Lo scoppio sembrò crepare il cielo; ne seguì un silenzio lungo, ottuso. Una colonna di fumo superò il ponte, per dileguarsi lentamente. Giulio era riuscito a cogliere lo scoppio, e si ritenne soddisfatto. Si era appostato lì che era ancor buio, molto prima che quelli della polizia chiudessero Porrettana e Autostrada. Mentre chiudeva il treppiede, si trovò a riflettere. Per la prima volta sentì la guerra vicina a casa sua e non alla stregua di quel racconto che i parenti anziani gli avevano proposto più volte.
“Secondo me ce ne sono delle altre là sotto”.
“Come?”, ebbe modo di chiedere Giulio.
“Il 25 settembre bombardarono tanto e il ponte era nel mirino degli alleati”.
“Non riesco a capacitarmi”, replicò Giulio. “Nei racconti tutto sembra logico, quasi ovvio; di fronte agli scoppi provo un senso d’angoscia”.
“La verità vista in faccia spesso fa male”, disse l’estraneo. “Il racconto addolcisce i pensieri e le idee”, concluse.
Giulio si mise a riflettere.
Pensò al padre, alla madre, a quelle fotografie che sembravano lontane e impossibili. Vide soldati, camion, carri, fango; forse anche fame e disperazione. Oggi rimaneva una bomba ritrovata e una colonna di fumo nel cielo d’estate.
“Tempi duri”, riprese l’estraneo.
“Mi scusi, non ero attento”, disse Giulio.
“L’ho vista triste e credevo stesse pensando alla guerra, a quei periodi”.
“In effetti, cercavo di comprendere come potesse essere lo stato d’animo della gente di allora”.
“Oddio, si è posto una domanda difficile”. “Col tempo”, continuò l’estraneo, “ci focalizziamo sui drammi del conflitto, giustamente peraltro; ma ci sarebbero altri elementi da considerare, che hanno fatto parte delle idee di chi c’è stato, particolarmente per quanto accadde qui durante quel fine ‘44”.
Giulio aveva sistemato le sue cose: il treppiede nella custodia e le fotocamere nello zaino.
“Sto per andare”, disse al suo interlocutore. “Mi perdoni, non mi sono neanche presentato”.
“Non importa, la conosco”, disse l’estraneo. “Lei è il fotografo del paese, la si vede spesso in giro”. “Io mi chiamo Gianni”.
Giulio l’osservò con attenzione.
Ci sono persone che paiono uscite dal nulla: né giovani, né vecchi, bensì soltanto diversi. Individui che evidentemente hanno cambiato vita e, per questo, hanno assunto quasi una divisa differente.
Lo sguardo era attento, lucido, su un volto ben conservato.
Trapelava poi un’intelligenza antica, serena, consolidata dall’esperienza.
“Torna in paese?”, chiese Gianni.
“Sì, viene anche lei?”, domandò Giulio.
“Se posso, ne approfitto”.
Salirono sull’auto e percorsero alcuni chilometri in silenzio, poi Gianni iniziò a parlare.
Descrisse i luoghi, i fatti, i ponti saltati, i prati con l’artiglieria. Parlò dei giovani, dei ventenni, schiaffeggiati dal peso delle ideologie e resi inermi dalle prospettive.
“Vuole conoscere un po’ della guerra”, chiese Gianni.
“Non saprei”, ebbe modo di rispondere Giulio.
“Giri a destra e vedrà”.
La strada s’inerpicava ripida e dissestata.
Giulio non era mai stato da quelle parti e guidava con una certa curiosità.
Gianni aveva detto che si trovavano in territorio tedesco, ma non riuscì a focalizzare il fatto. Quella Linea Gotica tanto narrata per lui rimaneva sempre un mistero.
Ancora una curva, poi si trovarono all’interno di un piccolo paese di sasso.
Tracce di modernità affioravano dalle finestre e dei bambini giocavano in uno slargo della strada. Su un sasso sedeva un signore. Scesero dall’auto.
“Ciao Gianni”, disse il signore seduto, che poi chiese: “Cosa ci fai con Giulio?”
Era Frank.
I due evidentemente si conoscevano.
La confidenza con la quale parlavano faceva intendere un’amicizia solida e consolidata.
“Cosa fai qui Frank?”, chiese Gianni.
“Ascolto i venti di guerra”, rispose. “Voi eravate tutti ad assistere al brillare della bomba, così ho preferito starmene qui, con le orecchie tese”.
Giulio si sentì un po’ messo da parte, ma non se ne ebbe a male.
Provava altresì una sensazione strana, come se il tempo stesse rallentando.
“Vieni, Giulio”.
Era Frank a chiamarlo. Lui si avvicinò e si sedette di fianco all’amico. Gianni osservava i bambini mentre giocavano.
“Cos’hai tra le mani?”, chiese Gianni rivolgendosi a un biondino.
“Un foglio, l’ho trovato a casa di mio zio”.
“Fammelo vedere”.
Il bambino obbedì. Si trattava di una carta scura, minacciosa.
I caratteri gotici facevano intendere che era tedesco, eppure il significato espresso veniva formulato in inglese.
“Non si combatteva solo col cannone”, disse Frank.
Gianni con lo sguardo sembrò confermare.
“Giulio, chiudi gli occhi e pensa”, disse Frank. “Li vedi due amici?”, chiese dopo.
Giulio provò un certo imbarazzo. Ogni tanto gettava lo sguardo sul foglio di carta nero.
Il senso era minaccioso.
Parlava di un destino imminente, di qualcosa che sarebbe potuto accadere domani, forse subito. L’alternativa era la resa, incondizionata: passare il confine della guerra e andare di là, anche solo per sfamarsi.
Sì, li vedeva i due amici di quel ’44. Erano seduti sullo stesso sasso.
“Io vado”, diceva l’uno all’altro. “Qui non ho più nessuno”.
“E io cosa faccio?”, domandava il coetaneo.
“Vieni con me”, fu la risposta.
Giulio continuava a pensare.
L’altro amico non andò. Li separò una notte di luna, con in lontananza i chiarori delle cannonate.
I due si guardarono ancora una volta, da lontano; poi non s’incontrarono più. La guerra, quella della paura, aveva reciso un’amicizia, ma anche i sentimenti giovanili.
“Era difficile scegliere”, disse Giulio ad alta voce.
Frank e Gianni lo guardarono in silenzio. Compresero.
“I conflitti riguardano i giovani; è il brutto della guerra”. Fu Frank a dirlo. “Allora si ruppero amicizie, amori, rapporti di parentela”. “C’era disordine e caos, con il timore in mezzo”. “Oggi, ripensando ai fatti, ci appoggiamo all’ideologia, ma il domani premeva di più, la speranza d’arrivarci”.
“E i due di questo sasso?”
Frank e Gianni si guardarono con un sorriso.
“Lasciamoli dove sono”, disse uno dei due.
Gianni ridiede il foglio al biondino. Lui poteva non provare paura.
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Luciano Marchi
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