Intorno al 1630 per tutta la Val di Scalve infuriava la peste. Questo terribile morbo, unito alla grande carestia del tempo, stava decimando la popolazione della vallata. I numerosi malati, girovagando senza meta fra i vari paesi, rischiavano di contagiare anche le poche persone rimaste indenni dal morbo.
Uomini e donne cercavano rifugio nei boschi o sulle montagne per sfuggire al contagio, ma il clima rigido della zona ebbe presto ragione di quei poveretti debilitati dalla fame.
Un boscaiolo di Schilpario aveva moglie e due bei figlioli, un maschio e una femmina, ed era particolarmente preoccupato da quella situazione insostenibile. Aveva visto parenti e amici morire perché contagiati dalla peste e temeva per la sorte dei suoi figlioli.
Fino ad allora era riuscito a preservarli dal contagio perché li teneva rinchiusi nelle cantine della loro casa, ma la lunga permanenza in ambienti umidi e bui nuoceva alla giovane struttura fisica dei ragazzi. I giovani, lo sapeva bene, hanno bisogno di aria pulita, di sole e di spazi aperti dove correre e rinforzare le membra. Vedeva, infatti, i suoi figli divenire sempre più pallidi, malaticci e soffriva per questo stato di cose.
Una sera, mentre discuteva sul da farsi con la moglie, si avvicinò alla finestra e, guardando in direzione del Pizzo Camino, si ricordò di una grotta che aveva visto da ragazzo. Prese la decisione e il giorno dopo, all’alba, senza farsi vedere da nessuno in paese, partì alla volta del monte, assicurandosi che i familiari restassero per precauzione ben chiusi in casa.
Salì lungo la valle che si diparte, nascosta dalla folta vegetazione, sopra la contrada della Volta. Passato il primo alpeggio, salì al secondo ma non volle fermarsi a guardare le baite perché sapeva che i proprietari erano morti di peste e temeva che toccando i muri o gli oggetti presenti al loro interno potesse contrarre anche lui la malattia. Salì dunque più in alto, fino al passo che mette in comunicazione con il comune di Azzone.
Nessuno, per quanto gli consentisse la vista di spaziare, si vedeva nella zona. Era già da tempo che pastori e cacciatori, colpiti dalla peste, non salivano più in montagna.
Questo lo rincuorò e si persuase che la sua decisione era quella giusta. Giunse in breve a ridosso dell’anfratto che aveva visto da ragazzo e che lo aveva stupito per la sua forma curiosa: un enorme roccione posto a cavallo della linea spartiacque tra il comune di Schilpario e quello di Azzone, in posizione dominante sull’intera vallata. Caratteristica di questa roccia è l’enorme foro che la passa da parte a parte, formando una specie di grotta con due uscite. All’interno della roccia, poi, c’era anche un piccolo pertugio, rialzato da terra e raggiungibile con una piccola scala. La posizione dominante, inoltre, permetteva di controllare la zone e avvisare per tempo eventuali intrusi.
Contento che la sua esplorazione aveva dato buoni risultati, scese di corsa al paese a informare la moglie e i figli. Alla sera, dopo la frugale cena, radunarono velocemente le poche cose utili alla permanenza in montagna e quindi si apprestarono a trascorrere la notte, che passarono senza dormire per l’agitazione.
Prima del sorgere del sole, per non essere scorti da qualcuno, si misero in cammino ripercorrendo la valle che il padre aveva salito il giorno prima. Con loro avevano portato anche alcune galline e conigli e le poche capre che possedevano.
Verso mezzogiorno giunsero alla meta e il boscaiolo vide con piacere che il posto piaceva sia ai figli che alla moglie. Senza porre tempo in mezzo iniziarono i lavori per rendere più accogliente il riparo. Mentre la moglie e i figli tagliavano l’erba per fare i giacigli, l’uomo iniziò a lavorare per allargare il buco all’interno della grotta e per ricavare una sorta di stanza. Nei giorni successivi i lavori proseguirono e vennero eretti anche i ripari per gli animali domestici.
Incominciarono così, il boscaiolo e la sua famiglia, una nuova vita, scandita giorno dopo giorno dal continuo rintoccare delle campane dei paesi sottostanti. Non era uno scampanìo leggiadro e felice, bensì erano i rintocchi che segnavano le numerose morti.
Alla sera, riuniti sulla sommità del colle a guardare il paese sempre più deserto, alle domande dei figli che temevano che qualcuno salisse fino a loro lungo la valle, egli rispondeva: “Hai voglia”.
Non si sa se la famiglia scampò alla peste, ma ancora oggi la valle sottostante la Corna Busa si chiama Val di Voglia, mentre all’interno del grande roccione cavo c’è l’antro che servì loro da rifugio.
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Sante Mazziero - DLF Milano
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