La piazza illuminata era tutta per loro: non c’era nessuno. Correvano da una parte all’altra, mano nella mano: felici, consapevoli del loro momento. Avevano deciso di lasciare la festa senza neanche parlare, solo con lo sguardo; perché si piacevano, tanto, riconoscendo per la prima volta istinti e sentimenti.
Lui era alto, magro; vestiva dei pantaloni attillati a zampa di elefante, che quasi coprivano le scarpe a punta. La camicia, stretta in vita, era di un azzurro acceso. I capelli lunghi e neri incastonavano un viso spavaldo, da spaccone.
Lei era piccolina, ben fatta e formosa. Un vestito nero l’avvolgeva tutta. Gli anfibi ai piedi non le toglievano grazia, anzi: restituivano peso a un claudicare troppo leggero. Anche i suoi capelli erano neri, come gli occhi. Le labbra rosse si stagliavano su un viso delicato; più in giù, si poteva immaginare il seno color madreperla.
Arrivarono ai giardini pubblici col fiatone in gola. Lui si piegò, poggiando le mani sulle ginocchia; lei rimase a guardarlo, aspettando il momento che stava per arrivare.
Entrambi si bagnarono i capelli con l’acqua della fontana, tirandoli indietro. Le labbra gocciolavano appena, ma ancora una volta non pensarono a baciarsi. Tornarono a correre, questa volta saltando anche le siepi delle aiuole. Sorridevano, ogni tanto; quasi a provocarsi. Lei tentò di nascondersi, lui la raggiunse, per poi farla scappare ancora, così, quasi per gioco. Si rincorsero a lungo, in una notte ormai tutta per loro.
Una luce sembrò quasi chiamarli. Era giallognola e proveniva da una scatola di metallo, piuttosto grande. Sopra campeggiava una scritta in stampatello: fototessere; e una piccola tenda nascondeva l’interno, ancor più luminoso. I due ragazzi si avvicinarono circospetti, aprirono la tenda e lessero le istruzioni. Avrebbero potuto fotografarsi, con pochi soldi; quattro volte in fila. Regolarono lo sgabello, stettero vicini e flash: ecco i due visi; ancora flash: le guance vicine; un altro lampo, poi l’ultimo: quello del bacio.
La scatola si mise a fare rumore e la luce divenne più tenue; ma i due iniziarono ad abitare quella piccola casa, con le mani ora più curiose e decise. Lei si sollevò dallo sgabello, poggiando la schiena alla parete; lui accolse l’invito con l’andirivieni dell’amore, quello che si ferma solo dopo lo spasimo del piacere.
Uscirono che erano stupiti. Sistemarono i vestiti senza gardarsi. Di fianco alla porta della piccola casa era uscita una strisciolina di carta. Si riconobbero: erano loro, prima. Lui la guardò come con spavento, lei ci si soffermò a lungo, quasi sospirando; poi la ripose nella piccola borsetta.
Le mani si cercarono ancora, trovandosi. I due attraversarono la piazza a ritroso, senza correre questa volta.
“Come ti chiami?”, chiese lui.
“Alice”, rispose la ragazza.
“Io Fabio”.
I due camminarono ancora, in una notte ormai tutta loro. *
Non tutti hanno amoreggiato in una cabina da fototessera, diciamo che il racconto ha voluto essere una provocazione per dire come quel formato abbia rappresentato uno stile, se non addirittura una forma d’arte. Oliviero Toscani ha usato il ritratto “pieno” per le campagne pubblicitarie. Certo, allora si trattava d’ingrandimenti, ma lo stile era quello da “documenti”.
Anche in passato la fototessera ha avuto i suoi momenti di gloria: pensiamo alle carte-de-visite, del parigino Disdéri. Anche l’arte si è interessata al genere e i nomi sono stati altisonanti: Magritte, Walker Evans, Araki, Andy Warhol.
Per arrivare a noi, la fototessera serve, è utile; ma il momento dello scatto è una parentesi di viva umanità. Da questo punto di vista, posso ritenermi fortunato perché la gente, per strada, mi riconosce, particolarmente i bambini. Poi ci sono quelli che non riescono a sorridere, o che posano male. Dedicare il volto al fotografo vuol dire mostrargli l’anima e anche un po’ della propria storia. Chissà, forse un giorno entrerà Alice e si farà ritrarre per il passaporto.
“Fabio, tocca a te, io ho già fatto”, potrebbe dire.
Ne sarei felice.
* Luciano Marchi
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