Ricordi dell’immediato dopoguerra (conflitto mondiale 1940-1945) - Dopo il tragico periodo che ha ucciso padri, figli, fratelli e mariti, poche sono state le famiglie fortunate che hanno potuto riabbracciare i propri cari e ricomporre il proprio nucleo. Furono tempi duri per tutti.
Si viveva in trepidazione, sorretti da un silenzioso sentimento di speranza, che dava la forza di continuare a vivere giorno dopo giorno.
Ero ancora piccolo, però ricordo bene, come fosse oggi, il suono delle campane che annunciarono la triste notizia. La mia mamma si mise a piangere, ingenuamente le chiesi “perché piangi?” E lei mi rispose che sentire suonare tutte insieme le campane la emozionava; tra l’altro l’effetto di risonanza era notevole, si sentivano suonare in contemporanea le campane dei paesi intorno, anche per un raggio di vari chilometri.
Stanghella, il mio paese, si trova tra gli argini di due fiumi, il Gorzone e l’Adige, che distano tra loro quattro chilometri circa, e giungevano fino a noi i suoni delle campane di Boara Pisani, Stoppare, Anguillara, Vescovana, Barbona, Santa Maria D’Adige e Conca di Rame. Tutti le sentivano. Poteva essere un segno di grande festa, invece no. Non quel giorno. Io non sapevo distinguere la differenza dei suoni, ma la mia mamma e tutte le altre persone più grandi di me si dicevano tra loro: questo è il suono di campane a martello. In ogni campanile c’è una campana che al posto del batacchio ha un martello, come nel campanile di San Marco a Venezia, dove due mori col martello battono puntualmente i rintocchi delle ore. Quella campana, secondo l‘usanza, suonava per comunicare ai fedeli che un compaesano aveva intrapreso il suo lungo viaggio per l’aldilà. In questo caso però le campane comunicavano a tutti gli italiani che il nostro paese, alleato con la Germania, era entrato in guerra contro l’Inghilterra e la Francia.
Poi la guerra finì. Mi sovviene, tra i ricordi molto più sereni del dopoguerra, sebbene appartenessero sempre a un vivere da poveri, il duro lavoro che impegnava i miei fratelli maggiori. Per la mia età la prospettiva era quella di andare a scuola e di dare possibilmente un aiuto per certi servizi di carattere domestico.
Io ero il più piccolo di otto fratelli; i più grandi erano già occupati nei lavori agricoli, chi in avventiziato, chi in lavori stagionali presso feudatari del territorio, chi nella campagna dello zuccherificio oppure qualcuno era già avviato al lavoro dei carriolanti, cioè all’opera di bonifica degli argini dei fiumi, in particolare le anse dell’Adige e del Gorzone: questo lavoro consisteva nello spostamento di terreno, con la carriola, dal precostituito deposito al punto di collocazione.
In quel tempo era usanza in tutte le famiglie avere una scorta di “pan biscotto”. Ricordo che in certi pomeriggi d’inverno, quando salivo al piano superiore della nostra casa, composto di tre stanze molto gradi, dove una di queste era anche una specie di cambusa con le scorte alimentari, in una grande madia con diversi comparti per i cereali e le farine, trovavo il comparto del pan biscotto. Nel bel mezzo del pomeriggio, tutti noi fratelli, con l’approvazione della mamma, se ne prendeva una mezza "cioppa" e si faceva merenda. Oggi si comprano le merendine confezionate quando si vuole, secondo le preferenze. Per una famiglia numerosa come la mia, avere allora una scorta in casa era una necessità. Quella stanza era l’ideale per la conservazione dei cibi, d’inverno era fredda come un frigorifero, diversamente dalle altre stanze non aveva il soffitto, vale a dire che non c’era quella parte che separa il crinale del tetto dal vano sottostante. D’inverno si vedeva la brina che brillava sulle travi di legno e sulle tavelle di sotto tegole.
E’ bello per me ricordare il vivere di quei tempi, le stagioni erano ben distinte e in particolare quella invernale, che era più impegnativa delle altre. La nostra famiglia numerosa, come tante altre di quei tempi, dava ai nostri genitori un gran da fare per garantire a tutti una vita dignitosa, ed è qualcosa di cui possiamo ancora oggi vantarci, ad onore dei nostri esemplari genitori.
Sentivo la mia mamma che diceva al papà: “La prossima settimana bisogna andare al mulino per la farina”, quindi iniziava la preparazione di quello che era un evento speciale, che si ripeteva due volte nel periodo invernale: “fare il pan biscotto”. Si preparava la scorta per il periodo invernale perché era molto difficile per le famiglie povere come la mia fare un chilometro di strada con neve e ghiaccio per andare giornalmente dal fornaio, ecco quindi che ci si organizzava di conseguenza. Con il focolare sempre acceso, si cuocevano tutte le vivande, con il paiolo si faceva la polenta. Per il giorno di festa si facevano delle ciambelle con dentro l’uvetta.
In paese c’era la famiglia Muraro che aveva il forno, con tanto di laboratorio per la preparazione dei prodotti da cuocervi. Erano degli specialisti: gli uomini curavano la gramolatura, che veniva effettuata dopo che il primo impasto era stato eseguito in una tinozza di legno con farina, acqua, sale e lievito. A questa fase erano dedicate le donne: la padrona di casa, la signora Mafalda, Eufemia, la mia mamma, e mia zia Beppa.
La gramola è una macchina rudimentale tutta di legno, un insieme di leve con il fulcro fissato al piano di una specie di panca, ai due estremi della quale si posizionavano due operatori, di cui uno azionava la leva maestra, producendo il moto di su e giù, che permetteva il movimento alla barra centrale. L’altro operatore, seduto sulla panca al capo opposto, aveva il compito di girare l’impasto del pane che, con sincronismo nei movimenti, veniva gramolato (si diceva che dalla buona gramolatura si distingueva la fragranza del pane). Più avanti nel tempo, con l’evoluzione tecnologica, questa macchina è stata sostituita dell’impastatrice elettrica.
Gli uomini curavano il fuoco per la temperatura ideale alla cottura, mentre le donne confezionavano le cioppe da infornare e riuscivano anche a dare ad esse delle forme fantasiose per la gioia dei più piccoli.
Questo lavoro veniva programmato per tempo: si concordava la data di cottura con il titolare del forno e in funzione di ciò seguivano le altre fasi di preparazione. Tutto si svolgeva dall’imbrunire all’alba del mattino seguente. Quando arrivava il fatidico momento di affrontare "la notte del pan biscotto”, il nonno attaccava l’asino al carretto e trasportava al forno l’occorrente per la panificazione e anche delle coperte perché a turno chi si dedicava a questo lavoro potesse fare un riposino. Di solito erano impegnate la mia mamma e la zia Beppa.
Il mattino di buon’ora il nonno andava a prendere il prodotto finito, con le coperte copriva i quattro sacchi di pan biscotto che emanavano un delizioso profumo e ancora adesso se chiudo gli occhi mi pare di sentirne la fragranza.
Mantes
(Milano, 25 luglio 2018)
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