti fanno fotografie. Presentano in questa occasione un loro personalissimo diario di viaggio in Perù, accompagnato dalle immagini dei luoghi che li hanno ispirati.
Hanno presentato il loro viaggio al DLF Udine il 16 ottobre 2015, nell’ambito della rassegna ItineRARI.

INFORMAZIONI

Associazione DLF Udine

Viale 23 marzo 1848 n° 26, Udine
Tel. 0432 522131 fax 0432 522179
Segreteria dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.30 alle 12.30 e dalle 15.00 alle 19.00.
Sabato dalle ore 9.00 alle 12.00
e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Internet www.dlfudine.it