Marco amava guidare di notte. La musica della radio pareva accompagnarlo, quando gli orizzonti cambiavano, mostrando un contorno che di giorno sarebbe stato invisibile. Ecco, sì; del buio apprezzava la diversità, il fatto di poter esplorare luoghi difficili a ritrovarsi, tra luci e ombre scure, quando le linee bianche e gialle finivano per congiungersi nel nulla: laggiù, dove doveva andare.
Anche quella notte fu così. Il motore diventò silenzio e l’autostrada proponeva un proprio ritmo: tra salite e discese, ponti, cartelli illuminati. Qualcosa però lo turbava. La sosta in Autogrill l’aveva rinfrancato e anche le chiacchiere con la barista biondina, quella col sorriso infantile e le fossette sulle guance. Aveva parlato a lungo con lei, anche vergognandosi: era più giovane di lui e troppo carina, con quella divisa a contornarle i fianchi e stretta al punto giusto. Quando si voltava, per preparare un caffè, s’intuiva un corpo adulto, pieno, completo, pronto per i sogni e le idee. Una bella donna.
La conosceva da tempo, il che gli permetteva qualche confidenza. Quella notte, però, la salutò con garbo, senza alludere nulla: qualcosa stava cambiando.
Si rimise alla guida con un po’ d’amaro in bocca, mal celato dal sapore del caffè. Chi era lui? A che punto della vita? Cosa avrebbe potuto chiedere a se stesso e all’esistenza intera? La musica non riusciva a calmarlo e neanche quella sigaretta fumata col finestrino semiaperto. Cercò il ritmo della strada, anticipando le curve. Provò piacere nel sentire che l’auto s’appoggiava a ogni sterzata, così spinse sull’acceleratore. Pioveva e il tergicristallo proponeva scenari rinnovati a ogni spazzolata. Di solito avrebbe apprezzato quegli istanti: le gocce che scomparivano, il vetro terso, le luci scintillanti; era il momento a non convincerlo, come se si fossero riaperte ferite antiche, cerchi mai chiusi, totali ancora da calcolare.
Accelerò ancora. Il motore rumoreggiò coprendo la musica. L’orizzonte diventò un punto lontano, quasi sfocato. Poi… poi fu luce, tanta; veniva da dietro, bianca, quasi trasparente, diafana e fastidiosa. Non ebbe il tempo di capire, perché un urto produsse uno stridore metallico, sulla fiancata sinistra. L’auto iniziò a girare, una o due volte, forse tre. Tutto divenne lento, irreale, quasi soffice. Si ritrovò sul bordo dell’autostrada, in corsia d’emergenza; i fari proiettavano due strisce bianche contromano. I tergicristalli si muovevano ancora: l’unico rumore a coprire la musica, ormai priva di senso.
Scese dall’auto con un po’ di fatica. Un’ammaccatura percorreva tutta la fiancata e aveva incastrato lo sportello. Si ritrovò in piedi sotto la pioggia, immerso nella notte scura: una volta piacevole, ma ora nemica e avversa. Guardò la campagna che sembrava abbaiare, solo una piccola luce si stagliava all’orizzonte. Non capiva.
Si toccò la testa. Una goccia di sangue correva giù dalla tempia. Provò a pulirsi con un fazzoletto, mentre tentava di capire dove si trovasse in quel momento. Un’auto sfrecciò suonando il clacson. Quello che aveva non contava più nulla ed anche lui era inutile a se stesso e alla vita, un po’ come quei rifiuti laggiù, in fondo alla scarpata. Eppure là qualcosa si muoveva: sì, proprio di fianco alle bottiglie di plastica. “Sicuramente un topo”, si disse; ma no, il pelo era biancastro. Si sporse per guardare meglio. “Possibile?”. L’erba bagnata lo fece scivolare e cadde all’indietro. La fanghiglia gli entrò nei pantaloni e dietro la schiena. Si ritrovò seduto, bagnato di pioggia, con un leprottino davanti.
I due, lui e l’animale, si guardarono a lungo; poi l’altro iniziò a correre, lentamente, a piccoli balzi: si stava allontanando su un campo arato. Avrebbe voluto seguirlo e, dopo un attimo di esitazione, si mise sulle sue tracce. Voltandosi un attimo, riconobbe la sua auto con i fari accesi: non importava, sentiva che quell’incontro avrebbe potuto cambiare la sua vita. Per sempre.
La terra era morbida, morbida e bagnata. Il leprottino si trovava a suo agio, lui invece sprofondava nel fango fino al ginocchio. Respirava anche a fatica, ma questo lo faceva star meglio: la macchina del suo corpo rispondeva a dovere, il che lo rinfrancava.
Il terreno divenne più duro e il leprottino scappò via come spaventato. Rimase da solo, davanti a una grande casa di mattoni. Una luce in alto illuminava la porta e una panchina di sasso appoggiata al muro: decise di sedersi.
“Non so più cosa guardare”, disse a se stesso.
Un sibilo secco ruppe il silenzio, poi il rumore di una catena che sfregava il terreno. Un grosso cane corse verso di lui, abbaiando. Si fermò perché era legato al collo, ma mostrava i denti, quasi con cattiveria.
Le finestre della casa s’illuminarono: “Cosa c’è Dick?”. “Stai buono”, disse una voce.
E poi: “Chi è lei?”. “Cosa fa qui?”.
“Ho seguito il leprotto”, rispose.
Si aprì una porta, ne uscì un contadino alto e robusto.
“Cosa vuole da noi?”, domandò
“Ho seguito il leprotto”, rispose.
Luciano arrivò che era quasi mattina. Di fronte alla grande casa vi erano un’ambulanza e un’auto dei Carabinieri. Una luce bluastra e intermittente scivolava sul muro della grande casa. Lui, Marco, ripeteva sempre:
“Ho seguito il leprotto”.
“Ecco, non fa altro che ripetere le stesse parole, portatelo via”, suggerì il contadino.
“Lasciate stare, ci penso io”, disse Luciano.
“Ci sarebbe da denunciare il sinistro”, affermò un Carabiniere.
“Penseremo anche a quello”.
“Eccolo, eccolo”, urlò Marco.
Senza una ragione logica, tutti cercarono di catturarlo: i Carabinieri e anche il contadino. Solo Luciano rimase a guardare la scena, poi domandò:
“Cosa ci facevi a Novara?”.
“Le solite cose”, rispose Marco, “Quelle che non farò più”.
“Ecco il suo leprotto”, disse il contadino, questa volta più accondiscendente e col fiatone in gola. Era riuscito ad afferrarlo.
Marco lo prese con rispetto e meraviglia. Il piccolo animale pareva intimorito, ma si era rassegnato a stare tra le braccia di Marco, che iniziò ad accarezzargli le orecchie.
Tutti osservavano la scena con curiosità, mista a un’incredibile tenerezza.
“Andiamo a casa”, disse Marco; e riuscì a convincere tutti, che quindi lasciarono l’aia della grande casa.
“Porteranno la tua auto a Porretta”, accennò Luciano.
“Non mi servirà più”, concluse Marco.
Luciano guidava. I due stettero in silenzio a lungo. L’amico teneva sempre il leprottino in grembo. Arrivarono a Sasso Marconi che albeggiava.
“Dove mi porti?”, chiese Marco.
“Come?”, domandò Luciano.
“Dove andiamo adesso?”, ribadì l’altro.
“Non vuoi andare a casa?”.
“Non ci torno più a casa”, esclamò Marco.
“Non scherzare”, ribadì l’altro. “In tanti sono stati in pensiero per te”.
“Tu sei fortunato, Luciano”.
“Dici?”.
“Certo, hai capito cosa fare e dove guardare”. “Sei sempre solo nei boschi a fotografare, in ogni stagione”. “Per te la fotografia non è un pretesto, ma un modo di vivere”.
“Però il libro l’abbiamo prodotto insieme…”
“Sì, perché ti sono venuto dietro”. “Se non mi chiamavi, rimanevo quello che ero: un inconsapevole”.
“E allora, dove vuoi andare?”, chiese Luciano.
“Decidi tu”.
Il sentiero era agevole, solo leggermente umidiccio. Marco portava sempre in braccio il suo leprotto e appariva diverso, più agile, nonostante i pantaloni rigidi per via del fango. A un certo punto si mise quasi correre, su per una piccola salita. Una volta scollinata, ecco tre archi: La Madonna del Faggio.
“Quante volte sei venuto qui, Luciano?”.
“Tante, anche d’inverno, con la neve”.
Oltre il ponte, Marco si fermò. Poggiò il leprotto per terra, ma questi non voleva muoversi. Bastò però un piccolo colpo sulla coda e l’animale parve destarsi. Iniziò a correre, fermandosi poco dopo. Guardò i due da lontano, poi fuggì via. La sua vita era cambiata, ora toccava a Marco; che intanto piangeva.
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